Non c'è libro al mondo più affascinante delle "Mille una notte". Ma quanti lo conoscono nella sua versione originaria? Quanti hanno letto per davvero il libro più antico che per la prima volta ha catturato in un testo scritto arabo il grande fiume della narrazione orale da cui quelle storie traevano origine? E quanto indietro si può risalire, per fissare l'origine scritta delle "Mille e una notte"? In effetti, quando agli inizi del Settecento il grande studioso arabista Antoine Galland raccolse e tradusse in francese un gruppo di manoscritti arabi conservati presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, molte furono le reinvenzioni e le riscritture di quel geniale scopritore. Di modo che il testo da cui prese le mosse la fortunata diffusione di quello scrigno fiabesco nella cultura dell'Occidente nacque spurio, condizionato da un'opera di interpolazione che ne ha segnato, per i successivi tre secoli, la ricezione. Si è dovuta aspettare la fine del secolo scorso, e la magistrale sapienza di Muhsin Mahdi, arabista e professore all'Università di Harvard, per ricostruire, con un lavoro ventennale di meticoloso raffronto dei manoscritti degli antichi copisti, il nucleo portante delle Notti arabe, risalente a un unico manoscritto siriano del XIV secolo. La traduzione italiana, qui per la prima volta condotta su quell'originale, ci restituisce un risultato clamoroso. Un'affabulazione che coniuga l'immaginazione e la saggezza sotto la cifra del femminile; l'evocazione diretta, senza ammiccamenti e pruderies, di un erotismo praticato nelle forme più spontanee ed esplicite; una varietà scoppiettante della dimensione fantastica, che è il contrappunto di una ricchezza linguistica e lessicale straordinaria: finalmente, la voce di Shahrazad senza la mediazione, senza il velo dell'Occidente. Una lettura che cambia - per paradosso - la stessa percezione del mondo arabo, delle sue culture, delle sue tradizioni, così come ci vengono consegnate dai conflitti e dalle angustie del presente. Ad accendere l'immaginazione restituendo quel mondo alle sue tinte originarie, liberate dalla patina posticcia dello sguardo orientalista, giunge in questa edizione il corredo di illustrazioni di Cinzia Ghigliano, che ci conduce nella magia delle notti arabe dei racconti di Shahrazad, a spiare da una finestra a gelosia incontri furtivi e ambienti segreti, alcove e hammam, giardini e cortili... Grazie alla luce che si sprigiona da quei luoghi, si scorge il vero volto di un Oriente tanto spesso vagheggiato ma mai autenticamente compreso.
Quando i fratelli Grimm pubblicarono per la prima volta i loro due volumi di Fiabe del focolare, tra il 1812 e il 1815, non immaginavano che storie come Cappuccetto Rosso, Raperonzolo o Hänsel e Gretel sarebbero diventate le più famose al mondo. Eppure, quasi nessuno oggi conosce le fiabe contenute in quei due primi volumi, poiché nei successivi quarant’anni i Grimm misero in piedi un cantiere che sfornò altre sei edizioni, fino all’ultima del 1857, ognuna diversa per contenuti e stile. Questo volume riporta alla luce per la prima volta in traduzione italiana le 156 storie originarie raccolte dai Grimm duecento anni fa: più vicine al sentire del popolo, e dunque dirette, quasi teatrali, adatte insomma ad essere lette ad alta voce, proprio come i fratelli le trascrissero da raccontatrici e raccontatori, ascoltandoli accanto al focolare, in giardino, nei momenti di riposo dei giorni di festa. I Grimm spalancano davanti ai nostri occhi tutto un mondo sprigionato dalla fantasia e dalla tradizione orale, tramandato di bocca in bocca per secoli, e messo per la prima volta nero su bianco dai due pazienti e appassionati fratelli. È dunque con