Questa sedicesima coppia di "Vite parallele" è una delle più belle scritte da Plutarco ed è dedicata a due grandi generali e uomini politici, Lisandro e Silla, che furono assai vicini a raggiungere il potere monarchico nelle loro città. Essi rappresentano il modello del politico realista privo di scrupoli che pone il raggiungimento dei propri scopi al di sopra di tutto. Non esiste la giustizia o l'ingiustizia, esiste solo ciò che è vantaggioso e quello che non lo è. Il politico deve perseguire il suo vantaggio facendolo diventare così il giusto. Introduzioni ai due testi di Luciano Canfora e Arthur E. Keaveny.
Due personaggi storici che hanno consacrato la loro vita alla lotta contro i tiranni: Dione contro Dioniso II di Siracusa e Bruto contro Cesare.
Le Vite che Plutarco ha dedicato a Lisandro e a Silla non sono meno straordinarie di quelle di Demetrio e di Antonio, che la Fondazione Valla ha pubblicato due anni or sono, nell'edizione critica a cura di Mario Manfredini. Lisandro è il generale volpe, che anticipa la frase famosa di Machiavelli: "dove non arriva la pelle di leone, bisogna cucirvi sopra quella della volpe". Plutarco è affascinato dalla sua cautela e dalla sua astuzia: non ama l'orgoglio eccessivo, l'alterigia, il culto di sé, che lo colgono nella vecchiaia, quando viene accecato dalla hybris: ironizza sulle sue tarde macchinazioni, quando tenta di avere dalla sua, con l'inganno, il soccorso di Apollo; e nulla lo commuove quanto il momento in cui gli Spartani e gli alleati decidono di radere al suolo Atene. Un Focese intona per caso dei versi di Euripide, e tutti sono presi dalla compassione, e comprendono quanto sia assurdo distruggere una città che ha dato i natali a uomini così meravigliosi.
Per Plutarco, Silla è un groviglio di contraddizioni, come Antonio e Alcibiade. Nessun carattere gli sembra più incoerente. Quest'uomo devoto ai segni divini e che ostenta la protezione del cielo, viola i santuari degli dei; quest'uomo che ama la vita lieta, che si circonda di mimi e di buffoni e coltiva i motti di spirito, finisce la sua esistenza come uno dei più sinistri e tenebrosi tiranni dell'umanità - proscrivendo, assassinando, massacrando -, e il timorato Plutarco racconta con atroce impassibilità i suoi ultimi anni di sangue e di abominazione. Siila muore infestato dai vermi, putrefacendosi - e questa morte sembra un contrappasso agli orrori della sua vita.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole genealogiche
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Lisandro
La vita di Silla
Confronto fra Lisandro e Siila
Scolî
COMMENTO
La vita di Lisandro
La vita di Silla
Confronto fra Lisandro e Silla
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
I. La "Vita di Lisandro". Quella di Lisandro è senza dubbio una biografia poco unitaria, perché contiene testimonianze e apprezzamenti sull'operato del protagonista singolarmente contraddittori. Sulla base di dati oggettivi, Plutarco da una valutazione quasi sempre positiva delle imprese compiute da Lisandro: se, per un verso, presenta la vittoria da lui conseguita a Nozio nel 407/6 quale evento di portata limitata, reso celebre solo dal fatto che segnò la fine della carriera politico-militare di Alcibiade (5,4), per un altro verso non esita a esaltare quella di Egospotami del settembre del 405, una battaglia ritenuta "opera degli dei" (11,13). Allora l'abilità strategica di un solo uomo, di Lisandro, pose finalmente termine all'annosa guerra del Peloponneso; un conflitto che aveva suscitato molti scontri, continui capovolgimenti di situazioni, e causato la perdita di così numerosi eserciti come non si era mai verificato in passato (11,11-2.). Plutarco giudica con approvazione soprattutto la popolarità acquisita da Lisandro fra tutti i Greci, inclusi quelli delle isole egee e dell'Asia Minore, che vedevano con favore i mutamenti da lui operati. Questi plaudivano al fatto che egli aveva restituito l'isola agli Egineti e riportato in patria i Meli e gli Scionei, dopo averli liberati dagli Ateniesi (14,4). A tale proposito lo scrittore riferisce, sull'autorità di Duride di Samo, che in onore di Lisandro, primo fra gli Elleni, le città (della Ionia) eressero altari quasi fosse un dio, fecero sacrifici, intonarono peani e i Sami decretarono nell'agosto del 404 di mutare in Lisandrie il nome delle feste di Era, che si celebravano presso di loro (18,5-6).
