Quale affinità lega Pericle, il campione della democrazia imperialista ateniese, a Quinto Fabio Massimo, il dittatore romano che sfiancò Annibale con la tattica della guerriglia? Difficilmente si potrebbero pensare due vite più diverse tra loro. Eppure, proprio un simile accostamento aiuta a capire il progetto che sta alla base delle "Vite". Perché a interessare Plutarco non sono tanto le vicende, pubbliche e private, dei personaggi che descrive, quanto il carattere e le qualità morali che rendono le loro vite eccezionali e degne di essere ricordate, meditate e imitate. Ed è in questo ambito che si rivela, al di là del differente contesto storico, l'affinità profonda tra il creatore della potenza di Atene e il salvatore di Roma. Questa edizione è accompagnata dal saggio "Plutarco biografo" di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, tradotto per la prima volta in italiano.
Con le "Vite di Cimane e di Lucullo", nel testo critico curato da Mario Manfredini e accompagnato dal ricco commento di Luigi Piccirilli, la Fondazione Lorenzo Valla continua la pubblicazione di tutte le Vite di Plutarco.
Cimone è uno di quei caratteri "minori", che talvolta Plutarco preferisce ai grandi della storia: dolce, amabile, affabile, così diverso da Temistocle e Milziade e Pericle, che vivono contemporaneamente nella storia e nel mito.
Il fascino della Vita di Lucullo sta soprattutto nei fondali, che Plutarco dipinge - lui, il biografo - con una tecnica da grande affrescatore: quest'Asia barbarica ed ellenizzata, i paesaggi della Turchia di oggi, i caratteri abbaglianti e sinistri di Mitridate e di Tigrane, l'efficienza disumana e la crudeltà e l'indisciplina dell'esercito romano. Su questi fondali vediamo consumarsi la tragedia di Lucullo: l'aristocratico elegante e ironico, il grande generale, che supplicando e piangendo cerca di far combattere i suoi soldati, dai quali viene invece insultato e sbeffeggiato. L'ultima parte della Vita da l'impronta definitiva alla tragedia di Lucullo. Niente di più toccante del suo affondare nelle frivolezze e nei piaceri: Plutarco finge (o immagina) di condannarlo; ma, in realtà, da artista consumatissimo, gioca di ombre e di luci, evocando un personaggio meraviglioso.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Cimone
La vita di Lucullo
Confronto fra Cimone e Lucullo
Scolî
COMMENTO
La vita di Cimane
La vita di Lucullo
Confronto fra Cimone e Lucullo
APPENDICE
Nota al testo
Lessico geografico
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Cimone". Si è sostenuto che di rado Plutarco descrive in modo coerente il protagonista di una Vita, ma che il ritratto di Cimone è contraddittorio più del solito'. Attingendo da Stesimbroto di Taso, Plutarco inizia con il delineare un profilo poco edificante di Cimone. Numerosi i suoi difetti, poche le virtù: era screditato agli occhi dei suoi concittadini, avendo una pessima reputazione. Appariva come un giovanotto dissoluto, beone e trascurato, tutto il ritratto di suo nonno Cimone, soprannominato per la sua dabbenaggine Coalemo, cioè Balordo. Non venne educato ne alla musica ne ad alcuna delle discipline coltivate in Grecia dai giovani di buona famiglia. Per di più mancava di quell'efficacia e ricchezza di linguaggio tipiche degli Attici. Oltre a prediligere vino e baldorie, aveva un debole per le donne. Il poeta Melanzio rammenta un'Asteria e una Mnestra fra quelle corteggiate da Cimone, e Stesimbroto ricorda che ebbe due o tre figli da una donna nativa di Kleitor in Arcadia. Amò appassionatamente anche Isodice, figlia di Eurittolemo di Megacle, sua legittima sposa, e soffrì moltissimo per la sua morte (4,10). Non è tutto: ancora giovane fu accusato d'intrattenere rapporti incestuosi con la sorella Elpinice, la quale, in verità, non tenne mai una condotta esemplare, e fra l'altro se l'intendeva con il pittore Polignoto. Gran dama chiacchierata dell'antichità, costei ebbe notevole influenza non solo sul fratello, ma anche su Pende, divenendo il loro mentore politico. Attingendo ancora da Stesimbroto, Plutarco riferisce che Elpinice intercedette in favore del fratello presso Pericle, quando costui lo accusò di aver lasciato cadere l'opportunità, che gli si era offerta dopo aver espugnato Taso nel 46^/2., d'invadere la Macedonia perché corrotto con doni da Alessandro I, sovrano di quella regione. E sebbene si sostenesse che le grazie di Elpinice lasciassero del tutto indifferente Pericle, non di meno egli durante il processo seguito a questa accusa si comportò nei confronti di Cimone con sorprendente benevolenza: si alzò una sola volta a parlare contro l'imputato, quasi