questa raccolta che essi diedero vita al mondo delle fiabe così come noi oggi lo conosciamo, ricco e luccicante nelle vesti sfarzose di re, principi, regine e principesse, ma anche misero eppure autenticamente vivace nel popolo di pescatori, minatori, contadine, sempliciotti e astuti che percorrono in lungo e in largo boschi e campagne. E poi animali di ogni genere, di terra, d’acqua e d’aria, che bisticciano, combattono, si aiutano e si amano proprio come i loro padroni, quando poi non si rivelano dotati di parola o addirittura umani imprigionati in un corpo di bestia per via di un incantesimo. Mossi dalla paura o dalla meraviglia, dalla fame o dalla superbia e dall’invidia, i personaggi di queste storie portano alla luce del sole un vasto spettro di sentimenti, che tutti, dai più nobili ai più bassi, fanno parte della vita. Anche il male non è lontano e fuori dal mondo; alberga piuttosto nel cuore e sempre lì può trovare la sua redenzione. Queste fiabe hanno creato un immaginario che da allora in poi è stato rivisitato e interpretato nelle ma maniere più diverse, dal cinema alla tv, da Walt Disney al fantasy. Due secoli dopo, è tempo di tornare là dove tutto è cominciato. E la sorpresa sarà ancora maggiore, poiché si scoprirà che non tutte le fiabe a noi più familiari erano realmente così come le conosciamo, qualcuna era anche più avvincente (Raperonzolo, per esempio), qualcun’altra più crudele (come Biancaneve) e qualche altra ancora, meravigliosa, era stata fatta scivolare dai Grimm nel cassetto, e mai più ripubblicata. Le illustrazioni di Fabian Negrin, artista che ancora una volta si cimenta magistralmente col repertorio fiabesco più raccontato al mondo, offrono vie d’accesso inconsuete per inoltrarsi nella scoperta del noto e dell’ignoto che è la sostanza prima dell’esperienza di lettura di ogni fiaba. Come dice Jack Zipes, uno dei massimi studiosi della fiaba e tra i primi ad aver riportato in vita questa edizione dei Grimm, «Negrin non vuole che i lettori leggano senza pensare. Egli è tra i migliori interpreti dell’illustrazione contemporanea, capace di ri-raccontare le fiabe dei Grimm cogliendo quella vibrazione che s’intona a un XXI secolo denso di conflitti».
Fiabe di reginelle e di re, fate e animali, giganti e mammedraghe, diavoli e maghi; storie di sciocchi e furbi, megere ed eremiti, amori e dispetti, astuzie e ruberie, botole e sotterranei, travestimenti e fughe; e poi ancora giardini e fontane, fichi e melagrane, sale e zafferano, olio e basilico, ricotta e sangue... Ben 300 fiabe a fronte delle 200 messe insieme dai fratelli Grimm, per citare l'esempio più illustre. Pochi lo sanno, infatti, ma la raccolta di storie orali più ricca ed estesa che l'Italia abbia mai avuto la si deve a Giuseppe Pitrè, una figura straordinaria di medico e folklorista, che a bordo di un calesse le andò a raccogliere una per una dalla viva voce dei popolani di mezza Sicilia. Non a caso nel 1956, quando Calvino raccolse dai repertori di ogni regione le 200 Fiabe italiane a suo giudizio più belle e rappresentative, ben 40 le attinse proprio all'opera di Pitrè - da Giufà a La volpe Giovannino, da Rosmarina a Cola Pesce. Eppure, a meno dell'incursione calviniana, questa raccolta è a tutt'oggi pressoché sconosciuta al pubblico italiano, poiché Pitrè aveva scelto di trascrivere le fiabe nel dialetto siciliano ottocentesco in cui gli erano state raccontate da quei popolani, e così facendo le aveva rese indecifrabili ai lettori italiani. Dopo quasi un secolo e mezzo, questa edizione, introdotta dal massimo studioso internazionale della fiaba, Jack Zipes, e illustrata da Fabián Negrin, è la prima traduzione integrale in italiano moderno delle fiabe di Pitrè.
