Lazzaro, l'amico di Gesù, è malato. Marta e Maria, le sorelle, lo mandano a dire a Gesù. "Signore, ecco, il tuo amico è malato". Udendo quelle parole, Gesù dice: "Questa malattia non è per la mor-te, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato" (Giovanni 11,4). Lazzaro però morì, dunque la sua malattia era mortale. Eppure quella malattia non fu per la morte, non fece il gioco della morte, perché divenne fonte di fede. Se quella malattia non è per la morte, c'è nella nostra epoca una malattia che sia per la morte? C'è, risponde Kierkegaard, ed è la disperazione. La disperazione è il peccato dell'uomo contro il mondo, contro gli altri, contro Dio. E la malattia dello spirito, del sé, la malattia che fa desiderare la morte pur tenendo sempre in vita, pur condannando sempre alla vita. Per questo la disperazione è per la morte, è a servizio della morte senza essere mortale, fa vivere la morte senza concedere la morte. La malattia per la morte, pubblicata nel 1849, è una fenomenologia della disperazione, e descrive una parabola che va dalla disperazione che non sa di essere tale alla disperazione che sa se stessa e sfida il mondo e Dio. È il capolavoro di Kierkegaard, in cui i fili della sua riflessione psicologica, teologica e filosofica trovano la più alta e compiuta formulazione.
I saggi di Gioacchino Volpe, pubblicati per la prima volta tra il 1907 e il 1912, e poi raccolti dall’autore in volume nel 1922, rappresentano una pietra miliare negli studi sul medioevo italiano. Attraverso l’analisi dell’eresia dei patari, delle esperienze dei valdesi, del grande movimento francescano e di altri fenomeni religiosi che caratterizzano l’Italia tra l’inizio del secondo millennio e il Trecento, l’autore mette sotto osservazione le trasformazioni dell’intera società medievale. Si tratta di un cambiamento radicale di indirizzi sociali e politici, di uno straordinario scontro di poteri tra coloro che attraverso l’innovazione religiosa forzarono i termini dei vecchi assetti e rapporti di forza, e coloro che rappresentarono le istanze di controllo, di ordine, gerarchizzazione.
Entro un simile scontro di poteri e di ispirazioni, che coinvolge la sfera religiosa così come l’ambito istituzionale e civile, si evidenziano«le sorgenti dello spirito individualistico che costituisce il segno distintivo dell’epoca nuova», quel «nuovo sentimento della natura e dell’uomo» che non solo conferisce un ritmo «più gagliardo» al sentimento religioso, ma intride di sé tutta la vita civile. La storia delle eresie attrae dunque lo studioso della società medievale per un complesso di motivazioni, che vanno ben oltre la specifica valenza religiosa: essa è, in realtà, storia di competizioni guelfe e ghibelline, storia di conflitti tra papi e imperatori, storia di modificazione della proprietà e del potere, storia di costituzione di Stati. Di là dalle valenze ideologiche che per un lungo periodo lo hanno velato, e a cui non è estranea la stessa interpretazione fornita dall’autore alla vigilia del fascismo, lo studio di Gioacchino Volpe rimane un grande classico in grado ancora oggi di porre allo storico religioso e civile interrogativi cruciali.
La fine dell'impero romano d'Oriente si è caricata, nei secoli, delle valenze evocative proprie delle date epocali. Non solo: attorno al declino di Bisanzio si concentrano gli stereotipi storiografici di un "senso comune" che vede nel bizantinismo il male del più esasperato politicismo, la decadenza dello spirito pubblico e della lotta politica nelle spire della logica del tradimento. Una deformazione prospettica diffusasi lungo tutta l'età moderna, che ha proiettato all'indietro i caratteri dell'ultima Bisanzio: un mito a suo modo volgare che il libro di Ivan Djuric consente di tradurre nella ricchezza interpretativa e documentaria di uno studio storico di grande acume, che lucidamente conduce al cuore del mondo politico, religioso e diplomatico della Costantinopoli al suo tramonto: come scrive lo stesso Djuric, è la storia della fine di "un impero che non c'è". Già infatti alla fine del XIV secolo Bisanzio non è più padrona del proprio destino, costretta a fare i conti con il declino del suo prestigio, con la miseria delle città, con l'indebitamento dello Stato e la dipendenza economica dalle potenze mediterranee, con i conflitti interni alla famiglia regnante, con le mutilazioni territoriali e l'inevitabile decentralizzazione. Infine con i turchi: tutto ciò scandisce il tramonto fino alla definitiva caduta nel 1453, e si erge prepotentemente a sfondo storico degli sforzi di Giovanni VIII Paleologo di contrastare un destino forse non del tutto scritto.