per assolvere una mera formalità. Per i buoni uffici di Elpinice, Cimone concluse nel 451/0 un accordo segreto con Pericle: egli avrebbe avuto il comando delle operazioni militari fuori dell'Ellade e sarebbe salpato con duecento navi alla conquista dei territori soggetti ai Persiani; Pericle avrebbe avuto mano libera in Atene. Sempre secondo Stesimbroto, riecheggiato da Eupoli e Crizia, gli Ateniesi furono indotti dal filolaconismo di Cimone e dai suoi rapporti incestuosi con Elpinice a colpirlo con l'ostracismo. Ancora: Cimone era spietato nei confronti dei potenziali nemici di Atene, degli alleati stessi della città, degli avversari personali. Mise a ferro e fuoco il territorio e attaccò la città di Faselide, che si era rifiutata sia di accogliere nei suoi porti la flotta ateniese sia di abbandonare la causa persiana (11,3).Represse duramente la ribellione di Taso (14,2.) e infine, stando a Stesimbroto, fece condannare a morte Epicrate di Acarne, il quale aveva agevolato la fuga da Atene della moglie e dei figli di Temistocle. Pure la conclamata onestà di Cimone era messa in dubbio: a Stesimbroto, che ricordava il processo contro lo statista accusato di essersi lasciato corrompere dal sovrano di Macedonia, faceva eco Teopompo il quale, oltre a interpretare la liberalità di Cimone come una forma di demagogia, lo bollava come ladro, addebitandogli anche la responsabilità di aver impartito agli strateghi ateniesi un insegnamento di corruzione.
A questo ritratto di Cimone, certamente poco elogiativo, Plutarco ne giustappone uno di segno-opposto, utilizzando notizie desunte prevalentemente da Ione di Chio. Secondo costui, Cimone aveva un aspetto tutt'altro che disprezzabile: era alto di statura e aveva una capigliatura ricciuta e folta. A differenza di Pericle, che nel trattare era arrogante poiché alla presunzione univa un grande disprezzo degli altri, Cimone aveva modi signorili. Narra Plutarco che, distintosi nella battaglia di Salamina per splendidi atti di valore, acquistò subito rinomanza presso i suoi concittadini. Molti lo incitavano a compiere imprese degne di Maratona, sicché, quando si accinse a fare il suo ingresso in politica, fu accolto con favore, venendo innalzato ai più grandi onori. Era ben visto da tutti proprio per la bontà e la mitezza del carattere. Diversamente da Pausania, che trattava con crudeltà gli alleati infliggendo loro ogni sorta di umiliazioni, Cimone accolse benevolmente quanti avevano subito offese dal reggente spartano. Comportandosi così, quasi senza darlo a vedere sottrasse ai Lacedemoni l'egemonia dell'Ellade non con la forza delle armi, ma con discrezione. Era lui a sbrigare la maggior parte degli affari dei Greci: sapeva trattare gli alleati affabilmente e riusciva nel contempo gradito agli Spartani, i quali per la stima e la simpatia verso di lui non si risentirono quando gli Ateniesi cominciarono ad ampliare il loro impero e a intromettersi nelle questioni degli alleati. Del resto, erano stati proprio gli Spartani che, ostili a Temistocle, avevano favorito l'ascesa di Cimone, preferendo che in Atene dominasse lui, benché ancora giovane. Già ricco di suo - disponeva infatti di un principesco patrimonio personale -, usò i proventi delle guerre, che tutti gli riconoscevano aver guadagnato con onore, per il bene dei suoi concittadini. A dire di Aristotele, di Cornelio Nepote e di Plutarco, Cimone fece togliere gli steccati dai suoi campi, perché stranieri e cittadini potessero liberamente cogliere i frutti della sua terra. Affinché anche ai poveri fosse lecito partecipare alla vita politica, dispose che ogni giorno venisse approntato in casa sua un pranzo frugale, ma sufficiente per quanti avessero voluto profittarne.
Grandi virtù e grandi vizi: questo l'elemento che accomuna le Vite di Demetrio Poliorcete e Marco Antonio. Due personaggi che Plutarco pone non come modelli da imitare, ma da cui guardarsi, poiché se le virtù furono alla base della loro grandezza, i vizi ne causarono la rovina. Demetrio Poliorcete, figlio di uno dei più valenti generali di Alessandro Magno, fu uno dei più energici sovrani ellenistici ma, sconfitto e catturato dai Seleucidi, visse i suoi ultimi anni nei vergognosi stravizi di una prigionia dorata. Marco Antonio, braccio destro di Giulio Cesare in Gallia, fu uno dei più potenti uomini di Roma fin quando, trasferitosi in Egitto, si lasciò irretire da Cleopatra e combatté una disastrosa guerra civile contro Ottaviano. Le introduzioni di Osvalda Andrei e di Rita Scuderi analizzano le figure di Demetrio e Antonio nel contesto del loro tempo e nell'interpretazione che ne dà Plutarco.
