Nel primo volume della trilogia che ci accompagnerà lungo cento anni di storia, "Il volo delle aquile", le vicende degli orfani Acevedo si mescolano con le avvincenti evoluzioni di un secolo, il Cinquecento, che vedrà l'affermarsi della dinastia degli Asburgo. In seguito alla scomparsa prematura di tutta la discendenza maschile della dinastia castigliano-aragonese, e in particolare dopo la morte del padre Filippo il Bello e l'infermità della madre Giovanna di Castiglia - creduta da tutti pazza -, a diciannove anni Carlo V si trova a capo "di un impero che non si era mai visto neppure ai tempi di Carlo Magno". Ed è proprio al volgere del secolo che la vita dei fratelli Acevedo cambia per sempre, quando, una notte, i genitori vengono barbaramente assassinati in casa. A prendersi cura di loro da piccoli sarà la zia Angela, cugina di Isabella di Castiglia, sovrana di Spagna e madre di Giovanna. Davanti all'ingiusta prigionia di Giovanna - imposta prima dal marito (le infedeltà del quale sono la vera causa delle crisi di nervi della donna), poi dai genitori - Manuela, nel frattempo diventata sua damigella e confidente, si convincerà che una vita tranquilla, al riparo dalla passione, sia la scelta migliore. In realtà sia lei sia i suoi fratelli, Gabriel, Octavia e Sofia, tutti destinati ad accasarsi nelle migliori corti d'Europa, scopriranno presto che all'amore non si sfugge, e proprio l'amore rappresenterà per alcuni di loro un destino tragico. Mentre i segreti di famiglia a poco a poco vengono a galla, rivelando sconcertanti verità, sui campi di battaglia soccombono eroi come il leggendario Giovanni dalle Bande Nere, e intorno ai nostri quattro testimoni d'eccezione la Storia dispiega le sue consolidate geometrie: matrimoni d'interesse celebrati al solo scopo di rinsaldare alleanze politiche, sovrani capaci di tramare alle spalle dei loro eredi, principesse costrette a sposarsi giovanissime con uomini capricciosi e rapaci.
Se, come dicono i mistici ebraici, il silenzio è la voce con la quale Dio parla all'uomo, la grande letteratura è la voce con la quale l'uomo parla a se stesso, in un linguaggio che esprime con infallibile evidenza l'infinita, contraddittoria e oscura trama di pensieri e sentimenti, sogni e passioni, che da sempre agitano l'animo umano. Nella sua penetrante rivisitazione di pagine e figure memorabili della letteratura universale, Pietro Citati ne offre esempi eloquenti. L'urgenza della fede in un «Principio Supremo», radice comune delle tre religioni monoteiste, e l'amore per il Gesù dei Vangeli, raccontato e vissuto da Francesco, Angela da Foligno, sant'Ignazio e, quattro secoli dopo, da don Milani. Il «lavoro di commentatore dell'universo» di Montaigne e la cupa malinconia dietro le quinte delle commedie di Molière. La «furia di infinito» di Chateaubriand, attratto dalle magiche voci e dal sacro orrore delle foreste americane, e l'«esorbitante» pulsione visionaria di Balzac, incarnata nel personaggio del forzato Vautrin che da genio del male e dell'inganno si trasforma imprevedibilmente nel fautore del bene comune e di un'utopistica harmonia mundi. I tormenti di Charlotte Brontë, che solo nell'ombra della propria infelicità trova la giusta luce per narrare nel suo ultimo libro la storia di due persone felici, e la nevrastenia di Dostoevskij, schiavo della penna e inesorabilmente attratto dalla vertigine della roulette, forse perché sola metafora possibile di quel grande gioco d'azzardo che è per lui la letteratura. Ancora, il fascino per il mistero del dolore che portò Cechov nell'isola di Sachalin, il luogo delle «più intollerabili sofferenze», e la depressione che come un incubo irruppe nella vita di Tolstoj, confluendo nelle "Memorie di un pazzo". L'ossessione di Stevenson per il Male Assoluto, impersonato dal diabolico signore di Ballantrae, e la fatale prossimità di Conrad «al limite estremo» - come il capitano Whalley del racconto omonimo -, in cui si è già con «un passo dentro la morte». O l'incontenibile euforia di Virginia Woolf a passeggio per le vie di Londra, l'amata città-teatro di cui era estasiata spettatrice e in cui perdeva se stessa, abolendo «il suo io immenso e vertiginoso». E, fra gli italiani, la «divertita, insaziabile, disperata» curiosità che Calvino provava per se stesso, e il male invisibile sepolto nell'anima di Gadda, quella «fascia di tenebra» che ricopre tutte le cose visibili e invisibili, velando persino le apparizioni più dolci della natura. Assumendo spesso un punto di osservazione apparentemente marginale, Citati sa cogliere l'essenza di ogni creazione letteraria e artistica, che è, come scrive Scott Fitzgerald, un «nuotare sott'acqua e trattenere il fiato», e che da sempre convive con l'abisso, lo intuisce o ne viene perdutamente folgorata, in un ambiguo intreccio con la biografia del proprio artefice. Un'esperienza dell'assoluto e del silenzio che si capovolge nel miracolo stupefacente della parola.
