Quando qualcuno ci chiede chi siamo, rispondiamo con un racconto: si chiama storytelling. Oggi questo è vero più che mai, in quanto la tecnologia – smartphone, pc, social network – ci espone – sia attivamente che passivamente – a una narrazione costante e una costante rielaborazione della nostra identità. La narrazione accompagna la nostra vita e se da un lato ci aiuta a preservare la memoria, dall’altro rischia di sostituire la realtà, di occultarla, di impedirci di vedere le cose così come sono o di frammentarla. L’efficacia del racconto era nota già al mondo antico, da Aristotele a Sant’Agostino ed è da lì – passando per Heidegger e Leopardi – che Piccolo parte in un viaggio che arriva fino a noi, uomini immersi nell’era della comunicazione globale, per raccontare l’enigma dell’identità.
Ancora oggi l’evento Auschwitz si presenta come un fatto storico tutt’altro che chiarito, permane infatti una zona d’ombra che sfugge costantemente alla presa.
Così, nonostante le molte parole dette e scritte, attorno a esso permane un silenzio che pare allontanare la sua comprensione. È un silenzio carico di molti significati, perché è popolato in realtà da molteplici silenzi che hanno diversa natura. Sono silenzi che riguardano la presunta indicibilità di quell’evento, ma sono anche silenzi di reticenza o di mancata elaborazione, nascondono complicità inconfessabili o la semplice necessità dell’oblio, ma a volte sono anche generati da un eccesso di retorica. Su tutti, spicca il silenzio dei sopravvissuti, che nella maggioranza
dei casi non hanno raccontato nulla o quasi. Ma ancora di più il silenzio di quei testimoni che a un certo punto del loro racconto devono interrompersi perché le parole non bastano più. Lì forse affiora in modo più concreto e vivido la realtà di quella tragedia, e lì forse andrebbe concentrata di più l’attenzione. Il silenzio, però, è anche la cifra che regola il pudore della parola, perché parlando di e su Auschwitz si rischia spesso di eccedere in un senso o in un altro, in
un mutismo sacralizzante o in una cerimoniosa bulimia verbale, mentre sarebbe essenziale trovare gli spazi e i tempi opportuni affinché le parole non perdano di senso e non banalizzino.
In Italia le prime banche del seme risalgono agli anni Settanta. Il divieto assoluto arrivò in Italia con la legge n. 40 del 2004, ma dopo un decennio tale divieto è stato rimosso da una sentenza della Corte di Cassazione. In attesa della nuova legislazione, la situazione era quanto mai instabile, legata a linee guida e leggi regionali mentre, nel dicembre del 2014, lo Stato ha reso disponibili i fondi necessari alla creazione di una banca del seme italiana. Lontano dai percorsi comuni e dai riferimenti scontati, questo libro cerca pregi e difetti, contraddizioni e meriti di una pratica controversa. La fecondazione eterologa viene indagata attraverso la voce dei filosofi, ma c'è spazio per lasciarsi sorprendere da riferimenti letterari, cinematografici e dal forte richiamo alla vita di tutti i giorni. "Prima ancora che questioni "calde", "centrali nel dibattito pubblico" o "à la page", sono questioni "mie", su cui mi interrogo pensando alla mia stessa esistenza e al suo significato. Per questo la domanda che ho posto è declinata alla prima persona singolare e si rivolge proprio a me: "Se ci fosse la necessità, potrei avere un figlio con la fecondazione eterologa?". Sono convinto che la filosofia debba impastare la propria vita alla polvere delle università e, come Agostino, Pascal o Kierkegaard, prediligo la filosofia al singolare, che mette in questione prima di tutto se stessi". Un volume che aiuta a trovare i riferimenti storici e legislativi di un tema controverso...
Chiamati al difficile compito di definire la nostra identità, realizzando in noi, nel tempo che ci è concesso, "qualcosa che sia unico e al tempo stesso possa valere, per chiunque lo osservi, come un buon esempio di un'esistenza umana riuscita", spesso volgiamo i nostri occhi alla morale. Questa, però, non può essere una cappa asfittica che rattrappisca le nostre aspettative personali, ma deve nascere dal riferimento a un principio alto, capace di essere stimolo e guida in questo difficile compito. "Solo in questo modo l'etica rimane una ricerca personale, una sfida e un luogo di formazione di sé, invece di divenire una scusa per non pensare, per obbedire a un comando o per confondersi nel conformismo di una tradizione o di una moda". Nella prospettiva morale che Roberto Mordacci propone, a un tempo personalista e critica, al centro dell'etica vi sono le persone, la loro complessità e la loro fragilità, la loro libertà e la loro responsabilità verso l'esistenza propria e altrui. Il tutto a partire da un'intuizione fondamentale: l'etica è per le persone e non viceversa, così come, nel Nuovo Testamento, si dice che "il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato" (Marco 2, 27)"..