Nel corso della Vita, Plutarco elogia Lisandro: lo apprezza perché fu sempre rispettoso, come pochi, dei costumi della patria e si mostrò superiore a qualunque piacere, se si esclude quello che le nobili imprese procurano a chi le compie con onore e successo (2-,i). Anche l'ambizione e la brama di superare gli altri non erano connaturate in lui; derivavano piuttosto dalla sua educazione laconica. Per indole era portato, invece, a essere ossequioso verso i potenti più di quanto non fosse nelle abitudini spartane e tollerava di buon grado il peso opprimente della loro autorità, qualora gli fosse sembrato necessario: dote questa di perizia politica -conclude Plutarco (2-,4) - ritenuta da alcuni di certo non secondaria. Nato povero, sopportò sempre con dignità la miseria, non lasciandosi mai allettare né corrompere dal denaro. Benché dopo la guerra del Peloponneso avesse riversato in Sparta grandi quantità d'oro e d'argento, contribuendo così a privarla di quell'ammirazione di cui andava fiera per il sommo disprezzo delle ricchezze, non tenne per sé neppure una dracma. E la morte, che rivelò appieno la povertà di Lisandro, rese ancora più fulgida la fama della sua virtù: delle tante sostanze acquisite, del prestigio raggiunto, dell'ossequio tributategli dalle città e da Ciro il Giovane, egli non approfittò minimamente per ingrandire e arricchire la propria casa.
Tuttavia, in ossequio a un principio altrove enunciato, Plutarco non omette di enumerare i difetti e gli aspetti negativi del carattere del suo "eroe". Lisandro innalzava a importanti incarichi, a onori, a comandi militari quanti erano già suoi amici ed erano a lui legati da vincoli di ospitalità, rendendosi anche complice di ingiustizie e malefatte, pur di soddisfare la loro ambizione (5,6). Abolì i governi democratici o di qualsiasi altro tipo, inviando dappertutto armosti e istituendo commissioni formate da un collegio di dieci individui di provata fede oligarchica. Così operando, non faceva distinzione fra città nemiche e città alleate di Sparta, avendo come fine solo quello di procacciarsi un potere personale. Nella scelta dei magistrati non badava né alla loro nobiltà né al loro censo: favoriva nelle cariche chi era a lui devoto, conferendogli l'autorità di premiare o di punire ad arbitrio. Assistendo di persona a numerosi massacri e aiutando gli amici a sbarazzarsi degli avversari, non fornì certo ai Greci un esempio edificante dell'egemonia spartana (13,5-7). Nel settembre del 404 privò gli Ateniesi della libertà, consegnando la loro città nelle mani dei Trenta Tiranni; inoltre si rese forse corresponsabile dell'uccisione di Alcibiade. Lisandro era intollerante, incapace di portare il giogo impostogli in patria e insofferente dei comandi altrui (2-0,8). Era caustico nell'eloquio e incuteva timore a quanti lo contraddicevano. Agli Argivi, che una volta discutevano su questioni relative al loro territorio e sostenevano di avere ragioni più valide di quelle dei Lacedemoni, Lisandro, mostrando la spada, disse: "Chi impugna questa possiede gli argomenti migliori in materia di confini". Furente contro l'ingrato Agesilao, la cui ascesa al trono aveva favorito, decise di attuare senza ulteriori rinvii un progetto volto a capovolgere e a innovare la costituzione di Sparta. Meditò di togliere potere alle due case regnanti, agli Euripontidi e agli Agiadi, rendendo la monarchia accessibile non solo a tutti gli Eraclidi, ma anche a tutti gli Spartiati. In tal modo, il trono non sarebbe stato più appannaggio dei soli discendenti di Eracle, ma di quanti per virtù fossero ritenuti simili a questo eroe, innalzato agli onori divini per i suoi meriti. Ovviamente Lisandro sperava che, se il regno fosse stato assegnato in questa maniera, sarebbe toccato a lui.