Nel corso della sua lunghissima attività, Marc Chagall ha instancabilmente cercato di instaurare un rapporto creativo con le radici e le tradizioni della cultura europea, mai con uno spirito di semplice curiosità o di artificio, bensi di nobile devozione. Ecco perché, appena terminato il fortunato ciclo di illustrazioni per le "Favole" di La Fontaine, Chagall accoglie un'altra proposta del suo amico ed editore Ambroise Vollard: condurre una sistematica rivisitazione e trasposizione dei grandi temi del messaggio biblico. È il 1930 quando, per caldeggiare l'idea della nuova, entusiasmante avventura, Vollard propizia un viaggio dell'artista in Palestina, perché Chagall possa vedere coi propri occhi quei paesaggi biblici che fino a quel momento aveva solo concepito attraverso le letture e l'immaginazione. Il progetto verrà eseguito in due riprese: un primo blocco di 65 soggetti sarà realizzato tra il 1931 e il 1939. Si tratta soprattutto di incisioni per acqueforti, precedute da gouaches a colori. Il lavoro subirà però una battuta d'arresto, dovuta soprattutto al dilagare della barbarie nazista, che costringerà Chagall a rifugiarsi a New York. Dopo la guerra, tra il 1952 e il 1956, l'artista riprende il lavoro sotto la spinta di un nuovo committente, l'editore svizzero Tériade, che pubblicherà finalmente, nel 1956, l'intero ciclo di 105 tavole, aggiungendo ai 65 soggetti del primo blocco altre 40 incisioni eseguite negli anni cinquanta. Introduzione di Siegmund Ginzberg.
In principio c’è De Roberto. Nel 1897, più di un secolo prima dell’esplosione del genere poliziesco nella letteratura italiana, uno dei grandi maestri del nostro Ottocento dà alle stampe un romanzo tutto imperniato sull’indagine indiziaria attorno a un caso scabroso ambientato in una signorile dimora sul lago di Ginevra. La facoltosa contessa d’Arda, legata al rivoluzionario russo Alessio Zakunine da una lunga, e ormai contrastata convivenza, muore con un colpo di rivoltella alla tempia nella sua stanza da letto, in una mattina d’autunno del 1894. Ad accorrere sulla scena, oltre al principe nichilista, la giovanissima slava Alessandra Natzichev, sua compagna di fede politica, e Roberto Vérod, scrittore inquieto, legato alla vittima da qualcosa di più che una calda amicizia. Si apre così un romanzo che sin dalle prime righe avvince il lettore in una morsa e lo trascina nel continuo oscillare tra due ipotesi contrapposte: delitto passionale o suicidio? A sciogliere l’enigma è chiamato un magistrato di lungo corso, Francesco Ferpierre, subito preda di un’ansia investigativa che, in assenza d’indizi inoppugnabili, lo porta ad aggrapparsi al suo collaudato intuito e alla capacità di intravedere i moti dell’animo umano. Saranno il suo sguardo inquisitore, i suoi dubbi e i suoi espedienti al limite delle regole, ad accompagnare il lettore nella ricostruzione di una vicenda nella quale magistralmente s’incarnano le contraddizioni e i dilemmi di quel fine secolo: le positivistiche certezze della ragione e il richiamo della fede in un Dio pietoso; l’inestinguibile lotta tra il bene e il male, tra l’ardore delle passioni e le convenzioni sociali, tra la tentazione intimista e l’afflato rivoluzionario. Sostenuto da una lingua capace di assecondare ogni sfumatura e ogni contorno dei gesti e dei pensieri dei protagonisti, l’intreccio inaugura uno stratagemma narrativo destinato a diventare un canone per tanta letteratura e tanto cinema successivi: quello dell’investigatore capace di immedesimarsi nei panni dei diversi personaggi, via via che la ricostruzione pare identificare nell’uno o nell’altro il colpevole del delitto o viceversa propendere per la pista del suicidio. Lo «spasimo» che accomuna tutti i personaggi finisce in tal modo per annidarsi anche nell’animo del lettore, fino all’ultimo imprevedibile colpo di scena. Pubblicato tre anni dopo I Viceré, Spasimo fu accolto con le curiosità e le polemiche riservate alle opere veramente innovative, per essere poi consacrato, nel corso del secondo Novecento, come il primo e più significativo esempio di romanzo investigativo italiano. «Stupisce la modernità di Spasimo, la sua originalità poliziesca – osserva Massimo Onofri nell’Introduzione – ed è proprio nella costruzione e nel formidabile intreccio del dramma giudiziario che sta la qualità prima del romanzo».
