C'erano una volta le Petromonarchie del Golfo, Stati che galleggiavano sul petrolio e seguivano fedelmente le indicazioni in politica estera degli Stati Uniti. Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman: sabbia e oro nero, facoltosi sceicchi e lusso fiabesco; scarsa popolazione, democrazia interna molto limitata, forte immigrazione dall'Africa e dal Sudest asiatico e lavoratori in condizioni di semischiavitù. Questa rappresentazione del Golfo Persico - semmai in passato sia stata veritiera - oggi non è più attendibile. Se è vero che le agiatezze di emiri e sultani non sono terminate, gli europei non possono invece prendersi il lusso di ignorare come i Paesi del Golfo influenzino con sempre più forza la politica mondiale: non solo rendita petrolifera ma anche energie rinnovabili, ricerca scientifica, eventi sportivi, alta moda, passione per il made in Italy, architettura all'avanguardia, turismo ed ecologia. E poi armi, politica estera aggressiva, conquista di interi settori di mercato, lenta e difficile emancipazione delle donne, repressione della dissidenza politica, furti archeologici e - strano a dirsi fino a poco tempo fa - autonomia politica proprio dagli Stati Uniti. Il presente lavoro colma un imbarazzante vuoto nella saggistica italiana, quello sull'irrimediabile centralità dell'Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo nella politica globale. Con stile asciutto e approccio analitico gli autori scavano in profondità e spiegano perché, d'ora in avanti, sarà impossibile ignorare questa parte di mondo.
Dall'America indigena un messaggio di speranza al mondo contemporaneo
Questa opera, a cui hanno partecipato autori di vari paesi dell’America Latina dando voce a esperienze di largo respiro, apre un orizzonte fondamentale per concepire il futuro del pianeta. Ritrovare il rapporto tra l’uomo e la terra, non ridurre la terra a una merce di cui il più forte si può appropriare per usarla contro la sua stessa natura, riguarda tutto il mondo: Americhe, Africa, Asia, Oceania e certamente anche Europa. Il mondo indio e contadino delle Americhe, pur nella sua povertà, ha oggi da dare un contributo culturale e politico di grande prospettiva. Le popolazioni originarie delle Americhe, oltre ad avere in comune condizioni di forte emarginazione sociale, si distinguono anzitutto per la loro antica cultura solidaristica, comunitaria, per il rapporto privilegiato che hanno avuto da sempre con la natura, con la terra, la Madre Terra, Pacha Mama; e proprio per questo lottano per evitare lo sfruttamento senza regole dei loro territori da parte delle grandi imprese multinazionali del mondo cosiddetto «emancipato», quello dello sviluppismo quantitativo e consumista del capitale. Il mondo indio e contadino ci mostra come le politiche economiche dei popoli siano chiamate a porsi in totale alternativa al modo di produzione liberista in una prospettiva socio-economica autodeterminata e partecipata, in grado, ad esempio, di valorizzare le diversità dei modelli adottati dai contadini e dagli indigeni nel loro modo di gestire la terra, proponendo forme di articolazione alternative ai modelli di produzione dei gruppi economici dominanti. A poco valgono le proposte di uno sviluppo sostenibile se non c’è la riappropriazione, da parte di chi lavora ed è in un rapporto armonico con la terra, della gestione della produzione e del territorio. Il presente volume è sì un grido di ribellione al protrarsi della gestione coloniale di troppa parte del pianeta, ma, anche, il grido di speranza per l’umanità lanciata dagli indiani d’America: «Del vento soltanto ho paura».
Stiamo vivendo una fase dello sviluppo capitalistico sempre più caratterizzata da risorse immateriali del capitale intangibile. Una strutturazione del capitale che si accompagna al lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non regolamentato, e a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie. Ciò non significa "la fine del lavoro", ma la nascita di nuove tipologie e di una nuova organizzazione del lavoro, ma sempre nel modo di produzione capitalistico che prevede sfruttamento e conflitti tra capitale e lavoro.
A partire da un incontro che si è svolto a Cuba sull'Europa e che ha visto la partecipazione di studiosi di tutto il Continente, il volume chiarisce come i sud del mondo avvertono la costruzione del polo geoeconomico europeo, e prende in esame il ruolo e la dimensione dell'abbandono dello stato sociale e delle privatizzazioni che ne conseguono, prima fra tutte quella della scuola. L'analisi considera i rapporti commerciali tra l'Europa e il sud del mondo, ma si allarga anche al ruolo dell'Europa centrale, di quella dell'Est e della Russia di Putin. Sul piano della critica al capitalismo viene sottolineato non solo il ruolo subalterno agli USA degli stati europei, ma anche il ruolo di potenza capitalista e le strategie imperialiste del Vecchio continente.
Il volume raccoglie alcuni tra i massimi critici dell'economia politica (veri macroeconomisti) a livello internazionale. Si propongono gli strumenti macroeconomici e finanziari per comprendere l'attuale fase dell'economia capitalistica e la sua portata, secondo i quali globalizzazione, crisi finanziarie e guerre, sono la risposta a una crisi di sistema, come si è manifestata a partire dagli anni Settanta. Sono inoltre affrontate le ricadute di tale crisi sulle forme di produzione e sul rapporto capitale-lavoro. II curatore è docente alla Sapienza di Roma, dirige il Centro Studi CESTES e la rivista "Proteo".