Questa è la storia di un ragazzo che non ha mai avuto la sua età. Non ha neanche un nome, e per comodità lo chiameremo Zero. In realtà non ha mai avuto nulla. Perché la sua è una vita tutta in sottrazione, che ha sempre tolto e ha dato poco. Zero non ha cittadinanza, non ha madre, non ha soldi, e non si concede neanche il lusso di pensare al futuro. Zero ha dovuto capire in fretta che certe cose non si possono chiedere ai genitori, che ciò che è giusto non è patrimonio di tutti. Perché la vita non ha nessun obbligo di darti quello che credi di meritare e non lo ha nemmeno chi ti ha messo al mondo. Gli anni di Zero, dai sette ai diciotto, i capitoli che scandiscono il romanzo, sono duri, sono anni che hanno il sapore della povertà e della periferia. Ma sono anche anni passati ad attraversare strade in bici, con il cellulare attaccato a una cassa per permettere agli altri di sentire la musica. In piedi sui pedali, a ridere in mezzo alla via. Pomeriggi a giocare a pallone, a sperimentare il sesso e a bruciarsi per amore. Sono anni passati in quartiere consapevoli però che l'unico modo per salvarsi e garantirsi un futuro è andare via perché se nuoti nel fango, alla fine ti sporchi. Ma quello che c'è fuori fa paura. Ci sono gli sguardi indiscreti sui bus, le persone che tengono più stretta la borsa quando ci si avvicina, le ragazze che aumentano il passo e cambiano strada quando ti incontrano. C'è un Paese che non ti riconosce, gente che non si ricorda che essere italiani non è un merito ma un diritto. Fuori c'è la frase che ti ripeteva sempre la mamma e che ti rimbomba in testa "i bianchi nei neri ci vedono sempre qualcosa di cattivo". Ma di Zero ce n'è uno, nessuno e centomila e con Non ho mai avuto la mia età Distefano ci regala uno spaccato dell'esistenza di tutti quegli Zeri che con la vita si sono sempre presi a pugni in faccia, consapevole che ce la devi fare sempre anche quando non ce la fai più.
«Passiamo ore così, a fissarci e a non sapere che fare. Mi viene da dirle, Ma che vuoi da me. Io non ti merito. E lei mi guarda. Perché sa che in qualche modo la merito, anche se non sa come dirmelo». Alle tre di notte, mentre la città riposa, la madre e la figlia sono sul divano. Una ha due mesi e urla come un'ossessa, l'altra ha trent'anni e fissa la parete, coi piedi scalzi, cercando di ricordarsi com'era vivere quando di notte si dormiva. La scrittura materica e sensuale di Rossella Milone ritrae con esattezza la battaglia di emozioni che accompagna la nascita del primo figlio. Questo romanzo riesce in un'impresa impossibile: raccontare l'accidentato e recalcitrante processo che trasforma una coppia in una coppia di genitori. «Le madri e i padri posseggono millenni di esperienza alle spalle, ma nessuno in tutta l'evoluzione umana è mai diventato un genitore perfetto». Perché un figlio è prima di ogni altra cosa una rivoluzione cognitiva, e quando è troppo presto per parlare d'amore forse è proprio il momento giusto per farlo.
