Nella filosofia occidentale il corpo è stato spesso bollato come una potenza demoniaca che distoglie l'anima dall'esercizio della virtù e della conoscenza verace, o degradato a meccanismo fisiologico soggetto alle leggi di natura. Con il soggetto che lo vive, il corpo intrattiene una relazione di intimità e di estraneità al tempo stesso. Dall'antichità alla fenomenologia, alla filosofia della mente e alla scienza cognitiva contemporanee, questo libro dà conto dei molti sensi che si sono sedimentati nella nozione di corpo durante una vicenda storica e culturale avvincente quanto quella dell'anima, sua più fortunata controparte.
Nella storia della filosofia, della scienza e della cultura in generale, "natura" e "naturale", termini fra i più pregnanti, sono stati usati in accezioni assai diverse, ora sovrapposte, ora intrecciate, ora contrastanti, spesso cariche di implicazioni morali, affettive, estetiche, religiose. Di questa vicenda lunga e intricata dà conto il libro. Le diverse concezioni della natura, da Platone e Aristotele a Darwin fino ai giorni nostri, sono esposte in una prospettiva interdisciplinare, che prende in considerazione sia la tradizione filosofica sia le fonti scientifiche, letterarie e religiose, senza trascurare le recenti riflessioni sulle questioni ambientali.
Nella filosofia occidentale la coppia di concetti potenza/atto ha una storia millenaria che comincia con Aristotele e arriva, con Heidegger, sin dentro il Novecento e oltre. La tradizione intende la potenza, rispetto all'atto, come luogo della possibilità, della facoltà e della capacità, oltre che come ciò che precede la realizzazione compiuta. Esiste però anche un'altra linea di pensiero che, soprattutto in età moderna, concepisce la relazione potenza/atto in senso deterministico, come qualcosa di simile alla coppia causa/effetto. Il volume ripercorre la lunga contrapposizione filosofica tra i due modelli sottolineando le implicazioni antropologiche, morali e politiche del binomio potenza/atto, così come emergono nelle categorie di possibilità e necessità, contingenza e mutamento, immaginazione e utopia.
Che cosa fa di un'immagine un'immagine, ossia una rappresentazione pittorica? Che cosa rende un'immagine del tutto diversa da altre rappresentazioni, per esempio dai segni verbali? Sono interrogativi che risalgono alle origini della riflessione occidentale e sono variamente diffusi in molte tradizioni di pensiero. Ma in filosofia sono stati affrontati in modo sistematico soltanto di recente, a partire dal Novecento, per essere poi oggi discussi in una vera e propria esplosione di teorie. Al punto di vista più tradizionale, che lega la pittorialità dell'immagine a fattori di ordine percettivo o esperienziale, si è affiancato una concezione semiotica o strutturalista, che inscrive l'immagine in un particolare tipo di sistema di segni. E tuttavia, come mostra l'autore, l'antica e ingenua idea già considerata da Platone che per raffigurare qualcosa bisogna somigliare all'oggetto raffigurato ancora si insinua nel pensiero attraverso l'insufficienza di tutte le nuove teorie.
"Possibile" e "necessario" sono termini molti comuni nella nostra lingua ma il loro significato è tutt'altro che banale. La tradizione filosofica si è cimentata infatti per secoli con i due concetti, sia per gli aspetti connessi alla logica e alla conoscenza (interrogandosi per esempio sulla natura delle leggi fisiche e naturali), sia per quel che riguarda la natura delle nostre azioni (dipendono da una libera scelta fra possibilità reali o sono dettate dalla rigida necessità?). Il volume ripercorre l'evoluzione dei due termini a partire dall'antichità con Aristotele e gli stoici, e fornisce un quadro storico in cui spiccano, nel medioevo, i nomi di Abelardo, Occam e Buridano, e in età moderna l'opera di ripensamento e di rielaborazione prima di Leibniz e poi di Kant. Dal Novecento in avanti "possibile" e "necessario" entrano infine nella riflessione sul linguaggio e sulla semantica, con gli studi di Carnap e Kripke.
La storia dell'opposizione bene/male coincide con la storia stessa dell'umanità. Non solo, ma bene e male sono sempre stati assunti in una costellazione di concetti affini e interdipendenti: da un lato bene, vero, innocenza, ordine, benessere, felicità; dall'altro male, falso, malvagità, disordine, sofferenza. A partire dal pensiero antico (Platone e Aristotele) e da quello cristiano (Agostino e Tommaso), l'autore ripercorre tutta intera la riflessione filosofica che l'Occidente ha svolto su tale opposizione, per approdare infine ai pensatori contemporanei del "dopo Auschwitz", fra i quali Jonas, Arendt e Ricoeur.
Divenuta tema centrale del dibattito contemporaneo, la questione dell'alterità ha via via assunto una dimensione trasversale producendo contaminazioni tra saperi, linguaggi e tradizioni di pensiero. In questo profilo l'autore riesce nel compito non facile di mostrare e illustrare i mille volti dell'alterità, dal pensiero classico, in cui era perlopiù oggetto di indagine metafisica, alla fase contemporanea, dove la riflessione sull'alterità investe anche la maniera di pensare noi stessi in rapporto ad altre culture, la differenza tra i sessi o, infine, i meccanismi cognitivi che consentono la comprensione dell'altro.