Il compito, l'oggetto e le questioni precipue della filosofia emergono dalle tensioni e dai travagli della vita collettiva in cui essa nasce, e i suoi problemi specifici variano con i cambiamenti sempre in atto, portando talvolta a una crisi e a un punto di svolta nella storia", scriveva così John Dewey nell'introduzione a questa vera e propria summa del suo pensiero. Pubblicato nel 1919, il testo fu riproposto venticinque anni dopo, con una lunga introduzione in cui l'autore ribadiva la necessità di una riforma radicale della riflessione filosofica: una ricostruzione capace di tener conto, e di ricondurre nel campo umano e morale, l'enorme potenzialità del metodo empirico che ha portato al successo delle scienze naturali. Contro tutti i detrattori della scienza, Dewey mostra che è proprio da un esame dei procedimenti dell'analisi scientifica che possiamo ricavare i nostri ideali democratici. Per questo egli propone, anche in filosofia, un atteggiamento sperimentale. Il suo modello per la discussione pubblica democratica è quello di una comunità di ricercatori scientifici sinceramente impegnati a risolvere un problema. In effetti, nella scienza l'intelligenza e la qualità delle soluzioni dei problemi emergenti sono direttamente collegate alla democraticità della ricerca, cioè alla possibilità da parte di tutte le persone coinvolte di scambiarsi informazioni e avanzare critiche e considerazioni in modo libero e aperto.
Uno e molteplice, il Novecento si chiude sollecitando i contemporanei a una riflessione che va al di là delle scadenze del calendario. Difficile dire se si sia trattato di un periodo omogeneo e dotato di autonoma identità; se sia stato - come si dice - un'epoca della storia del mondo. Alla terribile grandiosità degli eventi che lo hanno scandito, e che da un lato hanno unificato, dall'altro frantumato la storia del genere umano, si è unito il moltiplicarsi dei punti di vista, delle discipline, dei criteri interpretativi, il diversificarsi delle emozioni e delle memorie. Crisi della linearità, crisi dell'idea stessa di un filo rosso omogeneo e "progressivo". Sovrapposizione dei tempi, degli spazi e dei contesti. I saggi qui raccolti percorrono i grandi temi e i differenti campi di questa complicata vicenda, ma convergono tutti sulla domanda finale. Ha un senso, che senso ha, quanti sensi può avere, la storia del Novecento? Coordinate da Claudio Pavone, si alternano in queste pagine le riflessioni di alcuni tra i più autorevoli storici contemporaneisti. A chiusura del volume una conversazione tra Claudio Pavone e Vittorio Foa: una testimonianza e una riflessione sui nodi cruciali del controverso "secolo breve".
Sebbene sia interessato a un passato lontano, spesso lo studioso del mondo antico cede alla tentazione di assimilare l'antichità al proprio sistema culturale, con il rischio di deformarla. Luogo di origine della scrittura e del diritto, della democrazia, delle scienze e della bellezza classica, l'antichità è effettivamente, per noi, un costante punto di riferimento e una continua fonte di legittimazione. Come si può rendere dunque percepibile la specificità delle società del passato? È a partire da questo interrogativo (in cui è riassunto il paradosso che caratterizza lo studio della storia antica) che Pierre Cabanes tenta di descrivere la diversità e le peculiarità di un mondo di fronte al quale lo storico si trova spesso in difficoltà a causa della mancanza di fonti documentarie certe, ma soprattutto dell'inadeguatezza dei concetti storiografici tradizionali e della stessa metodologia storica. La sua ricognizione si fonda in primo luogo sull'identificazione delle fonti documentarie, ne descrive le tipologie, le problematiche che ciascuna di esse pone, e il lavoro interpretativo necessario per rendere intelligibili le realtà del passato. Una serie di quadri sintetici, scandita in successione cronologica, ricostruisce poi i grandi temi e le principali vicende della storia antica a partire dai regni del Vicino Oriente per arrivare alla fine dell'Impero romano.