Con "Agesilao e Pompeo", Plutarco sceglie di raccontare e raffrontare le vite di due uomini abili nella virtù militare e nella gestione del potere: Agesilao re di Sparta all'inizio del IV sec. a.C., Pompeo generale e uomo politico romano vissuto nel I sec. a.C. Utilizzando come per le altre "vite parallele" il metodo della comparazione dei difetti e delle virtù dei personaggi raffigurati, Plutarco mette a fuoco le due personalità facendo emergere per contrasto i caratteri di ognuno. E' Pompeo a guadagnare la stima di Plutarco che gli riconosce la vera virtù militare e umanità, l'opportunismo e l'inganno sembrano invece a Plutarco tipici del modo di agire di Agesilao.
Tra i molti segreti di uno scrittore complicatissimo come Plutarco, forse il più straordinario è questo. Plutarco vide in Demetrio e in Antonio due genti del male: o almeno due esseri accecati dalla propria arroganza e dalla propria hybris. Eppure nessuna Vita è scritta con partecipazione più calda e simpatia più intensa di quella dedicata ad Antonio, che per genio psicologico e talento drammatico costituisce il capolavoro di Plutarco, degno dell'altro capolavoro che ne trasse Shakespeare. Demetrio e Antonio vissero entrambi sotto il segno di Dioniso; e questa vocazione dionisiaca svela probabilmente sia l'avversione sia la nascosta partecipazione di Plutarco, devoto ad Apollo, il dio amico-nemico di Dioniso. "La vita di Demetrio" ci trasporta nel mondo dei successori di Alessandro, all'epoca in cui la Grecia sta ellenizzando l'Occidente e l'Oriente; Demetrio è visto come un personaggio da teatro, ora comico ora tragico, che affronta vita e morte all'insegna della recitazione e dell'apparenza. Antonio è un personaggio molto più complesso: grande generale, amato come nessuno dai propri soldati, capace in guerra di qualsiasi rinuncia; e gagliardo bevitore, cialtrone, spaccone. Il momento culminante della sua vita è l'incontro con Cleopatra. La scena in cui la regina egizia risale il Cidno sul battello dalla poppa d'oro, le vele di porpora spiegate al vento; la conversazione brillantissima della giovane sovrana; l'amore che stringe i due in un nodo fatale; l'annuncio da parte di entrambi di un'Età dell'Oro che seguirà al loro connubio; la sconfitta di Antonio e Cleopatra davanti a Ottaviano; la fuga e la solitudine di Antonio; i loro ultimi giorni, quando furono uditi strumenti e grida di una turba che inneggiava a Dioniso, e gli Alessandrini pensarono che "il dio più imitato ed eguagliato da Antonio per tutta la vita lo abbandonasse" - tutto ciò fa parte delle pagine più eccelse della storiografia di ogni tempo.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Demetrio
La vita di Antonio
Confronto fra Demetrio e Antonio
Scolî
COMMENTO
La vita di Demetrio
La vita di Antonio
Confronto fra Demetrio e Antonio
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Le "Vite di Demetrio e di Antonio" si distinguono, fra le altre biografie plutarchee, per vari motivi: per la loro estensione, perché l'abbinamento e il confronto fra i due personaggi risulta felice come poche altre volte, perché, infine, entrambi i protagonisti hanno, a giudizio dell'autore, un carattere "negativo", contrariamente a quello "esemplare" della maggior parte degli altri. Quanto poi alla "Vita di Antonio", essa è singolare anche perché è praticamente la biografia di una coppia, avendo Cleopatra quasi altrettanto rilievo: anzi, i capitoli 78-87 non riguardano più Antonio, ma gli ultimi giorni della regina d'Egitto.
