Come vivere felici? Non c'è problema più sentito fra i Greci e non c'è filosofo che non abbia offerto la sua soluzione. Ma nessuno può raggiungere Plotino quanto a originalità e radicalità. Impegnandosi in un confronto serrato con la filosofia dei secoli precedenti (Epicuro, gli stoici), il trattato "Sulla felicità" offre una sintesi delle migliori soluzioni proposte dalle scuole greche e si avvia lungo una strada che molti altri avrebbero in seguito percorso, rivelando la linea di continuità che unisce la filosofia greca e il pensiero dei secoli successivi. Da Platone a Dante, da Aristotele a Spinoza e oltre, la filosofia ha l'ambizione di comprendere il senso ultimo delle cose, realizzando così la natura profonda di quell'animale razionale che è l'uomo. Perché è solo se sapremo appagare il nostro desiderio di conoscenza che potremo capire chi veramente siamo. Ed è solo capendo chi siamo, riscoprendo la nostra origine divina e il nostro legame con il tutto, che potremo finalmente trovare la strada che conduce alla felicità, una meta che solo l'ignoranza fa sembrare lontana.
La storia di Roma repubblicana è caratterizzata dalla sua travolgente ascesa da città-Stato italica a impero mondiale. Sorprendentemente, l'insaziabile brama di conquista dei Romani fu in realtà una stretta conseguenza del legame dei suoi generali con il Foro, centro politico dell'Urbe. L'imperium dei generali poteva essere ottenuto solo a Roma, in seguito a una votazione, e i successi militari dei sommi magistrati potevano essere celebrati di fronte all'intera cittadinanza soltanto nel centro della città. Là, nel cuore dell'imperium romanum, aveva origine l'ascesa come il declino dei suoi grandi protagonisti. Ma le strepitose vittorie conseguite da Mario, Pompeo, Cesare avrebbero trasformato la repubblica dalle fondamenta. Un'appassionante, lucida e documentata storia di Roma repubblicana: dai primissimi ritrovamenti archeologici alla leggendaria età dei re, dalla travolgente espansione del dominio di Roma alla fine della repubblica, nelle tempeste delle guerre civili.
Scritto nel 1927, "L' avvenire di un'illusione" affronta esplicitamente la religione nelle sue dimensioni culturali e inconsce. Per Freud la religione sorge dai desideri più antichi e dalle inquietudini più pressanti dell'umanità, ed è quindi inevitabile che essa assuma le sembianze del sogno e dell'illusione. Tutte le dottrine religiose sono pertanto per Freud, sulla scia dei Lumi, illusioni indimostrabili, ma anche inconfutabili. Freud non si occupa però qui del loro eventuale contenuto di verità, a lui interessa averne riconosciuto la natura psicologica di illusioni. Le credenze religiose sono da considerarsi pertanto come l'inevitabile risultato della dipendenza e del timore infantile nei confronti dell'autorità parentale: il sentimento religioso ha fondamentalmente origine nel bisogno infantile di protezione e si proietta in un Dio trascendente che protegge le creature da ogni tipo di pericolo. Tuttavia Freud ritiene che sia possibile per l'umanità progredire, superando le paure e i conflitti delle origini: lo studio dell'uomo, la ricognizione dell'essenza umana in tutta la sua complessità, a cominciare dall'intreccio tra la mente e il cuore, offrirà l'antidoto indispensabile all'alienazione religiosa.
Filippo Baldinucci, gran conoscitore di pitture e di disegni, come tale fiduciario della corte medicea, in particolare del cardinal Leopoldo, e in relazione con esperti di varie nazioni, fu l'autore del primo libro dedicato a una storia dell'incisione e ai suoi principali protagonisti. Le stampe appartenenti alle arti figurative, e molte firmate da nomi illustri sin dalla fine del Quattrocento, erano oggetto di interesse in tutto il mondo colto, ma due secoli dopo non avevano ancora avuto adeguata trattazione storica e critica, soprattutto era stato trascurato il ruolo e l'importanza di singoli incisori, e non sufficientemente indicati e commentati i protagonisti. Al proemio nel quale traccia i primordi della vicenda dell'incisione, con apertura assai oltre i confini della sua Toscana, Baldinucci fa seguire diciotto biografie di artisti, pittori-incisori, o semplicemente incisori, da Dürer a Callot, da Luca di Leida a Stefano Della Bella, da Marcantonio a Rembrandt, nelle quali, oltre la narrazione delle vicende personali e artistiche dei singoli, analizza la varietà delle tipologie delle stampe, le tecniche incisorie, le tematiche, le finalità, le committenze, dal che ne esce un quadro pressoché completo dello stato di quell'arte nel 1686, e anche, quel che giustifica il titolo del libro, "Cominciamento e progresso", l'idea di uno svolgimento progressivo del linguaggio dell'incisione, nel senso di "una bella gara fra il bulino e il pennello".