Per Plutarco, il mito è qualcosa di infinitamente complesso : i suoi cultori dovrebbero indossare le vesti variopinte di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, di ondeggiante, di contraddittorio. Di una sola cosa Plutarco sembra certissimo: non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o in un semplice fatto naturale, come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Quello che caratterizza ogni mito è la straordinaria ricchezza degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo in termini demoniaci, matematici, alfabetici, naturali, religiosi ; e mentre lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere valori contrastanti, può significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove il " principio di non contraddizione " è caduto.
Le "Vite di Teseo e di Romolo", commentate con grande erudizione e finezza da Carmine Ampolo in questo volume, riguardano eventi che si collocano prima dei fatti storici, nell'oscurità mitica. Come nelle carte geografiche, oltre le terre conosciute, gli antichi geografi disponevano segni per indicare "deserti" o "zone infestate da belve" o "paludi inesplorate" o "ghiaccio scitico", così Plutarco avanza nei territori favolosi che appartenevano di solito ai poeti tragici e ai mitografi. Il suo procedimento è molteplice. Da un lato egli, che venera l'elemento divino puro e incontaminato, non vuole vederlo troppo mescolato all'elemento umano; e dunque nega o razionalizza le leggende mitiche. Ma, d'altro lato, quando è convinto che il sacro si è calato tra noi, ne riconosce con commossa venerazione il passaggio sulla terra. Invece di abbandonarsi alla sua vocazione di grande ritrattista, evita di chiudere la materia mitica in un profilo psicologico. Non c'è un " personaggio " Teseo o un " personaggio " Romolo - come esistono, invece, l'Antonio o il Cesare di altre Vite. Qui Plutarco racconta incarnazioni celesti, descrive con amore istituzioni religiose e riti, tradizioni strane e curiose, oppure, con una specie di brivido, si inoltra nello spessore barbarico, fosco e brigantesco, che avvolge e nasconde i miti greci e romani.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
Scolî
COMMENTO
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Plutarco nel territorio del mito. Nelle pagine iniziali della "Vita di Teseo" (1-2) Plutarco chiarisce i motivi della scelta della coppia Teseo-Romolo, ma giustifica soprattutto la sua decisione di occuparsi dell'età delle origini di Atene e di Roma, un'epoca ai confini della storia. Spiega il suo atteggiamento con un parallelo felice ed efficace con la cartografia: come nelle carte inserite nei libri di storia si mettevano nelle zone marginali indicazioni su terre inesplorate e invivibili, cosi egli, che ha già trattato in altre Vite l'età dei fatti accertabili o verosimili, potrebbe affermare ora che tocca i territori dove abitano poeti e mitografi, terre in cui non esiste certezza storica.
Il campo della storia viene delimitato con chiarezza e distinto dal campo della poesia e del mito, secondo una tendenza ben attestata e diffusa, anche se molto contrastata e spesso ignorata volutamente da parte dell'erudizione antica. Com'è noto, esisteva un'antica discussione sulla legittimità, l'opportunità e la possibilità stessa trattare l'età più antica, l'epoca delle origini di popoli e di città, di cui molti si dilettavano e di cui soprattutto si teneva conto nella vita politica interna e internazionale. In genere la storiografia locale si interessò sempre delle origini; basti pensare agli attidografi (da Ellanico in poi), benché la grande storiografia greca, prima del quarto secolo, avesse seguito vie sostanzialmente diverse: sono note le gravi riserve espresse da Tucidide (I 1,3 e 20,1), che pure aveva saputo scrivere pagine di storia antichissima (la cosiddetta "archeologia" del primo libro e la "archeologia siciliana" del libro sesto).
Un buon esempio della discussione sull'opportunità di scrivere delle origini oppure di storia recente o contemporanea è offerto dal primo libro del de legibus di Cicerone. Qui, discutendo appunto di verità poetica e di verità storica, della storiografia romana in confronto a quella greca, Attico, in polemica con Quinto Cicerone, preferisce nettamente la storia contemporanea al sentir parlare de Remo et Romulo (I 3,8). A loro volta, due storici ben noti a Plutarco, come Dionisio d'Alicarnasso e Tito Livio, pur cosi diversi, sentono entrambi il bisogno di giustificare la propria trattazione delle epoche più antiche. Malgrado le difficoltà e l'ampiezza del lavoro di ricerca, Dionisio d'Alicarnasso risale con decisione a tempi remoti; deve premettere tuttavia una sorta di autodifesa dalle critiche, che gli sarebbero state rivolte per essersi occupato delle oscure origini di Roma, e deve sostenere che i primordi della città potevano essere ricostruiti in modo veritiero e che essi avevano un carattere greco e illustre (I, 4-5; cfr. I 8). Livio invece si diceva sicuro che i lettori avrebbero apprezzato poco la sua trattazione dell'età delle origini, mentre si sarebbero affrettati a leggere la storia più recente (praefatio 4); specificava inoltre come le tradizioni relative all'età che precedette la fondazione di Roma fossero più abbellite da leggende poetiche di quanto fossero documentate: così, da parte sua, non intendeva ne accettarle ne respingerle. Ancora in tempi più vicini a quelli di Plutarco, Flavio Giuseppe nell'introduzione alla Guerra giudaica (5-6) dichiarava la sua preferenza per la storia contemporanea, criticando chi "riscriveva" la storia antica.