L'allegria di un'ammucchiata sul lettone la domenica mattina. L'emozione di ascoltare il respiro di un bimbo che dorme e di annusare il suo odore. Il cuore che batte all'impazzata in attesa del risultato di un altro test di gravidanza. Le risate per una puzzetta. La baraonda intorno al tavolo della colazione e la corsa per non fare tardi a scuola. La quotidianità di una famiglia numerosa è fatta di questi e tanti altri momenti di straordinaria normalità, che Gigi e Anna Chiara sanno raccontare con spontaneità, disincanto, tenerezza e una buona dose di sano umorismo. Dal loro amore sono nati quattro figli (più uno, venuto al mondo proprio mentre questo libro andava in stampa!), e con ciascuno di loro la meraviglia e la sfida di essere genitori si sono rinnovate. Ma anche la stanchezza che mette a dura prova il rapporto di coppia, la fatica di far quadrare i conti alla fine del mese, i dubbi e le ansie per il futuro, le battutine e le frasi fatte della gente che ti incontra per strada con una piccola tribù al seguito. "Ci vediamo a casa" è il ritratto a due voci della vita di una famiglia, senza filtri rosa e senza la pretesa di fornire ricette, perché ricette non ce ne sono, se non l'amore e la voglia di mettersi in gioco ogni giorno.
Questa raccolta di saggi e racconti brevi è una sorta di biografia privata dell'autore, ma è anche un'analisi critica che spazia su vari temi della realtà attuale, osservata con lo sguardo acuto che gli appartiene.
Matteo Bussola riconosce ciò che di straordinario si annida nelle cose ordinarie perché le guarda come se accadessero per la prima volta, come se sentisse sempre la vita pulsare in ogni cellula. Ed è con quello sguardo che racconta di relazioni sentimentali, l'istante in cui nascono, il tempo che abitano. Lo fa mettendosi a nudo, ricordando gli amori passati, per ripercorrere la strada che lo ha portato fino a qui, alla sua esistenza con Paola e le loro tre figlie. Soprattutto, lo fa specchiandosi nelle storie di ciascuno: quelle che incontra su un treno, o mentre sbircia dal finestrino della macchina, o seduto in un bar la mattina presto. Quelle che incontra stando nel mondo senza mai dare il mondo per scontato, e che la sua voce intima e familiare ci restituisce facendoci sentire che sta parlando esattamente di noi.
«Bussola sa scrivere. Usa le parole con accortezza, con cura, come se fossero importanti. Tanto importanti quanto le esperienze che raccontano».
Michele Serra
In queste pagine ho scelto di illuminare le cose che per me hanno un senso: l'amore dove lo scorgo - compreso quello dal quale, per paura o vigliaccheria, sono fuggito -, la cura quando mi colpisce, il dolore da cui ho imparato, la bellezza in quel che c'è, anche quando arriva inattesa e quasi a far male.
Non è amabilmente consolatore, il mondo di Landolfi, né amichevole, né tantomeno compiacente. Estraneo, piuttosto, luminosamente torbido e degradato. E, come in questa raccolta di racconti del 1975 – l'ultima sua –, più che mai urtante, percorso com'è da un eros luttuoso e sogghignante, da orride agnizioni, da avvilenti confessioni, da personaggi oltraggiati dalla vita, feriti dall'«invalicabile stridore» che li separa dagli altri, torturati da un'animale e irrimediabile tristezza. Sicché ogni racconto cela una sorpresa che ha su di noi lo stesso effetto di «un'unghia che stride contro un vetro, o d'una carezza contropelo» (I. Calvino): ci fa rabbrividire, e subito vorremmo scacciarla. Invano: incapsulata in una lingua tanto inconsueta quanto secca, lucida ed esatta, ogni immagine torna a riaffacciarsi, come una piccola testa malevola. Il fatto è che per Landolfi, uccisa ogni speranza, dobbiamo accontentarci «di gioie ambigue, torte e per giunta fuggevoli». Non c'è altra via di scampo, se non, estremo rimedio, un «genosuicidio» capace di liberarci da una «abominosa storia».