L'AUTORE
Federico De Roberto (1861-1927) nacque a Napoli da famiglia aristocratica e trascorse gran parte della sua vita a Catania. Scrittore d’ispirazione verista, ebbe come maestri Verga e Capuana, ed esordì nel 1889 col romanzo Ermanno Reali. Trasferitosi a Milano, fu introdotto da Verga negli ambienti letterari in cui conobbe scrittori, giornalisti, musicisti e uomini di teatro. Il suo capolavoro, I Viceré, considerato uno dei maggiori romanzi dell’Ottocento italiano, è del 1894. Autore di numerose novelle, raccolte in più volumi a cavallo dei due secoli, De Roberto scrisse anche diverse opere critiche, tra cui una monografia su Leopardi. Morì a Catania nel 1927.
"Ascoltate, gente, ascoltate la storia del valente Tristano e della dolce Isotta che si amarono così tanto che oggi ancora si sente, dal fondo della nostra memoria, il loro cuore battere all'unisono". Età di lettura: da 6 anni.
Edmond Dantès, giovane marsigliese, secondo ufficiale a bordo del mercantile Pharaon, a causa della morte del capitano prende il comando della nave. Rientrato a Marsiglia, dopo una fugace tappa all’isola d’Elba, riceve dal suo armatore la nomina a capitano e si accinge a sposare la bella e fedelissima Mercédès. Ma un complotto che lega Danglars (il contabile del Pharaon), Fernand (il cugino di Mercédès, che è follemente invaghito di lei) e Caderousse (un sarto venale e insipiente) è destinato a distruggere la felicità di Edmond. Denunciato come bonapartista al sostituto procuratore del re, Dantès viene ingiustamente accusato di tramare contro la monarchia, e rinchiuso in gran segreto, e senza alcun processo, nel castello-fortezza dell’isola d’If, dove è condannato a marcire a vita. Ma l’amicizia con l’abate Faria, misterioso e provvidenziale compagno di carcere, lo porterà, dopo quattordici anni, a riguadagnare un’insperata libertà, accompagnata da una favolosa ricchezza. Da quel momento, Edmond avrà davanti a sé un solo scopo: la vendetta. Da capolavoro del romanzo popolare a capolavoro del romanzo: la storia della fortuna del Conte di Montecristo si potrebbe condensare nella lenta caduta di un aggettivo. Fin dal suo primo apparire, in quella Francia degli anni quaranta dell’Ottocento che era il più fervido e convulso laboratorio delle rivoluzioni europee, la storia dell’eroe borghese Edmond Dantès, eponimo della sfortuna e dell’ingiustizia, che si trasforma in spietato giustiziere, fu accolta dalle migliaia di avidi lettori di feuilleton come la più iperbolica incarnazione dello spirito del tempo. Un successo fulmineo, sancito dall’immediato passaggio all’edizione in volume e da un incredibile numero di ristampe e traduzioni. Ma fin da subito, quell’aggettivo, «popolare», suonò, in tutta una parte della critica colta, come una netta discriminazione, se non come una condanna. Il lettore potrà seguire, nelle pagine della Prefazione di Claude Schopp, la ricostruzione della vicenda critica del romanzo. Schopp, che ha dedicato tutta una vita di studi a Dumas, disvela con precisione e con maestria le ambizioni di una scrittura sapientemente costruita per portare all’estremo la tensione e la complicità del lettore. Situa, in una parola, il Montecristo nel posto che merita: all’apice della più felice stagione del romanzo europeo. Tanto più paradossale appare la vera e propria sottovalutazione critica che ha accompagnato fino a oggi la ricezione italiana del capolavoro di Dumas. Ne è testimonianza la stessa vicenda editoriale. Sembra davvero incredibile che le numerose edizioni italiane correnti del Conte di Montecristo siano tutte, in buona sostanza, riproposizioni, spesso inconfessate, di quelle traduzioni ottocentesche che introdussero in Italia il romanzo sotto la chiave fortunata ma riduttiva della letteratura d’appendice. Condotta sul testo francese meticolosamente stabilito da Claude Schopp, affidata alla nuova traduzione di Gaia Panfili, questa nostra edizione comprende, oltre alla Prefazione di Schopp, un apparato di note al testo, nonché un Dizionario dei personaggi e delle persone storiche e un Indice dei luoghi che faranno la felicità di ogni patito di Dumas.
