«Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari». È con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 che inizia la lunga battaglia − non ancora conclusa − contro la fame, il più grande genocidio silenzioso di tutti i tempi. Come tutelare il diritto fondamentale di ogni individuo a una adeguata nutrizione? E garantire quantità e qualità nell’alimentazione? Il sistema attuale di produzione alimentare è davvero sostenibile? Risponde a quesiti di rilevanza fondamentale un’etica del cibo, che analizza problematiche e propone soluzioni, volte ad assicurare la libertà dalla fame e il diritto al cibo, sensibilizzando sulla questione ambientale. In gioco il futuro stesso dell’umanità.
PAOLO GOMARASCA è professore ordinario di filosofia morale alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fa parte del comitato direttivo del Transdisciplinary Research on Food Issues Center (TROFIC) e del Centro di ricerca Relational Social Work (RSW) della medesima Università. È membro del Forum Lacaniano in Italia (FLAI) e dell’Internationale des Forums du Champ Lacanien. Tra le sue pubblicazioni: Enjeu cartésien et philosophie du corps (Peter Lang, 2012), Con l’inchiostro e il pennello. Lacan e Shiato (Mimesis, 2017).
L'Autore, a partire dall'esperienza storica della colonizzazione spagnola del Sud America, propone un'analisi delle teorie con le quali si è finora affrontato il tema del meticciato e individua nelle relazioni di reciproco riconoscimento tra persone e culture la via d'uscita dal vicolo cieco del multiculturalismo.
Almeno a prima vista, il percorso dell’etica occidentale appare segnato da un’ostilità irriducibile tra logos e pathos. Fin dall’origine, l’affanno filosofico principale sembra dovuto al tentativo di limitare il commercio con le passioni, assumendo il controllo razionale dell’esperienza. Ma più il logos ha cercato di mantenersi puro, più le passioni si sono scatenate, divenendo - soprattutto nel Romanticismo - il controcanto della ragione.
Oggi l’antica discordia si è lentamente trasformata in una separazione senza ritorno. Così, da una parte, il pathos è celebrato nella forma privata e insindacabile dell’emozione; dall’altra, il logos si muove entro la corta misura della ragione scientifica, che - per definizione - è ‘anemotional’. Si tratta di un destino inevitabile? Dipende dalla premessa: se il pathos è ‘alogon’, cioè un ‘altrove’ irrazionale della razionalità, allora è impossibile rimediare ad un’estraneità così radicale. Se, invece, l’affettivo è concepito come un modo di funzionare che è proprio della ragione, se, in altri termini, pathos e logos hanno una radice comune, allora c’è spazio per comporne l’unità.
Muovere da questa seconda premessa non pare insensato: persino coloro che hanno inteso difendere la purezza della ragione, come - ad esempio - gli Stoici, Platone, Descartes, Spinoza, Kant, non sono così lontani dall’idea di una primordiale e reciproca afferenza di logos e affettività. Idea che la tradizione classica (in particolare aristotelica e scolastica) è stata capace di pensare e che la fenomenologia (soprattutto con Michel Henry) ha in qualche modo reinventato, accreditando la consapevolezza che una soggettività razionale finita, situata in un corpo, è pensabile unicamente a partire dalla presenza della ragione negli affetti: non si dà logos se non dentro il campo della ricettività (che va dal sensibile allo spirituale); né si dà affettività umana che non sia, in qualche modo, già innervata dalla ragione.
Paolo Gomarasca insegna Antropologia alla Facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e svolge la sua attività di ricerca presso la cattedra di Filosofia morale della medesima Università. Tra i suoi lavori: Rosmini e la forma morale dell’essere (Milano 1998); Il linguaggio del male (Vita e Pensiero, Milano 2001); I confini dell’altro. Etica dello spazio multiculturale (Vita e Pensiero, Milano 2004).
L’incontro tra culture diverse caratterizza le società democratiche nell’era della globalizzazione. La convivenza con gli stranieri pone ovvi problemi giuridico-politici; meno ovvio, forse, è il fatto che i vari tentativi di soluzione siano influenzati dal modo individualistico con cui la modernità ha pensato il soggetto. Lo si vede bene analizzando il concetto di confine: lo spazio concreto in cui l’individualismo moderno ha determinato la spaccatura fondamentale tra ‘noi’ e ‘loro’, assecondando l’illusione di poter fare a meno degli altri. Un confine chiuso, impermeabile alle differenze, sembra essere una china invitante per le moderne politiche multiculturali. La soluzione postmoderna, dal canto suo, appare poco convincente: cancellare i confini, vagabondare nel mondo senza il peso di un’identità da difendere, scongiura il rischio individualistico di escludere l’altro, il diverso; tuttavia, il culto dell’erranza senza meta rende altrettanto impossibile ‘fare società’.