Dopo la grande impresa della "Letteratura italiana", apparsa fra il 1982 e il 2000 in 16 volumi, e dopo la "Storia europea della letteratura italiana" (apparsa presso Einaudi nel 2009 in tre volumi), la quale segnava per la prima volta il carattere compiutamente europeo della nostra letteratura, con la "Breve storia della letteratura italiana" Alberto Asor Rosa chiude il cerchio, fornendo al lettore un quadro al tempo stesso sintetico ed esaustivo della nostra fenomenologia letteraria. Ancora una volta, il noto critico e storico, sulla scorta di una magistrale conoscenza dei testi affinata negli anni, mette al centro della narrazione i due grandi protagonisti di ogni letteratura di ogni tempo, gli Autori e le Opere, ricollegandoli a quadri storici chiari e ben definiti. La divisione della Breve storia in due volumi, "L'Italia dei Comuni e degli Stati" e "L'Italia della Nazione", àncora la narrazione non solo a due fasi storiche profondamente diverse ma anche a due logiche della produzione intellettuale, culturale e letteraria ispirate a valori, principi e scelte umane di tutt'altra natura, e costituisce perciò anch'essa un ulteriore motivo di chiarezza.
Questo libro parla di quasi niente. Di un quasi-niente che riguarda ogni essere umano e che, aduso com'è al (diabolico?) camuffamento, ci giunge qui celato sotto la doppia maschera del morbo più celebre della storia e della finzione letteraria, che di quel morbo fa metafora, canto, fabula. Le voci antiche e recentissime (da McCarthy a Lucrezio, a Camus, a Poe, a Leopardi...) che si susseguono e si richiamano "in eco" da queste pagine sono altrettante declinazioni di un'unica domanda, che è poi il quesito fondamentale di ogni filosofia: perché? Perché siamo al mondo, se dobbiamo morire? Specie se la morte può arrivare nella forma di una catastrofica, immotivata e noncurante malattia che appare e scompare senza senso alcuno. Una malattia che uccide, ma che può far di peggio, lasciando le sue vittime "solo" vive, nude e private di qualunque parvenza di civile umanità. Perché anche l'umanità può rivelarsi una maschera. Siamo qui per scontare una colpa? Magari solo quella di essere? È un'ipotesi amara, che però lascia spazio alla speranza, alla scintilla divina che scopre un senso possibile nel cuore stesso del non-senso. Oppure non c'è alcun destino e nessuna colpa? La natura è una macchina demente, il cielo è vuoto, e il niente la vince sul quasi-niente.
"Dopo la fotografia" esamina gli infiniti modi attraverso i quali la rivoluzione digitale ha totalmente modificato la nostra fruizione delle informazioni visive, a partire dalle foto di cronaca scattate con i telefoni cellulari fino all'uso pervasivo della videosorveglianza. Allo stesso tempo, la maggiore possibilità di manipolare ogni immagine ha reso la fotografia un documento di ambigua identità, mettendo cosi in dubbio il suo ruolo nel raccontare gli eventi, pubblici o privati che siano. Nel solco della tradizione di studi tracciato da John Berger e Susan Sontag, Fred Ritchin analizza fallimenti e potenzialità non ancora sfruttate di un medium in continua evoluzione. Addentrandosi nel futuro dei media visivi, l'autore sottolinea come la rivoluzione digitale stia trasformando le immagini in un sistema ipertestuale che ha cambiato radicalmente il nostro modo di concettualizzare il mondo. Secondo Ritchin è il momento di esplorare con rigore le opportunità offerte dalle innovazioni digitali e di usarle per capire meglio il nostro mondo in rapida trasformazione. I collegamenti ipertestuali di uno scatto messo in rete, per esempio, offrono immense occasioni per il dialogo e l'arricchimento reciproco. Immaginare cosa accadrà alla fotografia è una sfida che dobbiamo affrontare senza indugio se vogliamo ancora avere un controllo su tutte quelle immagini che ormai produciamo in maniera esponenziale, evitando così di diventarne schiavi inconsapevoli.