Ci sono, naturalmente, temi comuni alle due Vite, quello fondamentale riguarda il ruolo della fortuna e la sua mutevolezza. Un altro importante carattere comune è la "teatralità", sia nel senso che i personaggi sono costruiti come eroi di tragedia, sia nel senso che frequenti sono le metafore e i richiami al teatro e alle sue scenografie. Ci sono poi punti di contatto specifici, da cui sembra emergere anche uno schema strutturale comune.
1. La "Vita di Demetrio". Il personaggio di Demetrio Poliorcete è costruito da Plutarco attraverso un'abile alternanza di luci e ombre, dal cui contrasto scaturisce una figura sostanzialmente condannabile, ma complessa e articolata. La presentazione di Demetrio, dopo alcune notizie sulla sua famiglia, è affidata a un ampio ritratto fisico e psicologico in cui qualità e difetti sono contrapposti: dalla bellezza fisica emanava leggiadria e terribilità così come il suo carattere era tale da sedurre e atterrire; il suo modello divino era Dioniso, il più terribile degli dèi ma anche il più disposto a tutte le forme di piacere. È subito posta di fronte al lettore una figura tale da esemplificare il tema delle grandi nature, che eccellono, ma in modo ambiguo, sia nel bene sia nel male. Ma non si tratta, in questo caso, di un personaggio visto soltanto nel contrasto di vizi e virtù, quale emerge dai due ritratti di Demetrio presentati da Diodoro e risalenti a Ieronimo di Cardia: Plutarco combina in modo originale i lineamenti che desume dalla sua fonte, li arricchisce e ne fa il punto di partenza per uno schema biografico chiaramente involutivo.
Il Demetrio di Plutarco appare, all'inizio della sua attività pubblica, dotato di qualità positive: alla bellezza e alla dignità regale, alla piacevolezza della compagnia e alla raffinatezza, al valore militare, si aggiungono una straordinaria pietà filiale, bontà d'animo e senso dell'amicizia, tanto che il biografo lo giudica naturalmente disposto all'equità e alla giustizia. A ciò Plutarco accompagna, attraverso tutta la biografia, la costante sottolineatura della fermezza indomita con cui Demetrio sapeva reagire ai colpi della sorte. Ma a queste note positive già la prima parte della biografia contrappone difetti (l'intemperanza e la propensione eccessiva ai piaceri amorosi) che andranno, dapprima gradatamente poi sempre più gravemente, corrompendo la sua natura, fino a renderlo preda di passioni sfrenate (non solo l'amore ma anche l'ambizione, la superbia e la sete di potere) e a farlo precipitare in una fine indecorosa, abbrutito dall'ubriachezza indolente della prigionia. In questo schema involutivo gioca, per Plutarco, un ruolo decisivo l'adulazione degli Ateniesi. Sicché, quelle che potevano apparire ombre di un ritratto contrastato, assumono un peso sempre più grave a causa della sua dismisura, che lo fa cadere nell'empietà e nell'ingiustizia.
Le tappe fondamentali dell'involuzione del carattere di Demetrio sono, secondo Plutarco, prodotte dal deleterio influsso dell'adulazione - fattore cui il biografo riconosce un ruolo di primo piano nel clima politico ellenistico, tanto che "adulatori" sono qualificati normalmente i personaggi più vicini ai diadochi - sui difetti del personaggio, fondamentalmente riassumibili nell'avidità illimitata di potere. Anche se il profondo deterioramento morale e politico provocato da quest'ambizione è caratteristica di tutti i diadochi, Plutarco si preoccupa di segnalarne puntigliosamente l'effetto in particolare sul suo protagonista.
