Il giorno di Pasqua del 2018, durante il tradizionale discorso urbi et orbi, il papa, dopo un lungo silenzio, esclama a gran voce: "Dio non esiste!". Tre parole che gettano nello sconcerto cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei, e scatenano uno tsunami nel mondo intero. È l'inizio di una settimana folle, che incendierà il pianeta e farà piazza pulita di ogni sentimento religioso. Ma che cosa ha spinto il sommo pontefice a un intervento così intempestivo? In tempi di massacri nel nome della religione, questa favola contemporanea, visionaria e insolente, che tiene il lettore con il fiato sospeso, lascia trasparire gli accenti di una fede illuministica nella ragione: forse, senza la violenza che a volte il sentimento religioso comporta, la fratellanza tra gli esseri umani non sarebbe più un'utopia.
"Per la prima volta nella storia dell'umanità, a intervalli regolari e a orari fissi, milioni di individui si sistemano davanti al loro televisore domestico per assistere e, nel senso pieno del termine, partecipare alla celebrazione dello stesso rituale".Un rito celebrato da ventitré officianti e qualche comparsa davanti a una folla di fedeli che raggiunge talvolta le decine di migliaia di individui ai quali si sommano, davanti agli apparecchi televisivi, milioni di "praticanti a domicilio". Il football, il più popolare tra gli sport di massa, è al tempo stesso pratica e spettacolo, fenomeno sociale che si prolunga nella tensione mai risolta tra professionismo e pratica amatoriale e occasione di riflessione sull'etica del gioco e sulla lealtà tra avversari. Il calcio, spiega l'antropologo Marc Augé, funziona come un fenomeno religioso in cui numerosi individui provano gli stessi sentimenti e li esprimono attraverso il ritmo e il canto. Gli stadi diventano così luoghi di senso, di controsenso e di non senso, simboli di speranza, di errore o di orrore, in cui si compiono ancora i grandi rituali moderni.
Nel nostro mondo "surmoderno", dominato dall'immagine, si è instaurato un inedito regime di finzione mediatica che agisce sulla vita sociale al punto di farci dubitare della realtà. I reportage giornalistici, ridotti a infotainment, prendono sempre più la forma delle fiction e queste ultime, a loro volta, mimano il reale. Su Internet si allacciano idilli e si dialoga con interlocutori anonimi. Quasi senza accorgercene, stiamo passando a un tutto fittizio in cui le mediazioni che consentono lo sviluppo dell'identità, dunque la presa di coscienza dell'alterità e dei legami sociali, sono rimpiazzate dai media della solitudine. Quella fondamentale circolazione tra i tre poli distinti dell'immaginario - immaginario individuale (il sogno), immaginario collettivo (i miti, i riti, i simboli) e finzione narrativa - viene così alterata, sfaldando le frontiere che ogni cultura istituisce tra sogno, realtà e finzione. È cominciata la "guerra dei sogni", ci avverte Augé, che dopo averci portato alle fonti dell'antropologia sociale, ci chiama a una morale della resistenza.
"Ma come si possono adorare il legno e la pietra?" si chiedevano i missionari cristiani - e alcuni etnologi - di fronte al mistero delle religioni africane. Quale sia il senso del feticismo, cosa significhi (e implichi) attribuire forza vitale e potenza di senso a quelli che a noi appaiono solo degli oggetti, ce lo spiega Marc Auge in queste pagine, mostrandoci come nel "feticcio" trovi in realtà espressione un'affascinante concezione del rapporto tra cose e persone. Tra materia e vita, tra uomini e divinità, tra morti e viventi, sostiene un sacerdote del Benin, non c'è soluzione di continuità, come non c'è tra un individuo e un altro. Il feticismo, quindi, come chiave paradossalmente attuale per comprendere non solo un sistema di pensiero apparentemente molto lontano dal nostro, ma per intuire anche molte questioni al centro della riflessione delle scienze umane sulla surmodernità: la crisi del soggetto, la frammentazione dei confini tra categorie e relazioni. Nella postfazione Nicola Gasbarro - che ha tradotto e curato il volume ricostruisce il quadro teorico della riflessione di Auge, tracciando le coordinate dell'incrocio inevitabile tra antropologia e storia delle religioni.
Marc Augé esplora in questo libro il gran teatro del bistrot con tutti i suoi attori. Considerato con gli occhi dell'etnologo, il bistrot è il regno delle relazioni "di superficie" quelle in cui il gesto dello scambio importa assai più di ciò che lo motiva. Un grande bistrot nell'ora di punta è un luogo straripante di vita, di emozioni, in cui si scambiano parole per non dire nulla, gesti appena accennati, occhiate passeggere. Spazio relazionale ma anche spazio letterario: Maigret sarebbe impensabile senza le soste al bistrot. La Francia ha esportato in tutto il mondo questo modello di civiltà: da quel nome sprigiona ovunque il carattere amabile che ne contrassegna l'immagine. Non pura immagine, tuttavia: il bistrot è un oggetto del paesaggio urbano che rivendica di possedere una propria storia, una geografia e, d'ora in avanti, anche una propria etnologia.