"La genealogia della morale" è uno degli ultimi scritti di Nietzsche. La sua attualità è via via cresciuta nel tempo, tante sono le questioni cruciali con cui ci provoca, a cominciare dal fatto che Nietzsche toglie ogni rassicurante punto di appoggio a qualunque morale pretenda di valere per se stessa, fino alla grande scena del "risentimento ascetico" in cui domina quella volontà di nulla in cui noi, oggi, continuiamo a dibatterci. Questo nichilismo - ecco la sua amara e paradossale conclusione -è tutto ciò che abbiamo nelle mani: da esso paradossalmente ricaviamo quel poco di senso che ci salva dal baratro di un completo e insensato rifiuto della vita, del corpo e del desiderio. Dalla morale del "prete ascetico", risultato di un lunghissimo tragitto attraverso la cattiva coscienza e il senso di colpa (appunto, la genealogia), dobbiamo ripartire, e non possiamo girare pagina con una semplice impennata filosofica. Lo hanno capito in tanti nei decenni appena trascorsi, da Benjamin a Deleuze, a Foucault, a Sloterdijk. Si disegna qui la contraddizione del nostro presente, le sabbie mobili in cui siamo bloccati. Chi è il sano? Chi è il malato? Chi è il "vero" medico tra la folla dei falsi terapeuti? Nietzsche rilancia a noi la palla avvelenata, ed è perciò che questo libro dovrebbe essere letto, anzi "ruminato" da tutti, a cominciare dai giovani oggi cosi spaesati. E non c'è bisogno di essere addetti ai lavori per leggerlo e farne uso." (Pier Aldo Rovatti)
Anche se la questione ha radici lontane, che affondano nell'"affaire" Dreyfus che negli anni a cavallo tra Otto e Novecento divise la cultura francese ed europea in due schieramenti inconciliabili, "Il tradimento dei chierici" (1927) resta uno dei testi seminali sul ruolo (e l'autonomia) degli intellettuali: un libro che mette il sale della polemica su ferite tuttora aperte. Contro la crescente barbarie delle società occidentali e il loro impoverimento culturale (la subordinazione del pensiero agli interessi del capitale), Benda difende un ruolo dell'intellettuale "custode di valori" al sevizio di universali come la ragione, la verità, la giustizia. I "traditori" contro i quali si scaglia sono gli sciovinisti, i razzisti, i fascisti di ogni gradazione. Ma anche i rappresentanti di quella corporazione intellettuale che fa politica al riparo dalla sua supposta superiorità e imparzialità, i servi di ogni regime o ideologia, anche quando mossi delle migliori intenzioni. Con la prefazione di Davide Cadeddu.
Carlo Emilio Gadda è considerato da molti il più grande scrittore italiano del Novecento. La sua forza sta nel rappresentare come nessun altro le contraddizioni dell'uomo moderno. La personalità di questo autore, intimamente conflittuale, è sempre stata segnata da feroci ambivalenze affettive: le persone e i luoghi che più Gadda ama sono quelli contro cui si accende il suo odio o il suo sarcasmo, tutto ciò che irride in realtà lo attira. Questo atteggiamento è alimentato dagli effetti specialissimi della sua scrittura, anch'essa ovviamente duplice, in grado di passare da una comicità irresistibile al delirio più caricato in senso tragico. Il volume di Bersani descrive le caratteristiche di questa scrittura facendo leva sul racconto della vita di Gadda, sui nodi irrisolti, sugli aspetti psicologici che stanno alla base della sua opera. Biografia ed esame dei testi si alternano e si intrecciano attraverso un montaggio fortemente narrativo che utilizza citazioni dalle opere e dalle lettere di Gadda. Un ritratto che restituisce un'immagine diretta e coinvolgente del tormentato scrittore.
