Questo libro è una provocazione culturale fin dal titolo. Un tentativo di conciliare l'inconciliabile: il diavolo e l'acqua santa! Contro l'opinione corrente, e in linea con il suo anticonformismo, Ellul - cristiano per certo anomalo - sostiene che punti di contatto tra anarchismo e cristianesimo ve ne sono. E notevoli. Mescolando politica, teologia e storia, alla luce del Vecchio e del Nuovo Testamento e delia concezione del potere nella Chiesa delie origini, l'autore argomenta la sua tesi con la verve e l'incisiva semplicità che hanno caratterizzato tutta la sua opera. Ma niente paura: Ellul chiarisce subito che non è sua intenzione convertire nessuno. Né gli anarchici al cristianesimo, né i cristiani all'anarchismo. L'olio e l'aceto, dopo essere stati rimescolati, tornano a separarsi. Però, forse, non più così incompatibili. Prefazione di Mimmo Franzinelli. Postfazione di Andrea Gallo.
"Quanti sono gli italiani che vivono di «cultura»? Sono - anzi siamo - milioni, ben piazzati nelle scuole di ogni ordine e grado, nei giornali, nell'editoria, nello spettacolo, nella televisione, nelle radio, nei blog, nei musei, nei festival, negli assessorati alla cultura, nel turismo, nella pubblicità... Siamo la più grande «fabbrica» del paese, pur se privi di qualsivoglia identità collettiva. Un gran giro di soldi, un gran giro di chiacchiere. Ma al di là del peso economico, non sarà che il sistema di cui facciamo parte - di cui siamo complici - si serve di questo eccesso di cultura anche per distrarci dal concreto agire collettivo, intontendoci di parole, immagini, suoni? Non è certo di questa cultura spettacolarizzata e manipolata che abbiamo bisogno, ma di una cultura critica che sappia guardare al mondo con lucidità e, soprattutto, con l'aspirazione a farsi corpo, azione. Una cultura, o meglio una pluralità di culture, che sappia disintossicarsi dai ricatti e dalle lusinghe del Potere per capire e, di conseguenza, per fare".
Per secoli il tempo è stato portatore di speranza. Dal futuro ci si attendeva pace, evoluzione, progresso, crescita... o rivoluzione. Non è più così. Il futuro è praticamente sparito. Sul mondo si è abbattuto un presente immobile che annulla l'orizzonte storico e, con esso, quelli che per generazioni intere sono stati i punti di riferimento. Da dove viene questa eclisse del tempo? Perché il futuro, insieme al passato, è scomparso dalle coscienze individuali e dalle rappresentazioni collettive? Ci sono rimedi o uscite di sicurezza? Per rispondere, Auge scruta lucidamente le molteplici dimensioni della globalizzazione nei suoi aspetti politici, scientifici e simbolici. E abbozza elementi di speranza.
Fino a tempi recenti la conoscenza scientifico-filosofica ha prevalentemente rimandato a un'idea di centro che dispone in buon ordine la realtà attorno a una ragione sovrana, da cui peraltro promana la configurazione gerarchica che le è congeniale. Da alcuni decenni si va invece definendo un diverso approccio conoscitivo che ha rinunciato non solo alla prospettiva "dell'occhio di dio" ma a qualunque intelligenza data a priori. E questo perché nella ricerca scientifica si è sempre più manifestata una netta tendenza al multiplo, al temporale, al complesso, a tutto ciò che interrompe la simmetria, la linearità, l'equilibrio. Non a caso i ricercatori di discipline tra loro differenti - in particolare, biologia, demografia, meteorologia, economia, fisica, psichiatria, matematica, cardiologia ed ecologia - hanno fatto proprio il concetto di caos, riformulando i correlati concetti di ordine e disordine. Siamo dunque nel pieno di una rivoluzione epistemologica che attribuisce alla concezione acentrica una rilevanza straordinaria nel sapere contemporaneo, con conseguenze ancora tutte da indagare.