Serve, allora, un’alternativa antropologica che valorizzi la relazione con l’altro come bene primario della soggettività in quanto umana. Infatti, solo a partire da un’etica della relazione è possibile pensare e attuare una politica di reale accoglienza: non un’apertura indiscriminata delle frontiere, o una generosità a senso unico, bensì l’attuazione di legami di riconoscimento che impegnano tanto chi dona quanto chi riceve nell’opera comune di ‘essere-insieme’. Un’opera che – non a caso – la Chiesa ha posto al centro del suo magistero sulla multiculturalità. È per questo che un multiculturalismo sensibile al significato etico del riconoscimento dovrebbe guardare con attenzione all’esperienza cristiana del confine. Non come rimedio spiritualistico, ma come indicazione antropologicamente pertinente. Ne potrebbe nascere una politica rinnovata, all’altezza del compito che l’incontro tra culture ci impone.
Paolo Gomarasca, DEA in Filosofia, dottore di ricerca in Filosofia, collabora al corso di Filosofia sociale e alla cattedra di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi lavori: Rosmini e la forma morale dell’essere (Milano 1998); Il linguaggio del male (Vita e Pensiero, Milano 2001); Libertà e colpa, in F. Botturi (a cura di), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna (Vita e Pensiero, Milano 2002); Identità e differenze nelle politiche multiculturali, in V. Cesareo (a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale (Vita e Pensiero, Milano 2004).
Risolvere il problema del male è sempre stata l'ambizione di ogni tentativo di teodicea. Come gli altri esemplari del genere, il saggio di Rosmini utilizza, vagliandoli uno per uno, una serie - storicamente 'codificata' - di complicati meccanismi giustificativi. L'idea centrale di questo lavoro non è tuttavia quella di analizzare soltanto la soluzione offerta, indovinandone in 'filigrana' illustri interlocutori come Leibniz, Rousseau, Malebranche, Bayle e Spinoza: è fin troppo semplice mostrare come anche la teodicea rosminiana funzioni solo per i 'grandi numeri'. Meno semplice è capire perché il singolo soggetto sofferente è 'fatto fuori', evacuato dal discorso teodiceizzante. Da qui, l'idea di rovesciare l'approccio: non, quindi, cercare nella soluzione proposta dalla teodicea le ragioni che dovrebbero spiegare il problema del male, bensì cercare nella costituzione stessa del male come problema le ragioni della teodicea come discorso. Ne emerge una 'grammatica' del patire, strutturata secondo una duplice catena di 'significanti', attorno a cui il 'significato'/soluzione del male appare costruito, 'detto' secondo precise regole di un 'dire' che, manco a dirlo, non è mai di qualcuno che soffre. Tanto più strano se si pensa che, tra i 'significanti' del linguaggio rosminiano del male, si incontrano le parole di Giobbe. Certo, si tratta di un Giobbe cristianamente trasvalutato. Ma che ne è della teodicea come discorso se, per dire il male, si utilizza la 'grammatica' jobica, senza alleggerimenti 'terapeutici'? Non accade forse che il singolo soggetto sofferente è finalmente in questione, avendo per la prima volta voce nel 'capitolo' della propria sofferenza?
Paolo Gomarasca (1970) si è laureato in Filosofia nel 1994 presso l'Università Cattolica di Milano. Nel 1996 ha lavorato alla Facoltà di Teologia di Lugano, occupandosi della filosofia morale e dell'antropologia teologica di Antonio Rosmini. Nel 1997 ha conseguito il Diploma di studi approfonditi (DEA) in Filosofia all'Institut de Philosophie de l'Université Catholique de Louvain-la Neuve in Belgio, lavorando sull'etica di Lévinas. Dal 2001, è dottore di ricerca in filosofia e collabora al corso di Antropologia filosofica sotto la direzione scientifica del prof. Botturi. Ha pubblicato "Rosmini e la forma morale dell'essere" (Milano 1998). Diversi altri studi su Rosmini e sul tomismo trascendentale della scuola di Maréchal sono apparsi su «Divus Thomas» e sulla «Rivista rosminiana di filosofia e di cultura», del cui Consiglio scientifico è membro.