L'AUTORE
Alexandre Dumas (1802-1870) è stato il maestro del romanzo storico e d’avventura. Da qualche anno rivive in Francia una stagione di riscoperta che, grazie alla paziente cura dello studioso Claude Schopp, sta riportando alla luce alcuni dei suoi capolavori rimasti nell’ombra in seguito al successo schiacciante dei più noti Tre moschettieri, Il conte di Montecristo e tanti altri. Di Dumas, Donzelli ha pubblicato La guerra delle donne e Sylvandire. Les Frères corses, uscito per la prima volta in rivista nel 1844, è entrato solo di recente nel canone dei capolavori dumasiani: l’ultima edizione italiana precedente a questa risale addirittura agli anni trenta del Novecento. Lunghissima è invece la storia degli adattamenti cinematografici: ben dodici messe in scena, da quella del 1917 a quella italo-francese, realizzata nel 1962 per la regia di Anton Giulio Majano.
II lupo e l'agnello? In blu e giallo. La volpe e l'uva? In bianco, verde e arancio. Il cavallo e l'asino? In lilla e rosso. Il topo e l'elefante? In tutte le sfumature dell'arcobaleno. Ovvero, gli animali di La Fontaine e i colori di Chagall. L'arguzia della penna e il tocco onirico del pennello. Raramente, nella storia della letteratura e dell'arte, si sono verificati connubi di tale portata creativa, e ancora più raro è che l'esito finale abbia preso la forma di un libro. Avviene ora, per la prima volta in edizione italiana, che alcune delle favole più popolari e amate di La Fontaine scorrano tra le pagine affianco ai dipinti che hanno ispirato. Tutto avvenne tra il 1926 e il 1927, quando il grande artista russo decise di dar vita a un ciclo di quadri dedicato alle storie del celebre maestro francese. L'intento era allestire una serie di mostre a cavallo dell'Europa: Berlino, Bruxelles e Parigi. Le tre mostre, che esposero complessivamente un centinaio di tavole, ebbero un immediato successo, tant'è che tutte le opere trovarono subito un acquirente diverso, e s'inabissarono nei meandri delle collezioni private, lungo le strade del mondo. Di quello straordinario incontro tra l'arte e le lettere si perse dunque memoria. Quando, sul finire degli anni quaranta, esplose la fama internazionale di Chagall, alcuni musei, in testa il MoMa di New York, allestirono le prime retrospettive a lui dedicate: quei «favolosi» animali, un po' alla volta, cominciarono a uscire dalla tana.
La vita scorre all'indietro, per Benjamin Button. In un giorno d'estate del 1860, per un inspiegabile scherzo del destino, lui nasce già vecchio: un uomo dell'apparente età di settant'anni, dentro una culla. E poi comincia a ringiovanire, muovendosi controcorrente rispetto alla storia. Mentre la buona borghesia di Baltimora, a cui appartiene anche suo padre, osserva con un misto di meraviglia, imbarazzo e riprovazione. Età di lettura: da 10 anni.
La sola cosa che Peter Blood desiderasse era vivere in santa pace, esercitando il suo mestiere di medico e fumando a tempo perso la sua pipa. E invece la violenta ribellione contro il re Giacomo II che sul finire del Seicento sconvolge Bridgewater, il paese dell'Inghilterra meridionale in cui Peter si è trasferito dalla natia Irlanda, procura improvvisamente al nostro protagonista la patente di sovversivo e l'accusa infamante di omicida. Sorpreso a curare un ribelle ferito, e ingiustamente processato per aver ordito la congiura, Blood viene ridotto alla condizione di schiavo e spedito nei Caraibi. Alle Barbados sarà comprato dal colonnello Bishop, un ricchissimo proprietario terriero deciso a sfruttare le doti del medico-schiavo, ricambiandone con reiterate violenze e continui soprusi la generosità. Tanto più che Blood avrà il torto di innamorarsi di Arabella, la (bellissima) nipote di Bishop. Finalmente Blood fuggirà - riuscendo a mostrare la sua nobiltà d'animo anche nella fuga - e comincerà così la sua vita di pirata, tra tesori nascosti, arrembaggi, intrighi politici e duelli all'arma bianca. Sempre a fianco del suo inseparabile amico-bucaniere Levasseur, sempre a rischio di cadere nelle grinfie del vendicativo colonnello Bishop, sempre alla ricerca della sua amata Arabella. E nel frattempo, la sua reputazione di pirata salirà, naturalmente, alle stelle.
