«Siccome l’importanza della Sacra Scrittura è di essere per gli uomini un interprete del divino e la sua esigenza è di voler insegnare al credente tutto dall’inizio, è ovvio che i suoi termini ed espressioni risuonino ripetutamente nei luoghi sacri. Ma pure nei discorsi quotidiani e profani si ode talvolta un’espressione biblica che dal sacro si è smarrita nel mondo – smarrita perché il modo in cui viene usata mostra a sufficienza che non ha lasciato volontariamente casa sua, bensì che è stata rapita. Chi la impiega non è commosso dall’espressione biblica, non risale indietro col pensiero per trovare il suo luogo serio nel contesto sacro, non atterrisce all’idea che è un sacrilegio usare in questo modo l’espressione anche se l’uso, lungi dall’essere un’impudenza, è agli occhi degli uomini soltanto una leggerezza perdonabile». Questo incipit di uno dei discorsi edificanti vale anche per gli altri diciassette pubblicati da Soren Kierkegaard a suo nome tra il 1843 e il 1844 – qui per la prima volta tutti tradotti in italiano –; e ancor più vale quanto posto in premessa a spiegazione del titolo: «Discorsi, non prediche, poiché il suo autore non ha autorità per predicare; Discorsi edificanti, non discorsi di edificazione, poiché il parlante non presume affatto di essere maestro». Con questo spirito Kierkegaard, il quale si era prefisso nella vita «una cosa sola, rendere attenti alla dimensione cristiana», li compose in controcanto alle contemporanee opere pseudonime – le celebri Enten - Eller, Timore e tremore, Il concetto di angoscia, per citarne alcune –, che vengono così illuminate di luce nuova.
L’immutabilità di Dio, l’ultimo Discorso pubblicato da Kierkegaard nell’agosto del 1855, è pervaso dall’intento di comunicare quanto sia rasserenante la novità cristiana per ciascun uomo pensoso del proprio vero bene, non solo per l’eternità, ma in ogni momento del proprio cammino nel tempo: «Per questo ci proponiamo di parlare di Te, Immutabile, ossia della Tua immutabilità, se possibile,
sia con spavento sia per la serenità». Al termine del Discorso Kierkegaard potrà così sostenere: «l’Immutabile viaggia insieme» con noi. Anche per questo egli non intende dimostrare né l’esistenza di Dio né che Dio è immutabile, bensì, paradossalmente, che Dio, l’Immutabile, si muove per porsi e restare vicinissimo ad ogni attimo di vita di ogni singolo uomo, operando per il suo bene,
ma anche lasciandolo sempre libero di ricusare l’aiuto che l’Immutabile immutabilmente gli porge.
(dall’Introduzione di Umberto Regina)
Un inedito tratto dall’edizione critica danese degli scritti di Kierkegaard. - Un breve trattato incompiuto su come si educa narrando le favole ai bambini. - Per la prima volta tradotto in italiano e commentato, fa da pendant al volume precedentemente pubblicato con la traduzione delle favole. Un libro per tutti.
"Come i greci insegnavano che conoscenza è reminiscenza, così la filosofia moderna insegnerà che tutta la vita è una ripresa. [...] Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda, è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo. Perciò la ripresa, ammesso che sia possibile, rende l'uomo felice, mentre la reminiscenza lo rende infelice, a condizione però che l'uomo si dia tempo di vivere e non cominci appena nato a trovare un pretesto per riandarsene, magari con la scusa di aver dimenticato qualcosa. Il solo amore felice è l'amore-ricordo, ha detto un certo scrittore. Bisogna convenire che è giusto, purché non si dimentichi che esso al principio ha reso l'uomo infelice. L'amore-ripresa è in verità il solo amore felice perché non porta con sé, al pari dell'amore-ricordo, l'inquietudine della speranza, né la venturosa trepidazione della scoperta, né la commozione della rimembranza, ma soltanto la felice certezza del momento. La speranza è un vestito nuovo fiammante, che non fa pieghe né grinze, ma non puoi sapere se ti va, né come ti va, perché non l'hai mai indossato. Il ricordo è come un vestito smesso, per quanto bello non puoi indossarlo, perché non ti entra più. La ripresa è una veste che non si può consumare, che non stringe né insacca, ma dolcemente aderisce alla figura. La speranza è una bella fanciulla che ci guizza via dalle mani."