Il godimento femminile è il tema di questo Seminario. Un'assoluta novità nel campo psicoanalitico. Per Freud il godimento, comunque interdetto, si incentra tutto, per chiunque, sulla funzione fallica. Per Lacan il godimento, sebbene strutturalmente non sia permesso all'essere parlante, può essere detto tra le righe. È quel godimento di cui tutti e ognuno sanno dire qualcosa: parlare d'amore è già un godimento. L'amore infatti viene a supplire, e può arrivare a supplirvi egregiamente, al fatto che qualcosa nell'inconscio fa sì che anche quando l'uomo e la donna fanno l'amore ognuno resta dalla propria parte. Che Lacan sintetizza nell'aforisma "non c'è rapporto sessuale". Ma, colpo di scena, in questo Seminario Lacan apre un capitolo nuovo risolvendo una vecchia questione: il godimento fallico, rispetto al quale una donna si situa come non-tutta, ossia non-tutta lì, non esaurisce il godimento, poiché c'è un godimento altro, che è, rispetto al godimento fallico, supplementare. Ci sono persone che lo provano, ma che non sanno dirne nulla, come capita ad alcune donne o a dei mistici.
"L'Istoria del Concilio Tridentino" è forse la prima opera moderna che mette al centro della narrazione un grande avvenimento di vita ecclesiastica, lasciando sullo sfondo le grandi vicende politiche. Il concilio di Trento, convocato a metà Cinquecento dalla Chiesa romana per dare risposta alla Riforma protestante, viene analizzato attentamente da Sarpi, che segue le mosse dei sovrani europei nel tentativo di condizionare il rinnovamento religioso e l'azione dei vescovi per cercare di ottenere maggiore autorità nelle loro diocesi. Invece la curia romana riesce a piegare il concilio agli interessi papali e arriva a costruire una monarchia fortemente accentrata, forte di una dottrina saldamente articolata e dotata di potenti strumenti disciplinari. Il risultato sarà quella che viene chiamata la Chiesa della Controriforma. Sarpi, diventato consultore della Repubblica di Venezia in occasione del conflitto scoppiato nel primo Seicento con la Santa Sede, che pretendeva il riconoscimento di particolari privilegi, si era convinto che l'autorità papale costruita dal concilio avesse finito con l'annullare la distinzione dei poteri fra autorità spirituale e temporale. Proprio le vicende del concilio di Trento gli consentivano di spiegare come fosse avvenuta quella trasformazione, capace di colpire l'azione politica degli Stati moderni e la sua opera poteva essere dunque uno strumento di lotta in difesa del potere laico.
A dieci anni di distanza dalla sua prima apparizione, questa storia del design viene riproposta in una versione riveduta e arricchita, che dà conto dei più recenti sviluppi registrati in questo campo. Da quando nel 1851 la Great Exhibition di Londra raccolse per la prima volta, sotto le modernissime volte in vetro e ferro del Crystal Palace, i «prodotti dell'industria di tutte le nazioni», la sterminata famiglia degli oggetti d'uso è entrata nella storia della nostra cultura, reclamando un progetto formale -il design - che ha finito col dare vita a un campo culturale ben strutturato, a una disciplina universitaria e a una professione perfettamente definita. Progettare la figura di un oggetto d'uso quotidiano costituisce infatti un'operazione complessa, nella quale la forma deve confrontarsi con la funzione, la creatività deve sfidare i vincoli tecnici, e il principio etico, formulato fin dall'inizio, di "portare la bellezza in tutte le case" deve affrontare le ragioni della produzione e del mercato. Questo libro racconta quindi la storia del design come storia di un laborioso equilibrio ogni volta raggiunto fra le componenti artistiche e quelle tecniche del progetto. Al suo centro, però, resta sempre l'oggetto d'uso, strumento indispensabile per il vivere quotidiano, portatore di significati sempre più ampi, con le luci e le ombre che lo hanno accompagnato nella sua lunga vicenda.