Come un grande drammaturgo, Plutarco rievoca, sullo sfondo delle "Vite di Nicia e di Crasso", i personaggi principali che in quei tempi vissero ad Atene e a Roma: Pericle, Cleone e Alcibiade, Silla, Pompeo e Cesare. Davanti ad essi, Nicia e Crasso sono personaggi minori: entrambi prudenti, amabili e moderati. Nicia tende a nascondersi, mentre alla fine Crasso viene travolto dall'avidità e dall'euforia. Ma nessuno dei due possiede l'energia, la determinazione, la forza che permettono a un uomo di interpretare il proprio tempo e di simboleggiare un periodo storico.
In queste due Vite, Plutarco rivela il dono capitale del drammaturgo: l'amore per il disastro. La follia collettiva che sconvolge Atene e la conduce alla guerra del Peloponneso, il massacro in Sicilia della spedizione guidata da Nicia, il crollo della civiltà ateniese. I segni infausti che accompagnano la spedizione romana in Oriente, il fascino e le insidie del mondo iranico, la sinistra e scurrile mascherata alla corte dei Parti, dove un doppio in vesti femminili impersona Crasso, compaiono le cortigiane, vengono recitate le "Baccanti" di Euripide, mentre la testa del generale romano viene gettata nella sala del banchetto...
Leggendo le due Vite qualcuno si chiederà cosa Tucidide e Shakespeare avrebbero pensato di pagine così straordinarie, capaci di rivaleggiare con la grandiosa obiettività dell'uno e la fantasia visionaria dell'altro.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Grasso
Scolî
COMMENTO
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Crasso
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La "Vita di Nicia". In questa biografia è a prima vista percepibile un tratto che la distingue, insieme con poche altre, nel corpus cui appartiene: la ricostruzione della personalità del protagonista non ha le evidenti contraddizioni che, per esempio, si riscontrano nella "Vita di Cìmone". Al primo capitolo, dedicato alla rassegna dei principi metodologici, segue la descrizione del carattere del protagonista, che fluisce ininterrottamente, sotto forma di notazioni quasi mai marginali, anche in quella parte della Vita dedicata al racconto delle sue gesta. In via preliminare va detto che il ritratto di Nicia risulta nient'affatto elogiativo, perché il suo comportamento appare sempre permeato di viltà, di cautela che sconfina nel timore e di superstizione. Plutarco sostiene che Nicia era per natura privo di coraggio e pessimista; in guerra la sua pusillanimità veniva dissimulata dalla fortuna che gli fu propizia in quasi tutte le campagne militari. Nel 425, con un comportamento simile a quello che Dante avrebbe attribuito a Celestino V, Nicia "fece per viltade il gran rifiuto", cedendo all'avversario Cleone il comando dell'impresa di Pilo. E ciò - commenta Plutarco - apparve una vergognosa manifestazione di debolezza, più grave ancora che gettare lo scudo o la clamide in battaglia.