La coscienza è la parte più evanescente dell'essere umano e il cuore della vita interiore di ciascuno. Nel tempo, la filosofia e la religione cristiana hanno creato un deposito di idee sulla coscienza che ha finito con il formare il senso comune occidentale sui tratti più caratteristici della nostra specie. Oggi la scienza della mente promette di rendere conto di tale fenomeno alla luce delle nuove conoscenze, in un quadro sperimentale e coerente con le scienze naturali. Interpellando insieme la riflessione filosofica e la scienza contemporanea, l'autore ci mostra che la coscienza è un fenomeno genuino, introspettivamente saldo e fondato nella costituzione del nostro corpo. La coscienza non è un mistero, né qualcosa di sacro, ma una facoltà naturale, che condividiamo con altre specie animali e che forse in futuro potremo osservare nei robot.
Pietro Perconti insegna Filosofia della mente nell'Università di Messina. Fra i suoi libri, "Leggere le menti" (Bruno Mondadori, 2003), "E-mail filosofiche. Di grandi idee e problemi quotidiani" (con S. Morini, Cortina, 2006) e "L'autocoscienza. Cosa è, come funziona, a cosa serve" (Laterza, 2008). Per il Mulino ha curato anche "Le scienze cognitive del linguaggio" (con A. Pennisi, 2006).
Che cosa distingue gli esseri viventi dai non viventi? Che cos'è la morte? È sensato averne paura? Esiste in noi qualcosa di immortale? Che cosa da senso alla vita umana? Sono domande fondamentali che ogni essere umano si pone e che stanno da sempre al centro della riflessione filosofica. Dopo aver tracciato un panorama delle diverse concezioni relative al tema della vita e della morte che si sono succedute dall'antichità sino alle filosofie dell'esistenza contemporanee (Rierkegaard, Jaspers, Heidegger, Sartre), il libro affronta la discussione più recente intorno all'etica della vita: da un lato ricostruisce il dibattito tra la filosofia, la biologia e la biomedicina, dall'altro identifica, anche nell'ambito della filosofia analitica contemporanea, le grandi linee del confronto sulle questioni centrali della bioetica: la concezione della vita, del suo inizio e della sua fine.
Il volume offre una trattazione sistematica, sia storica sia teorica, del concetto di azione, uno dei più cruciali dell'intera storia della filosofia. Nell'affrontare i radicali cambiamenti di prospettiva che da Platone alla filosofia contemporanea hanno accompagnato la riflessione sulla natura, gli scopi e la rilevanza dell'agire, viene dedicata particolare attenzione all'uso che del concetto di azione è stato fatto in filosofia politica, in etica, nella discussione sul libero arbitrio e in filosofia analitica. Oltre ai grandi filosofi della tradizione, sono discussi con rilievo i contributi che hanno fornito su questo tema importanti autori contemporanei, da Karl Schmitt a Hannah Arendt, Ludwig Wittgenstein, Donald Davidson e Jürgen Habermas.
Il concetto di "ragione" ha una posizione di assoluta preminenza nello strumentario della filosofia. Nella tradizione occidentale la pluralità delle sue definizioni ha marcato le differenze essenziali dei sistemi teorici in conflitto, e per un lungo tratto della sua evoluzione la legittimità stessa del sapere filosofico è stata misurata dal suo essere fondato, appunto, sulla ragione. Scopo del volume è dar conto di questa pluralità, disponendo lungo il percorso dei suoi mutamenti l'insieme degli apporti teorici che hanno contribuito ad arricchirne il senso. A partire dagli indirizzi principali dell'antichità greca e del medioevo cristiano, attraverso le costruzioni metafisiche e le analisi critiche dell'età moderna, fino alle più recenti difese dell'opportunità del suo utilizzo, il libro ricostruisce la storia del concetto di ragione per tracciare una mappa con cui orientarsi nel territorio dei suoi significati.
Esiste, oltre alle singole cose rosse, la proprietà universale "rosso"? O esistono invece solo le entità individuali e particolari? Come spiegare il fatto che più entità tra loro distinte possono essere tuttavia uguali per un determinato aspetto? E che cos'è che distingue due entità che condividano esattamente le stesse proprietà? Questi sono alcuni dei problemi che costituiscono la questione degli universali e dei particolari, che, a partire dai dialoghi platonici e dalla metafisica di Aristotele, ha sempre rappresentato uno dei nodi centrali dell'ontologia. Di tale questione il libro ripercorre le tappe storiche principali, partendo dalla formulazione che ne fu proposta nell'antichità, esaminando gli importanti e variegati sviluppi medievali, individuandone la presenza talvolta nascosta nella filosofia moderna e ricostruendo i dibattiti della metafisica contemporanea, che ha visto una significativa rinascita di interesse per questi temi, soprattutto nell'ambito della filosofia analitica.