Pensatore di matrice democratica, Carlo Cattaneo pervenne a formulare una decisa opzione per la struttura federale di un eventuale Stato italiano, ragionandone in termini storico-critici fin dagli inizi degli anni Quaranta dell'Ottocento. Riflettendo sulla particolare vicenda italiana, di cui coglieva gli elementi di frammentarietà e pluralità, Cattaneo teorizzò che la migliore soluzione per una Italia unita sarebbe stata quella dove le autonomie locali non fossero mortificate da una vincolante struttura centrale. La storia gli diede torto. Vinse la monarchia, vinsero i Savoia e il Piemonte esportò in Italia il suo modello accentrato. Solo la costituzione del 1948 avrebbe assicurato un regime repubblicano e un nuovo valore alle autonomie locali, lasciando tuttavia incerta e tuttora incompiuta una riforma in senso federale della struttura statuale. Di là dalle contingenze politiche, la voce di Cattaneo è una importante testimonianza dela solidità e della molteplicità dei dibattiti agli albori del Risorgimento italiano. Una voce non priva di effettiva attualità.
L'immagine dell'Impero britannico oscilla nella Storia. A seconda del continente e dell'epoca che vengono presi in esame, cambiano l'immagine e i criteri d'interpretazione. Troppo diversi furono i territori e i popoli dominati in modi diversi dagli inglesi. Pirati in cerca di bottino, mercanti spassionati, intrepidi navigatori e scopritori, sfruttatori nelle piantagioni e mercanti di schiavi, militari ottusi e missionarie idealiste, malviventi deportati dal suolo londinese e infaticabili allevatori, politici visionari e semplici funzionari di distretto contribuirono tutti insieme a plasmare progressivamente, nel corso dei secoli, uno dei piú grandi domini della storia mondiale contrapponendosi o collaborando con i sudditi che, a loro volta, fornirono un contributo decisivo nell'edificazione dell'impero.
Come sempre e ovunque nella Storia, a fronte dei successi dei vincitori e dei guadagni degli approfittatori stanno i destini delle innumerevoli vittime, gli sconfitti e gli sfruttati, gli indigeni perseguitati fino all'annientamento fisico come gli indiani dell'America settentrionale o gli abitanti della Tasmania, i milioni di schiavi neri, ma anche i soldati britannici che perirono di febbre gialla e altre malattie tropicali a Santo Domingo, tra il 1793 e il 1798.
Peter Wende, specialista di storia inglese di fama internazionale, offre al lettore una vasta e sfaccettata rappresentazione della storia politica, commerciale, militare dell'Impero inglese, dall'ascesa della Gran Bretagna a potenza navale e commerciale nella prima età moderna al consolidamento di un impero coloniale esteso su tutto il globo tra il XVIII e il XIX secolo, alla sua dissoluzione e trasformazione in Commonwealth dopo la fine della prima guerra mondiale.
La presenza della Chiesa nell'Italia moderna si è fatta sentire non solo, com'è ovvio, in termini di potere politico ma anche in termini di conquista delle coscienze. Spettò ai missionari collegare persuasione e repressione, dando così una base di massa all'egemonia cattolica.
A oltre trent'anni di distanza, viene riproposta al pubblico l'esemplare edizione che Giovanni Previtali ed Evelina Borea dedicarono alle "Vite" di Bellori (1672): torna così a essere udibile la voce più alta della storiografia artistica dell'Europa secentesca. La postfazione di Tomaso Montanari ricompone la personalità intellettuale di Bellori, proponendo nuove chiavi di lettura della genesi, della struttura e degli scopi dell'opera. Attraverso le "Vite", Bellori voleva dimostrare a un'embrionale opinione pubblica internazionale che la storia delle immagini e degli artisti era parte costitutiva della storia della cultura europea. Con Bellori la storia dell'arte e la cultura visiva vengono promosse al rango di cultura valida in sé, non più bisognosa di legittimazione letteraria. La riforma di Annibale Carracci e la sua riconsiderazione storico-critica del Cinquecento italiano avevano costruito in artisti e intellettuali la coscienza della dignità e dell'autonomia della cultura figurativa. Forte di questa consapevolezza, Bellori dimostra una straordinaria aderenza alle opere d'arte e, grazie a un lessico rinnovato e complesso, riesce a dar conto di un nuovo linguaggio e di una nuova epoca stilistica segnando così una tappa fondamentale nel processo che da Vasari a Lanzi costruisce una storia dell'arte italiana.