Indiana è nata nell'isola di Bourbon, al largo del Madagascar, nel mezzo dell'Oceano Indiano. Ma il lettore la incontra in una ricca dimora della campagna francese nei panni di madame Delmare, sposa infelice di un matrimonio combinatele dalla zia, che ha voluto così riscattarla da una vita da schiava, all'altro capo del mondo. Rassegnata a un'esistenza priva di gioie, Indiana si lascia andare a uno struggimento che sconfina nella consunzione, al fianco di un marito vecchio e collerico, e sotto l'ala protettiva del taciturno sir Ralph, fedele ma troppo compassato amico d'infanzia. Ed ecco che una notte irrompe nella villa l'affascinante Raymon, un aristocratico di belle speranze, da poco trasferitesi in campagna, che tutto sovverte. Raymon l'affabulatore dapprima seduce Noun, la bella domestica creola, e poi rapisce il cuore della stessa Indiana. L'incostanza delle passioni e l'ingannevole personalità di Raymon spingeranno Noun a gettarsi nel fiume in piena, e Indiana a oscillare senza tregua tra lo sdegno e l'attrazione irresistibile. Nell'andirivieni di quel pendolo sentimentale, è tutto un incalzare di eventi: la fuga disperata a Parigi, la morte cercata sulle rive della Senna, la bancarotta del marito, il forzoso trasferimento nell'isola al largo dell'Africa, il precipitoso rientro in Francia a bordo di un mercantile, la messa a repentaglio dell'onorabilità. Sullo sfondo, l'evolversi del personaggio di sir Ralph, sempre avvolto in un alone di inquietante opacità. Con un commento di Henry James.
Nella stagione 1977-78 il Piccolo Teatro di Milano allestisce "La Tempesta" di Shakespeare. La regia è di Giorgio Strehler, che commissiona appositamente una nuova traduzione dell'opera ad Agostino Lombardo. Il grande studioso si mette al lavoro, ma quando il testo arriva nelle mani del regista, si accumulano sulle pagine chiose, varianti, proposte di modifica. Ed ecco che entrambi si esaltano in un corpo a corpo sulla traduzione teatrale di quel testo, che li vede interloquire intensamente, alla ricerca delle soluzioni più efficaci. Alla fine, Lombardo mette a punto una traduzione profondamente rinnovata, tanto da apparire come un altro testo, rispetto a quello iniziale. Intanto, Strehler crea una macchina scenica strepitosa, inventa una conduzione degli attori magistrale. La messa in scena segna una pietra miliare nella storia del teatro italiano. Tanto che la Rai decide di riprenderla integralmente e di mandarla in onda nel dicembre del 1981. Dopo trent'anni, a distanza di dieci anni dalla morte di Strehler e di due da quella di Lombardo, il carteggio fra il professore e il regista esce da un cassetto, insieme con i manoscritti delle due traduzioni di Lombardo: quella originaria e quella successiva alla lunga discussione con Strehler. Un materiale che consente di ricostruire il loro lavoro sulla "Tempesta", dal testo alla scena. Il DVD allegato al volume, riproduce la registrazione integrale dell'opera trasmessa dalla Rai.
Il nome di Louisa May Alcott evoca immediatamente l'intramontabile "Piccole donne" e un variegato contorno di bontà, lacrime e commozione. Pochi ricordano, tuttavia, che nel 1863 una giovane Alcott firmò un lungo racconto che traeva ispirazione dalle sue esperienze di infermiera durante la guerra civile americana. Da quel momento il ricordo del conflitto e dei soldati feriti non l'abbandonerà mai, e percorrerà gran parte della sua letteratura, non solo i racconti apertamente bellici, considerati i migliori della sua produzione, ma anche la narrativa apparentemente più melodrammatica e tradizionale. Come si ricorderà, infatti, "Piccole donne" si apre sullo sfondo della guerra civile, e sarà questa tragedia a motivare non solo il ferimento del padre delle quattro ragazze, ma soprattutto il patriottico taglio di capelli della nostra eroina preferita, Jo March. Questo volume offre la trasposizione in forma narrativa delle esperienze della scrittrice tra i soldati nordisti e due tra i suoi racconti bellici più famosi. In queste pagine il lettore avrà modo di cogliere una prospettiva sulla guerra del tutto inusuale e di scoprire un'autrice dalla voce decisa, anticonformista e politicamente engagée.