Noi non viviamo in un mondo compiuto, del quale non avremmo che da celebrare la perfezione. L'idea stessa di democrazia è sempre incompiuta, sempre da conquistare. Nel concetto di globalizzazione, e in coloro che si richiamano ad esso, c'è un'idea di compiutezza del mondo e di arresto del tempo che denota un'assenza di immaginazione e un invischiamento nel presente profondamente contrari allo spirito scientifico e alla morale politica. Oggi occorre ripensare la frontiera, questa realtà continuamente negata e continuamente riaffermata. Occorre ripensare il concetto di frontiera per cercare di comprendere le contraddizioni che colpiscono la storia contemporanea. Una frontiera non è uno sbarramento: è un passaggio. Le frontiere non si cancellano mai, si ritracciano. La frontiera ha sempre una dimensione temporale: è la forma dell'avvenire e, forse, della speranza. Non dovrebbero dimenticarlo gli ideologi del mondo contemporaneo che, di volta in volta, soffrono di eccessivo ottimismo o di eccessivo pessimismo, in ogni caso di troppa arroganza.
Umberto Eco con allegria e ironia, Marc Augé con generosità e spirito d'osservazione, Georges Didi-Huberman con creatività e libertà ci offrono qui una riflessione sulla loro esperienza delle immagini. Ciascuno secondo i suoi percorsi e nel registro creativo delle sue ricerche, i tre autori ci raccontano di un pensiero, di un rapporto che lega immagini e società. E di una forza che si sprigiona in questa relazione. La semiotica e il linguaggio imperfetto delle immagini per Umberto Eco; l'antropologia e le sue declinazioni per Marc Augé; la storia e la filosofia, per descrivere la condizione umana che si disegna con l'uso delle immagini, per George Didi-Huberman. Le parole e le esperienze di tre grandi autori del nostro tempo per parlare di media e società. Per confrontare metodi e territori delle scienze umane e sociali nel costruire le pagine, e le figure, della contemporaneità.
Raggiunta l'età in cui succede che qualcuno sul metrò si alzi per cedergli il posto, Marc Augé scava nei propri ricordi personali per sviluppare una riflessione, acuta e delicata, sul tempo che passa. "Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo", scrive il grande antropologo per evidenziare la differenza tra il tempo e l'età. Perché sono gli altri a dire che siamo vecchi, a definirci secondo luoghi comuni, ma questa etichetta resta superficiale e lontana da quel che avvertiamo dentro di noi... Dunque, la vecchiaia non esiste. Certo, i corpi si logorano ma la soggettività resta, in qualche modo, fuori dal tempo ed è così che, come scrive Augé alla fine di questo libro, "tutti muoiono giovani".
In un mondo in trasformazione accelerata, un cambio di scala colpisce e riconfigura le nostre esistenze individuali e collettive. In questo nuovo ambiente, l'antropologia ha d'ora in avanti l'immenso compito di criticare l'insieme ancora proteiforme che chiamiamo il mondo globale. Marc Auge ritorna qui sulle categorie dello spazio e del tempo, in particolare attraverso la nozione di tempo morto nella sua relazione con quella di nonluogo, per interrogarsi sui rapporti tra senso sociale e libertà individuale nel mondo contemporaneo. L'antropologo contribuisce in tal modo allo sforzo di lucidità critica di cui l'umanità ha bisogno oggi più che mai, se davvero vuole un giorno potersi dichiarare non più globale ma totale, nel senso in cui la intende Mauss, vale a dire intelligente, lucida, ambiziosa e solidale. Marc Auge è directeur d'études presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Africanista di formazione, da anni si occupa di antropologia delle società complesse. Attraverso testi come "Un etnologo nel metrò" o "II metrò rivisitato", ma anche cimentandosi talvolta nell'etnofinzione ("Diario di un senza fissa dimora"), Marc Auge ha sviluppato un'originale antropologia del quotidiano in grado di esplorare il nostro stesso ambiente. Moltiplicando in tal modo i suoi "terreni", da quello vicino a quello lontano fino a quello immaginario, egli ha proposto un'antropologia che collega la vita quotidiana al mondo globale.
Che cosa significa parlare oggi di "etica civile"? Ed in quali orizzonti essa si colloca? Attorno a queste due domande ruotano gli interventi, raccolti nel volume, di due protagonisti della riflessione contemporanea. L'antropologo Marc Augé ripensa il significato dell'etica per la convivenza in una città sempre più esposta al rischio di diventare "non-luogo". La filosofa Laura Boella, da parte sua, ne illumina il radicamento in quel tessuto relazionale che ci rende le persone che siamo.