Da questo libro emerge un millennio medievale depurato degli "stereotipi colti" che caratterizzano le conoscenze su questa fase storica. Gli approfondimenti innovativi sono collocati all'interno di una trama espositiva che, per chiarezza, rispetta l'andamento cronologico e seleziona con cura le conoscenze che è bene facciano parte della nostra cultura, dedicando spazio maggiore ai temi che per molto tempo si sono prestati a equivoci e a interpretazioni semplicistiche. La centralità europea e continentale della trattazione non esclude uno sguardo aperto alle civiltà che, dall'Asia all'Africa settentrionale, dagli Urali alle isole britanniche, entrarono in contatto con la dominazione dei Franchi, la condizionarono e con essa interferirono. Con un'ulteriore centralità delle strutture del potere, questo Medioevo è dunque un repertorio di risposte che consente sia di acquisire saperi consolidati, sia di costituire una ideale premessa per gli studi che stanno applicando una nuova strumentazione a una lunga fase storica che occupa nella cultura diffusa un posto rilevante ma anche ricco di ambiguità.
Il dibattito intorno alla nostra responsabilità verso le generazioni future si è fatto in questi anni sempre più fitto e interessante, man mano che svanivano le certezze sul modello di sviluppo fondato sull'asservimento tecnologico della natura e l'"euforia del sogno faustiano" della modernità lasciava il posto a una visione della storia disincantata e perplessa - quando non disperante e apocalittica. L'uomo è diventato per la natura più pericoloso di quanto un tempo la natura lo fosse per lui, mentre alle tante fratture sociali che ostacolano il cammino verso un'umanità unificata si è venuta ad aggiungere la contraddizione antagonistica tra il mondo di oggi e il mondo di domani. Muovendo da questa diagnosi, Hans Jonas cerca in questo lavoro di andare alle radici filosofiche del problema della responsabilità, che non concerne soltanto la sopravvivenza, ma l'unità della specie e la dignità della sua esistenza. Tra il "principio speranza" di Ernst Bloch e il "principio disperazione" di Günther Anders, il "principio responsabilità" dà voce a una via di mezzo, nel tentativo di coniugare in un modello unitario etica universalistica e realismo politico.
Avete mai pensato alla vostra casa, all'ufficio, alla scuola, al cinema, alla trattoria, ai negozi, alle strade che frequentate? Avete riflettuto sul valore specifico dell'architettura, rispetto a quello delle altre arti figurative? Che differenza c'è tra la vostra abitazione e un tempio, o un arco di trionfo? Il giudizio che diamo su un monumento di Bramante è basato su criteri diversi da quelli su cui si fonda l'apprezzamento di un'opera di Le Corbusier? L'architettura è un'arte "astratta", oppure ha precisi contenuti? "Saper vedere l'architettura" risponde a questi interrogativi: il suo proposito è di rivelare il segreto, l'essenza spaziale dell'architettura, affinché tutti sappiano vedere gli ambienti in cui spendono tanta parte dell'esistenza.
Filosofo morale e metafisico, pensatore politico e religioso, esegeta della Bibbia, critico della società, intagliatore di lenti, commerciante fallito, intellettuale olandese, ebreo eretico. Se la vita di Spinoza è tanto interessante, ciò è dovuto anche ai diversi contesti, a volte contrastanti, in cui si trovò a operare: la comunità di immigrati portoghesi e spagnoli, parecchi dei quali un tempo "marrani", rifugiati in seguito nella nuova repubblica olandese, ricca di opportunità economiche; la politica turbolenta e la lussureggiante cultura di questa giovane nazione, che alla metà del XVII secolo conobbe la sua età dell'oro; e, non ultimo, la storia stessa della filosofia. Basato su rigorose ricerche d'archivio, Baruch Spinoza di Steven Nadler - più che un semplice resoconto della vita del filosofo - introduce il lettore nel cuore dell'Amsterdam ebraica del XVII secolo e nel tumultuoso mondo politico, sociale, intellettuale e religioso della giovane repubblica olandese.