Siamo tutti connessi, ma davvero comunichiamo? Messaggi o e-mail, e poi blog, post, tweet, feedback e chissà quanto altro. La connessione è sempre aperta, bastano pochi secondi per comunicare quanto stiamo facendo ai nostri amici, ai nostri conoscenti o, per non mettersi limiti, a tutto il mondo. Il paradosso è che all'interno di questo continuo scambio di messaggi è proprio il dramma della comunicazione umana a passare in secondo piano: ciò che conta è lo strumento tecnico, il computer, lo smartphone, il tablet. Se hai quello, puoi comunicare: non è più questione di capacità, ti basta solo il possesso. Eppure, ci ricordano queste pagine, "ci può essere un intenso ed efficace trasferimento di segni, messaggi, immagini ecc. senza che per questo ci sia un solo atto comunicativo, così come ci può essere un continuo parlare all'altro senza che per questo ci sia un solo istante di dialogo con lui".
"La malattia del secolo" è il burnout, quel "bruciarsi", "esaurirsi", dovuto all'eccessiva spersonalizzazione soprattutto nel mondo del lavoro. Malattia del troppo, tipica degli eccessi del sistema di consumo, produzione e lavoro occidentale; malattia che porta alla spersonalizzazione e all'annientamento della parte umana di ciascuno di noi: prima di essere un problema individuale, il burnout è una patologia della nostra società. "Quando l'equilibrio di una persona si rompe e prendere la metropolitana per andare a lavorare sembra un ostacolo insormontabile, sorgono delle domande. Quello che funzionava da sé diventa subito problematico. Consacrare la propria esistenza a un'azienda non ha più il senso di un tempo, accettare orari di lavoro assurdi non è più sopportabile. Ma come ritrovare un nuovo equilibrio, dato che il precedente si era costruito senza che neanche ci si dovesse pensare, e che lavorare era tanto naturale quanto camminare?".
Lo chiamano "pluralismo" ed è un fatto incontestabile. Significa che siamo tutti diversi e che, di conseguenza, la nostra convivenza non è né semplice né scontata. Significa che se Dio parla a ciascuno di noi, sembra restare in silenzio di fronte alla comunità: ci lascia nel guado, intenti a fuggire da odio, disprezzo, prepotenza, violenza. Qual è, allora, la via d'uscita? "Quale che sia il nome di Dio, quali che siano i cieli sopra di noi o dentro di noi, quanto deboli o forti siano i doveri che si impongono alle nostre coscienze, tutte le decisioni sulla terra sono rimandate a noi, esseri terreni che devono cercare da sé la propria strada, sia quella da percorrere quotidianamente, verso i propri fini e confini, sia quella da percorrere per l'incontro con Dio, per chi ci crede, per chi lo cerca, per chi ce la fa". Nella nuova collana "Spiragli", un testo che indaga i misteri delle convivenze umane, dal tema del pluralismo culturale, alla tolleranza, fino al rapporto tra le culture e a quello tra le diverse fedi e confessioni religiose. "Io penso che la tolleranza sia una cosa buona: è la virtù di chi accoglie pur disapprovando, di chi rispetta pur dissentendo, di chi distingue le persone dalle loro idee e perfino dalle loro condotte. È certamente una virtù difficile e controversa: ma cercherò di difenderla e spiegherò perché".
Giustizia globale e giustizia sociale, responsabilità comune su scala mondiale, forme istituzionalizzate della socialità, rapporto tra individuo e società: un saggio attualissimo sulla morale dei comportamenti sociali alla luce dell’etica cristiana. Un contributo fondamentale al dibattito aperto in ogni nazione su quali debbano essere i principi attorno ai quali organizzare la società, lo Stato, il diritto, la politica e – non da ultimo – la cultura e l’economia. Una risposta alle tente domande sui principi orientativi delle politiche sociali e del lavoro.
Walter Kerber, gesuita, è professore di etica e scienze sociali presso la scuola superiore di filosofia a Monaco di Baviera.
Una ricca introduzione allo studio del diritto che pone un imperativo morale a tutti i giuristi e in particolare ai giuristi cattolici: riconoscere la verità del diritto come "cattolica" cioè riconoscerla per tutti gli uomini. In quanto "cattolico", il giurista è mosso dalla convinzione che il "giusto" si radica nel "bene" e che il bene non ha un carattere confessionale: è sempre e comunque "bene umano", che, nei confronti di ogni altro, l'uomo ha il dovere di difendere e di promuovere.
Francesco D'Agostino (Roma, 1946) insegna Filosofia del Diritto nell'Università di Roma "Tor Vergata" e nella Pontificia Università Lateranense. È condirettore della Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto. Membro dal 1990 del Comitato Nazionale per la Bioetica, ne è stato Presidente dal 1995 al 1998 e ne è attualmente Presidente Onorario. È membro della Pontificia Accademia per la Vita. Tra i suoi libri: Filosofia del diritto (19962), Il diritto come problema teologico (19973), Bioetica (19983), La sanzione nell'esperienza giuridica (19995).