Il ventennale carteggio tra Alexis de Tocqueville e Arthur de Gobineau è un documento importante e drammatico, nella storia del pensiero politico contemporaneo. Segnata da un costante quanto leale disaccordo, la discussione tra il teorico della democrazia e il vate del razzismo si dipana lungo i sentieri che conducono al cuore del "moderno" e dei suoi paradigmi ideologici: dal rapporto tra morale, religione e politica, al problema dell'eguaglianza di popoli e nazioni; dal conflitto tra "passioni" e "interessi" alla cruciale "questione della razza". Alla luce delle profonde diversità che contrappongono i due interlocutori, il sodalizio tra Tocqueville e Gobineau appare ancora più singolare: esso attraversa tutta l'esperienza del Secondo Impero francese, resistendo alla sempre più marcata e conflittuale divaricazione tra le opinioni del maestro e quelle del suo "assistente". Altrettanto singolare fu la sorte che toccò ai due pensatori: mentre il razzismo di Gobineau si avviava a compiere, nel secolo successivo, il suo tragico ciclo, diventando dottrina di Stato e metodo di genocidio, la lucida e preveggente analisi dei meccanismi del sistema democratico elaborata da Tocqueville avrebbe conosciuto una lunga fase di oblio, che solo nel secondo Novecento sarebbe stata riscattata da un nuovo interesse scientifico. C'è in questo scambio epistolare, oltre al valore teorico e all'inaspettata attualità dei temi, una grande lezione di metodo.
"Solo l'Occidente conosce uno stato nel senso moderno, con un'organizzazione legalmente stabilita, una classe di funzionari di professione e un diritto di cittadinanza... Solo in Occidente si trova il concetto del cittadino (civis romanus, citoyen, bourgeois), perché solo in Occidente c'è una città nel senso specifico del termine... Infine la cultura occidentale si distingue da ogni altra per la presenza di uomini con un ethos razionale della conduzione della vita. Magia e religione le incontriamo ovunque. Ma un fondamento religioso della condotta di vita, che doveva poi portare nelle sue conseguenze ad un razionalismo specifico, è proprio soltanto, ancora una volta, dell'Occidente." Così si esprimeva, nel semestre invernale 1919-20, Max Weber durante il suo ultimo corso universitario, dedicato alla storia economica e sociale universale. Pubblicata per la prima volta nel 1923, quest'opera si presenta come una piccola summa del nucleo del suo pensiero ed è l'unico testo nel quale propone in forma sintetica la sua teoria della genesi del capitalismo occidentale. Accanto al ruolo della religione protestante nello sviluppo del capitalismo, e più in generale nella formazione di una regola etica di vita, egli ricostruisce - con una straordinaria padronanza della storia delle diverse civiltà - il lento formarsi di una serie di fattori istituzionali che solo nell'esperienza occidentale giungono a pieno compimento: dallo stato moderno al principio di cittadinanza, dalla scienza alla tecnica razionale.
L'obiettivo dichiarato di queste Lezioni - tenute da Foucault a Berkeley nel 1983 - è quello di ricostruire, attraverso la problematizzazione del concetto di verità, "una genealogia dell'atteggiamento critico nella filosofia occidentale". Il metodo seguito è quello dell'analisi filologica. Protagonista di questo seminario foucaultiano è infatti una parola, il termine "parresia", che connota, nella lingua greca, l'attività di colui che dice la verità. Seguendone il percorso nelle tragedie di Euripide, nei testi "socratici" di Platone, e via via in quelli di Aristotele e Plutarco, Epitteto e Galeno, Foucault restituisce a pieno le tensioni etiche della società greca, e insieme propone la questione centrale del suo metodo di indagine.
Qual è il senso del medioevo? In che cosa gli siamo debitori? Perché studiarlo o insegnarlo? In questo breve, densissimo scritto, uno storico insigne prova a cimentarsi con le domande più radicali, e solo apparentemente più ovvie. In questa nuova edizione, ampliata e riveduta, l'autore partendo dai luoghi comuni e dai distinguo degli specialisti arriva a definire il medioevo un grande "laboratorio", un cantiere dove lavorano molteplici esperienze e idee.
Il libro dedicato più di vent'anni fa da Pierre Grimal alla storia del giardino costituisce ancor oggi una chiave d'accesso essenziale a uno dei temi cruciali della nostra storia culturale. Luogo deputato dell'incontro tra natura e artefatto, il giardino è il filtro simbolico attraverso il quale gli uomini hanno sempre cercato di configurare il loro stesso rapporto con la natura. "L'uomo - è stato scritto - nasce in un giardino. Tutte le leggende collocano il luogo d'origine dell'umanità in un recinto protetto, nel grembo materno che custodisce la vita". Da quella idea originaria si sviluppa tutta una serie di impianti e modelli che sono il portato diretto delle diverse culture civili che le hanno di volta in volta prodotte.
Lippmann indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini "interne" elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con il mondo esterno, gli ostacoli che limitano le nostre capacità d'accesso ai fatti, le distorsioni provocate dalla necessità di comprimerle, "raccontando" un mondo complicato con un "piccolo vocabolario"; infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare la vita consueta. A partire da questi limiti, l'analisi ricostruisce come i messaggi provenienti dall'esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi. Il testo di Lippmann ci offre anche una lucida critica del sistema politico democratico che ambisce a governare società sempre più complesse.