"Ultimatum" è il titolo della sezione finale di Aut-Aut e consiste in una predica intitolata "L'edificante che sta nel pensiero di avere sempre torto davanti a Dio". Sono pagine densissime, in forma di omelia, che fanno luce sul nucleo profondo del pensiero di Kierkegaard e del contributo che egli ha dato e può ancora dare alla filosofia occidentale. Il predicatore - finto e anonimo - non si rivolge a parrocchiani raccolti in chiesa, ma vuole comunicare un «pensiero» ai filosofi, invitati, tramite un argomentare incalzante e propositivo, a concentrarsi su un unico, decisivo concetto: «l'edificante», in origine tutt'altro che un concetto ma esperienza della «vita nuova» dei primi cristiani. Kierkegaard rivolge qui un ultimatum a se stesso: il situarsi «davanti a Dio», nella consapevolezza di avere sempre torto, dà molto da pensare alla filosofia, e anzitutto al filosofo che giace nel fondo di ogni uomo in quanto uomo.
"Venite a me, voi che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò". Da queste brevi righe tratte dal Vangelo di Matteo [11,28], Kierkegaard fa partire il proprio "esercizio di cristianesimo", polemico nei confronti di chi suppone che si possa giungere a Dio senza un impegno diretto, personale, interiore, radicale. Poiché l'attesa di Dio, dice il pensatore danese, ci deve condurre a una scelta decisiva, aut aut, pro o contro, che ci riguarda nel profondo e che resta insuperabile. Il cristiano deve sapere che non vi è altra possibilità di conciliazione e di pace in se stesso, se non "andando a Dio", muovendo verso quel Dio che, unico, ha il potere di consolare, di ristorare. Chi cerca salvezza in se stesso e nelle proprie azioni, non troverà altro che angoscia. I grandi temi del pensiero di Kierkegaard sono tutti riassunti in queste pagine altissime, che non smettono di provocare il lettore e di invitare il credente a una conversione continua.
Kierkegaard non scrisse mai direttamente favole, se non mescolate alle pagine filosofiche o ai discorsi religiosi, a modo di esempi o apologhi. Eppure, quasi tutte le volte, questi brani iniziano con l'esplicito attacco: "C'era una volta…". Differenziandosi da Andersen, Kierkegaard aspirò a una propria maniera di scrivere favole - pensose, amare, talvolta dure - come nuovi esperimenti spirituali. Questo libro - raccogliendo favole vere, presunte o abbozzate - rivela un volto inedito del pensatore: le voci di un giglio, di un'oca o di un viandante narrano la dimensione esistenziale delle creature.
"In un bilancio dell'attività letteraria svolta nel 1848, Kierkegaard dichiara che 'La malattia mortale è certamente la cosa più perfetta e più vera ch'io abbia scritta' e la sua pubblicazione, come la scelta dello pseudonimo, gli procurò pene di spirito senza numero. Dalle indicazioni lasciate nelle Carte inedite sappiamo che nel suo primo abbozzo l'opera era stata concepita in forma di una serie di 'Discorsi edificanti' (i Talers Form) e riuscì invece il trattato più teoreticamente teso e organicamente costruito della teologia kierkegaardiana. [...] Si può ben dire che nessuno scritto dà, più di questo, il timbro profondo della sua anima e l'esatta impressione del suo potere di scavare i recessi più impervi dello spirito. Possiamo senz'altro dire che con 'La malattia mortale' si compie una nuova crisi definitiva nell'opera kierkegaardiana, che raggiunge la compiuta forma della sua maturità e positività." (dallo scritto di Camelia Fabro)
Questo discorso del 1843 è uno sviluppo del concetto di "edificante" successivo a La prospettiva della fede e si presenta come un commento alle parole dell'apostolo Giacomo: "Ogni dono buono, ogni dono perfetto è dall'alto". Queste introducono alla controversa questione della "teodicea" come coniugare il bene proveniente da Dio e il male del mondo - declinata dal filosofo danese in chiave "esistenziale", spiega Umberto Regina nell'Introduzione, ripartendo dalla caratteristica distintiva dell'uomo: l'esistenza. L'uomo in quanto esistente ha un rapporto edificante con Dio: rispetto all'Eterno si innalza senza mai unirsi completamente. All'idea, avanzata da alcuni filosofi moderni, di una compromissione di Dio nell'imperfezione del mondo Kierkegaard risponde con il salto della fede, somma possibilità donata all'uomo per vincere sul male.