"Mia madre, Soumini, e mia nonna, Janaki, hanno appagato la mia sete di miti e leggende. E quando ho cominciato a scrivere questo libro, ho cercato di ricreare le loro storie e la loro arte nel raccontarle". Apre così la sua raccolta, ispirata al patrimonio magico e mitologico dell'India, Anita Nair. È una rivisitazione dell'immaginario della sua India quella che propone in questi racconti, rivolti in primo luogo ai bambini indiani: un universo mitologico ricco di dei, demoni, asceti, re mitici e animali magici, che sin dalla notte dei tempi scandisce la ricerca del senso della vita terrena, dell'avvicendarsi delle stagioni, dei sentimenti e delle passioni dell'animo umano, del conflitto perenne tra le forze del bene e del male. Krishna e Vishnu, Shiva e Brahma, gli asaro demoniaci sempre a caccia dell'amrita, il nettare della vita eterna, e ancora gli avatar, incarnazioni di un dio. Anita Nair trasmette questo patrimonio di fiabe e di miti alle nuove generazioni e alle altre culture. Cinquanta storie che si dipanano in un intreccio tra favola e mito; storie in ciò assai diverse da quelle della mitologia dell'Occidente: eppure, come osserva Francesca Emilia Diano, esse sono "manifestazioni che si diramano nel tempo e nello spazio in infinite direzioni e gemmazioni, che tessano trame senza fine, segnando di sé ciascuna cultura, tanto che forse non è una cultura che crea i suoi miti, ma l'opposto". Età di lettura: da 10 anni.
Roger Tancrède d'Anguilhem, giovane nobile di provincia, prende la via di Parigi in groppa al suo fedele destriero Christophe a caccia di un'eredità inattesa e controversa. A quel denaro è appesa l'unica possibilità di sposare la bella Constance, la cui famiglia, ben più ricca e potente della sua, non aveva esitato a metterlo alla porta. Inizia così la rocambolesca avventura del cavaliere d'Anguilhem, che da un piccolo paese si ritrova catapultato nella rutilante vita della capitale francese, nel momento del suo massimo fulgore. Fra duelli, sotterfugi, partite di pallacorda e guasconate, il quindicenne campagnolo scopre quanto affascinante e al tempo stesso ingannevole sia quel mondo cui non appartiene e dal quale è irresistibilmente attratto. Nel vortice della vita parigina Roger incontra colei che in fatto di inganni ne sa una più del diavolo, Sylvandire, un'ammaliante macchinatrice che non ci penserà due volte a spedirlo alla Bastiglia...
Clemens Brentano appartiene alla più romantica delle famiglie europee: fratello della scrittrice Bettina, cognato e amico fraterno dello scrittore Achim von Arnim, figlio di una delle amiche più intime di Goethe. Talento geniale, erotico e mistico, chitarrista vagabondo, enfant terrible dei salotti romantici, demoniaco ma capace di votarsi al capezzale di una monaca stigmatizzata, è stato anche un grandissimo conoscitore e reinventore del patrimonio di canti e fiabe della cultura europea. La "Fiaba del Reno" incarna uno dei suoi momenti più alti, di immediato godimento per i più giovani, compresi i bambini, e di deliziosa lettura per gli adulti. In queste storie affascinanti, che rileggono in chiave colta le molteplici radici folkloriche della fiaba europea, il mondo del Reno, insieme reale e fantastico come ogni sogno sa essere, si popola di animali parlanti, di ondine e di sirene. Troneggia al suo centro la bella Loreley, l'eroina acquatica più famosa e fatale; ma vi compare anche il Vecchio Padre Reno in persona, che favorisce amori e amicizie, ma che sa punire con severità gli empi; e poi, principesse, fanciulle infelici, matrigne e sorellastre, mercanti e imbroglioni, girovaghi e artigiani. In questa cornice si muove il protagonista: un mugnaio dal cuore aperto, che sa lasciarsi sorprendere e che è sempre pronto a recuperare una dimensione di armonia tra la natura terrestre, aerea e subacquea: un uomo semplice che insegna a lasciarsi catturare dalla fantasia.