Oggi il manicomio non è più costituito da fasce, muri, sbarre, ma è diventato astratto, invisibile. Si è trasferito direttamente nella testa, nelle vie neurotrasmettitoriali che regolano i pensieri. Il vero manicomio, oggi, sono gli psicofarmaci. Stiamo oltretutto assistendo a una vera e propria mutazione antropologica: agli psichiatri, e alle case farmaceutiche, non bastano più i malati da curare, ma servono anche i sani. Lutto, tristezza, rabbia, timidezza, disattenzione, non sono stati d'animo fisiologici, ma patologie da curare con il farmaco adatto. Cipriano sottopone a una critica severa i principali dogmi della psichiatria "moderna": a cominciare dalla diagnosi, ovvero l'urgenza burocratica di considerare "malattia" qualunque disagio psichico, a cui segue l'immancabile prescrizione di un farmaco. E quando i farmaci non sono sufficienti, ritorna l'uso nascosto delle fasce e dell'elettrochoc. È questo il nuovo manicomio, meno appariscente, più discreto, in cui diagnosi e psicofarmaco dominano la scena.
Le riflessioni e le testimonianze qui raccolte disegnano la mappa immaginaria di un vasto arcipelago resistente - dagli Indignados spagnoli agli hacker globali di Anonymous, dai movimenti Occupy alle rivolte sulle sponde del Mediterraneo - che sfugge alle consuete categorie politiche. Nonostante le diversità di contesto, di motivi scatenanti, di aree interessate e di modalità espressive, risultano evidenti tratti comuni che idealmente concatenano le varie rivolte: niente leader e partiti, ma azione dal basso e democrazia diretta. È in atto una carica ultra-democratica basata sulla partecipazione e la condivisione deliberativa che sfugge alla regola aurea dei regimi democratici, ossia al principio di maggioranza, mettendo in crisi il principio stesso di rappresentanza. Un insieme di pratiche che rimanda alla tradizione anarchica, ma che si sta reinventando nel calore delle piazze, 'meticciandosi' con pratiche e culture diverse.
A partire da una sofisticata rielaborazione della tradizione politica americana, in cui si fondono tensioni individualiste e istanze comunitarie, il "jeffersoniano" Goodman affronta già alla metà del Novecento alcuni dei problemi cruciali delle società tardo-industriali, gli stessi con i quali facciamo i conti ancora oggi: crisi della democrazia rappresentativa, degrado urbano, marginalizzazione dei giovani, crescita della burocrazia, massificazione di bisogni, consumi e valori, crisi della ragione. E lo fa ricorrendo all'armamentario analitico del pensiero libertario, con soluzioni radicate nel qui e ora basate sul decentramento, la descolarizzazione, la disobbedienza civile, lo sviluppo della personalità, il potenziamento dei valori comunitari, la sperimentazione sessuale e familiare... Una miscela esplosiva che combina slancio utopico e progettualità pratica per rimodellare dal basso e in modo nonviolento la società.
Dopo essere stati espulsi nello stesso giorno dalla Francia per la loro partecipazione al Maggio 1968, Castells e Ibànez riprendono il dialogo interrotto per capire come mai l'anarchismo, già protagonista di quel Maggio, sia nuovamente in sintonia con il rapido mutamento che segnala l'avvento della società dell'informazione. Un mutamento che gli attori politici tradizionali non riescono a interpretare proprio perché non si propongono di cambiare il mondo, ma al più di gestirlo. E non è questa la domanda sociale contemporanea, che oggi mutua dalla Rete le modalità di azione e comunicazione. Superata l'atomizzazione individualista propria del liberalismo, una fitta trama di reti interindividuali sta oggi plasmando dal basso l'ambito del politico, mettendo radicalmente in discussione il tradizionale ruolo di leader e partiti. Un sovvertimento dell'ordine politico, ci dicono i due autori, che rimanda direttamente all'anarchismo. Postfazione di Andrea Staid.
Nonostante la civiltà occidentale rivendichi l'invenzione della democrazia, Graeber ci mostra come in molte società "altre" ci siano state, nel tempo e nello spazio, forme democratiche basate sull'auto-organizzazione comunitaria ben lontane dal paradigma occidentale gerarchico e disegualitario. Non solo, nello stesso Occidente stiamo assistendo alla nascita tumultuosa di nuovi movimenti di critica radicale dell'esistente che stanno sperimentando una molteplicità di processi decisionali egualitari fondati su pratiche orizzontali e modalità di condivisione. Proprio questi esperimenti sociali in atto dimostrano come la democrazia sia un'invenzione molto più ricca e articolata della riduttiva concezione statuale imposta dall'Occidente come modello unico. Anzi, è proprio questo modello a essere oggi in crisi, perché è fallito il suo progetto di coniugare le procedure democratiche con i meccanismi coercitivi dello Stato e dunque creare democrazie nel senso pieno del termine.