Monica Maggi con questo suo primo libro "Sguardo fisso sulla vita" ci mostra come anche dalle vicissitudini di salute, da lei affrontate e qui narrate, sia possibile trarre motivi di apertura alla vita e persino di spinta alla gioia di vivere. Suo obiettivo iniziale è quello di raccogliere sotto forma diaristica la successione di alcuni episodi che sconvolgono non poco il corso normale di vita, per ricavarne stimoli positivi di autoriflessione e incoraggiamento. L'obiettivo, infatti, diviene più complesso. Non si tratta più solo di dialogare con sé, di interpretarsi, di interrogarsi, ma di rendere il più vasto pubblico di lettori partecipe di un mondo di vissuti troppo ricco di significati per non es-sere comunicato. E Maggi lo fa sommessamente, con un linguaggio semplice e gradevole, uno stile scorrevole, un contenuto a forte carica emozionale. Utile specie a quanti non riescono a "intravedere la luce in fondo al tunnel" e sono in viaggio alla ricerca di un senso della vita. Viene così allo scoperto una personalità, quella dell'Autrice, estremamente sensibile, attenta all'umano, ma anche determinata e, persino, eccezionale. Per l'eccezionalità non tanto delle esperienze vissute, anche se non comuni, quanto del modo, anche coraggioso e sagace, con cui, con successo, le affronta e tuttora le gestisce.
Chi sfogliasse "L'album dei Mille", galleria fotografica degli eroi dell'impresa garibaldina, al n. 338 troverebbe la foto di Rosalia Montmasson, l'unica donna che s'imbarcò alla volta della Sicilia. Chi era quest'oscurata protagonista del Risorgimento? Una ragazza che incontra e si innamora di un giovane rivoluzionario pieno di sé, e per amore lo segue in tutte le avventure fino a quando lui l'abbandona? Oppure un'intransigente repubblicana che si lega a un patriota, che alla fine ne tradisce gli ideali? Per vent'anni Rosalia Montmasson fu moglie di Francesco Crispi, che seguì in tutti gli esili, condividendone azione e utopia, senza paura e senza riserve, facendosi cospiratrice e patriota al servizio della causa mazziniana. Si erano incontrati a Marsiglia: lui esule in fuga dalla Sicilia borbonica, lei lavandaia stiratrice che si era lasciata alle spalle l'asfittico paesino d'origine dell'Alta Savoia. Diventata mazziniana anche lei, entrò a poco a poco nella vita di riunioni e di azioni clandestine di lui, perfino le più rischiose e forse terroristiche, giungendo ad assumere un proprio ruolo, stimato anche da Mazzini. Poi l'impresa garibaldina, l'Unità, e la svolta monarchica di Crispi. Le divergenze e i contrasti tra Francesco e Rosalia si accentuarono, ormai la ragazza di Marsiglia è solo un impiccio sentimentale e politico per lui, che nel 1878 - divenuto potente ministro - riuscì con cavilli formali e l'avallo di una compiacente magistratura a farsi annullare il matrimonio. Da quel momento, Rosalia Montmasson fu fatta sparire dalla vita di Crispi, dai libri, e dalla memoria collettiva, una totale rimozione dalla storia risorgimentale che si è protratta fino a oggi; a lei Maria Attanasio, in questo romanzo storico, restituisce voce e identità, recuperando anche una sommersa e avventurosa coralità di oscuri eroi. Con un ritmo narrativo di inchiesta letteraria su una vicenda nascosta del Risorgimento, la scrittrice ne ha cercato le tracce, ripercorrendo i luoghi, scavando tra cronache e documenti, appassionandosi alla vita di questa donna dal temperamento straordinario, ribelle a ogni condizionamento e sudditanza. E ce la racconta in un romanzo sulla libertà di pensiero, che è quasi una storia al femminile sul processo unitario italiano: il ritratto in grande di una donna in grande, dipinta quale immagine del Risorgimento perduto, della sua parte sconfitta e più bella.
Un nuovo Barnum. Una nuova visita guidata alle cose del mondo, e agli uomini che lo rendono abitabile, o semplicemente più riconoscibile. Baricco insegue il mondo, e induce i suoi lettori a partecipare la curiosità con cui va a stanare notizie, episodi, insistenze, personaggi, dibattiti, immagini. Stanando dice e dicendo mostra, con una varietà di accenti e di esposizione che, per citare una sua antica generosa ossessione, fa pensare al circo, al Barnum delle meraviglie. Ecco dunque un nuovo Barnum che si aggiunge ai due pubblicati negli anni novanta. Qui facciamo i conti con la riforma dello spettacolo, con la scuola come videogame, con la priorità delle storie, con il cantiere della Morgan Library di Renzo Piano, con la Cinquecento Miglia di Indianapolis, con le immagini di Vivian Maier, con le provocazioni di Houellebecq e l'eredità di Gabriel García Márquez. Una grande occasione per farsi sedurre, sorprendere, interrogare.