Nicia era costantemente in preda alla paura: per timore dei delatori non pranzava con alcuno dei concittadini, non osava conversare con nessuno, non trascorreva mai le giornate in compagnia di altri; se non aveva affari pubblici da sbrigare, era assai difficile avvicinarlo, perché se ne stava chiuso e rintanato in casa. Non attribuiva mai i suoi successi a prudenza, ad abilità o a virtù personali, bensì alla sorte, e si trincerava dietro l'intervento divino per timore dell'invidia suscitata inevitabilmente dalla fama. Nel 415, non essendo riuscito a dissuadere gli Ateniesi dall'intraprendere la spedizione in Sicilia e posto contro il suo volere a capo dell'armata, Nicia mostrò un'esitazione e un timore sconfinati. Come un fanciullo - nota Plutarco - si volgeva a guardare indietro dall'alto della nave, rimuginando sull'insuccesso dei discorsi da lui pronunziati per evitare la guerra e finendo così con lo scoraggiare i colleghi e spegnere l'ardore dell'impresa. Non c'è da stupirsi che il suo modo di agire offrisse il destro al nemico Ermocrate di esclamare che Nicia era uno stratego veramente ridicolo, in quanto rivolgeva tutti gli sforzi a evitare di combattere, quasi non fosse venuto in Sicilia per questo scopo. Infatti, a furia di calcoli, esitazioni e cautele, finiva con lo sciupare sempre le occasioni propizie. Era facile allo sconforto: battuto dai Siracusani guidati da Gilippo, si lasciò prendere dallo scoraggiamento. Scrisse agli Ateniesi d'inviare in Sicilia un'altra armata oppure di ritirare quella che già c'era; in ogni modo li pregava di esonerarlo dal comando a causa delle cattive condizioni di salute: soffriva terribilmente di "nefrite".
Sulle orme di Tucidide, Plutarco iscrive Nicia nella schiera di quanti temono fortemente gli dèi e sono perciò troppo inclini alle pratiche divinatorie. Quando il 27 agosto 413 si verificò un'eclissi totale di luna proprio mentre gli Ateniesi erano in procinto di lasciare la Sicilia, egli, per ignoranza o superstizione atterrito da quel fenomeno, convinse i suoi uomini a restare per la durata di un'altra lunazione. Così, trascorrendo le giornate a fare sacrifici e a consultare oracoli, rinunziò a una fuga ancora possibile, condannando sé stesso e l'esercito tutto a una sicura sconfitta. E, con una punta di cinismo, Plutarco sostiene altrove che Nicia avrebbe fatto meglio a togliersi la vita, anziché lasciarsi accerchiare per timore dell'ombra prodotta da un'eclissi lunare.
Dotato di straordinari beni di fortuna, non era alieno dal ricorrere alla corruzione: nel 421, conclusa la pace fra Atene e Sparta, con una somma di denaro comprò segretamente il risultato del sorteggio, sicché toccò ai Lacedemoni restituire per primi territori, città conquistate e prigionieri. Ciò che maggiormente viene sottolineato nel corso della Vita è la debolezza di carattere di Nicia: per non combattere contro gli Spartani, consegnò all'inesperienza di Cleone navi, soldati, armi e un comando militare che richiedeva il massimo della competenza, compromettendo non solo il proprio prestigio, ma anche la sicurezza della patria. Infine, nonostante le commoventi parole poste sulla sua bocca, Plutarco sottolinea che, a differenza di Crasso, Nicia si diede in balia dei nemici con il miraggio di una possibile salvezza, procurandosi invece la più ingloriosa delle morti. E quasi a commento, Pausania riferisce che lo stratego ateniese non ebbe il nome inciso sulla stele dei caduti per essersi arreso. Come già Aristofane, Plutarco biasima l'abituale tendenza di Nicia a temporeggiare; ne disapprova la viltà e la debolezza; ne riprova la politica e denunzia il fatto che egli, privo delle qualità di Pericle e della ciarlataneria con cui Cleone compiaceva e insieme controllava il demo, era costretto a cattivarselo per mezzo di spettacoli teatrali, ginnici e altre munificenze.
Qua e là Plutarco è indotto a riconoscere che a Nicia non mancavano doti e qualità, ma lo fa sempre con riserva. Se ne apprezza la moderazione, l'umanità, l'esperienza e l'abilità; se lo presenta come un individuo onesto e saggio che non si lasciò esaltare da speranze nè insuperbire dall'importanza del comando; se ne loda l'astuzia dei piani militari e l'abilità come stratego; se ne ammira l'energia, l'efficacia e la rapidità di movimenti;