In principio c'era Odino, il re degli dei, degli uomini e delle guerre, che conduceva alla testa delle Valchirie, le sue feroci guerriere. Accanto a lui, c'era il barbuto Thor, dio del tuono, che agitava il suo magico martello contro i giganti, gli eterni rivali. E poi c'era Freya, la dea dell'amore, alla perenne ricerca del marito, per cielo e per terra, su di un carro trainato da gatti bigi; e soprattutto c'era Loki, il fratello di sangue di Odino, che col suo spirito cialtrone faceva morire dal ridere gli altri dei. Loki il mascalzone, "il Dio del Niente in Particolare, ha rappresentato il dio della mia mente di bambino, con i suoi impulsi contrapposti di vandalismo e visione, immaginare cose e sfasciarle. E mentre faceva e disfaceva complotti, generava e cancellava mostri, contribuiva a ritardare e accelerare il termine delle cose, restava il dio della natura infinitamente complicata dello svolgere trame, del raccontare stesso", come dice Michael Chabon nella sua prefazione. Ingri e Edgar d'Aulaire catturano tutto ciò in una prosa immediata, magica e realistica al tempo stesso, che non si sofferma mai a scuotere la testa o a spalancare la bocca di fronte alle meraviglie e ai disastri che nelle loro raffigurazioni si fanno remoti e al contempo vividi.
"Le Mille e una notte" cominciano a Parigi, nel 1704 a partire da Monsieur Antoine Galland, l'orientalista che per primo le traduce e le tradisce, le trascrive e le riscrive. E da questo inizio parte uno dei più tortuosi e tormentati capitoli della storia dell'edizione, il cui punto cruciale diventa la caccia alle fonti arabe delle Notti. C'è un solo, corposo blocco delle Mille storie su cui la mano sublime e truffaldina di Galland non ha potuto sovrapporre la sua impronta. Un manoscritto arabo in tre volumi, effettivamente proveniente dalla Siria, di qualche secolo più antico, che si trova ora depositato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. L'unico modo di risalire a prima di Galland era lavorare su quel manoscritto, cercarne i riscontri nell'ambito della sua stessa famiglia e in quelle limitrofe, senza i veli dell'Occidente e del suo "orientalismo". A questa impresa si è dedicato Muhsin Mahdi e questa edizione ne riporta la traduzione. Il volume è accompagnato da un DVD in cui Vincenzo Cerami legge le storie sulle musiche di Aidan Zammit all'Auditorium Parco della musica di Roma. "Ogni immagine che compare nelle Mille e una notte - scrive lo stesso Cerami nell'introduzione ne chiama a raccolta tante altre, in un gioco di metafore, di specchi, di rimbalzi, di inganni, di allusioni. Il destino, che di quest'opera è protagonista assoluto, crea gli incroci più improbabili, incongrui, quasi sempre inattesi".
Cosa succede al mondo dei Tre moschettieri, se lo si coniuga al femminile? Come si articola - sotto l'abilissima penna di Dumas - quell'universo fatto di intrighi e avventure, di coraggio e spavalderia, di sentimenti di onore e di passione intensi almeno quanto le ignavie e i tradimenti che sono chiamati a contrastare, se a combattersi, e senza esclusione di colpi, sono le donne? È il 1844 quando appare per la prima volta, pubblicata a puntate su "La Patrie", "La guerra delle donne". Lo scenario è quello della Fronda, degli anni attorno al 1650, di una Francia in cui la regina, Anna d'Austria, e il suo ministro, il cardinale Mazzarino, devono fronteggiare la ribellione diffusa di una nobiltà che ha eletto a suo simbolo la principessa di Condé. Le due madri lottano a nome e per conto dei figli bambini, Luigi XIV e il piccolo Condé. Ma la guerra delle donne non è solo quella dello sfondo storico generale in cui il romanzo si svolge. Altre due donne, le protagoniste, schierate sulle opposte sponde, tessono la trama dei loro fili diplomatici e militari, ciascuna per far vincere la propria parte. Due eroine dai tratti contrapposti: Nanon de Lartigues, la bruna avvenente, brillante, astuta e appassionata; e Claire de Cambes, che dietro l'apparenza della delicatezza, della fragilità, della femminilità sottomessa, cela tesori di coraggio e una impressionante capacità di affrontare le situazioni più drammatiche. Opposte in tutto, si accorgeranno di esserlo anche nella passione per lo stesso uomo...