Cos'è la morte - la morte di tutti e di ciascuno, la morte di sempre e quella marcata dai segni inquietanti del nostro tempo? Come penetrare in un evento tanto decisivo da incidere in profondo la nostra esistenza eppure tanto opaco da mettere in scacco ogni sapere volto a rappresentarlo? Sono queste le domande, brucianti ed estreme, che alla fine degli anni Cinquanta, a pochi anni dalla più grande apocalisse dell'epoca moderna, si poneva Vladimir Jankélévitch in un libro che giustamente Lévinas ebbe a definire "sconvolgente". Sconvolgente per la radicalità con cui egli decostruisce tutti i dispositivi immunitari elaborati dal sapere occidentale nei confronti dell'Irriducibile; ma anche per l'acutezza di uno sguardo, affilato e obliquo, che taglia in maniera trasversale le grandi interrogazioni sulla morte, all'epoca affrontate da Heidegger e da Freud, da Blanchot e da Foucault, ma già prima da scrittori come Tolstoj e Rilke. All'interno di un grande scenario teorico, che spazia dall'antichità ai nostri giorni, la riflessione jankélévitchiana rivela una sorprendente attualità.
Negli scritti di Bobbio degli ultimi trent'anni si trovano numerosi accenni al progetto di redigere una "Teoria generale della politica", concepita come un'opera di ampio respiro. Il progetto, mai condotto a termine, viene ora realizzato a cura di Michelangelo Bovero, suo allievo e successore nell'insegnamento della Filosofia politica, ricomponendo in un ordine sistematico una quarantina di saggi di Bobbio, scelti in base a due criteri principali: da un lato, la portata generale del contenuto teorico di ciascuno di essi e la sua rispondenza a un aspetto essenziale del pensiero di Bobbio; dall'altro la scarsa o nulla notorietà di questi saggi rispetto ad altre opere bobbiane.
Risultato di più di vent'anni di ricerche e analisi sul tema della violenza, delle sue espressioni estreme, dei suoi usi politici e degli esiti che hanno scandito la storia del XX secolo, questo libro si propone di reperire una logica, per quanto atroce e terribile, nell'inferno dei genocidi. Il che è possibile solo attraverso una minuziosa ricostruzione dei tragitti politici, delle poste in gioco, delle tattiche e strategie per mezzo delle quali la violenza ha potuto trapassare - superando interdetti ancestrali relativi alla stessa concezione dell'umanità - in pratica genocidiaria e purificazione etnica. La violenza in questione è quella estrema, apparentemente più ingiustificabile e terrificante, che Sémelin invita a guardare senza subirne gli effetti sideranti o addirittura l'atroce fascinazione, e che diventa comprensibile non appena venga inscritta nelle condizioni, nei meccanismi e nei processi che conducono alla messa a morte di massa. Il libro prende in considerazione in particolare le tragedie della Shoah, dell'ex Iugoslavia e del Ruanda, alla ricerca degli "operatori" logico-storici che hanno funzionato nel progetto di distruzione del popolo ebraico, nel programma di pulizia etnica attuato in Bosnia e nel genocidio ruandese, mettendo a confronto ricerche, resoconti e testimonianze, e intrecciando al lavoro di carattere storico l'analisi psicologica, sociologica, antropologica, politologica.
Specialista di Mozart, di Verdi e di Brahms, Massimo Mila ha affrontato con il coraggio intellettuale che gli era proprio anche l'insidioso terreno della polifonia quattrocentesca, affascinato com'era dalla voce del suo artista più insigne, Guillaume Dufay (1400 ca.-1474), il compositore franco-fiammingo che aveva trovato nella corte dei duchi di Borgogna un ambiente congeniale. Artista di transizione, tipico esponente dell'autunno del medioevo, o artista "moderno", dopo il quale la musica non sarà più la stessa? Alla luce di questo interrogativo Mila ripercorre il profilo biografico del compositore, delinea la parabola della sua produzione sullo sfondo dei principali eventi del Quattrocento musicale europeo e passa poi a un'ampia disamina delle opere.