L'atteggiamento di Plutarco e le sue spiegazioni sono condizionate - com'è chiaro - da questa antica discussione. Il dilemma, storia antica o storia contemporanea, imponeva una scelta tanto di campo storico quanto di fonti. In tal modo, come nella Vita di Nicia (1,5) Plutarco aveva chiarito che da biografo intendeva solo integrare la grande storiografia con la ricerca di altri elementi trascurati, servendosi di fonti documentarie (iscrizioni votive, decreti)', così affrontando le origini di Atene e Roma spiega come abbia dovuto dare ascolto all'elemento leggendario, ma cercando sempre di razionalizzarlo e di renderlo verosimile. Aveva già espresso il suo scetticismo con forti perplessità a proposito di Licurgo (Lyc. i) e della stessa cronologia di Numa Pompilio, quando aveva riportato il giudizio negativo dello storico romano Clodio sulle genealogie. Non gli restava dunque che seguire il razionalismo della storiografia greca, passato anche a storici e antiquari romani, facendo appello alla comprensione dei lettori, come Livio aveva già fatto (praefatio 7). Per giustificare, ancora una volta, il carattere poco credibile del racconto dell'infanzia di Romolo e Remo (Rom. 8,9) ricorre a un argomento estremo, anch'esso forse una reminiscenza liviana (cfr. praefatio 7): si può credere alle origini divine di Roma se si pensa al grado di potenza che essa ha raggiunto.
Vediamo quali sono le caratteristiche del razionalismo di Plutarco. Come Plutarco abbia considerato il mito e la conoscenza mitica, è problema che esula da questa Introduzione: andrebbe affrontato in un esame globale della sua figura e della grandiosa attività di documentazione e di interpretazione mitologica attestata dai Moralia. Qui, vogliamo soltanto affrontare un problema più limitato: la sua interpretazione dei miti arcaici greci e romani.
Le "Vite di Arato e di Artasers"e sono tra le Vite meno note agli studiosi e al pubblico. In quella di Arato, Plutarco studia l'ultimo riflesso dell'epoca eroica dell'Ellade : il momento in cui parve che fosse ancora possibile la libertà della Grecia, la concordia tra le città in un disegno comune. In quella di Artaserse, Plutarco svela la propria passione per l'immensità dell'Oriente: una sacralità, una sfrenatezza, un delirio di grandezza, un desiderio dell'illimitato, che egli sentiva opposti alla "misura" della tradizione greca. Le informazioni che ne traiamo costituiscono la nostra fonte più preziosa sulla regalità sacra nell'Iran: il nome del sovrano persiano, associato al sole; il re dal volto così sfolgorante, che i mortali non riescono a sopportarne la vista; lo splendore luminoso che attraversa i mondi e si concentra sul capo di Dario e di Serse... Domenica Paola Orsi ha commentato questi testi con una sicura competenza, senza arretrare davanti ai difficili problemi posti dalla civiltà persiana.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Arato
La vite di Artaserse
COMMENTO
La vita di Arato
La vite di Artaserse
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La "Vita di Arato", I. Fonti. Plutarco ne nomina tre: Arato, autore di Memorie, Filarco e Polibio, autori di Storie. E opinione comune che la Vita di Arato derivi in grandissima parte dalle Memorie di Arato fino al capitolo 46; Plutarco ha poi utilizzato come fonte Polibio per gli ultimi capitoli della Vita.
a) Arato. Delle Memorie è rimasto molto poco: Felix Jacoby registra solo sei frammenti, tratti dalle Vite plutarchee di Agide, di Cleomene e di Arato. Polibio fornisce utili notizie; dichiara di voler continuare le Memorie e da inizio alla narrazione delle vicende di Grecia con il libro IV, illustrando gli eventi del 221 a.C. che provocarono lo scoppio della "guerra degli alleati" (220-217 a.C.). Le Memorie di Arato, dunque, giungevano sino alla conclusione della guerra cleomenica (battaglia di Sellasia nel 222 a.C.). Polibio informa pure di aver scelto, come fonte per gli eventi precedenti il 221, proprio le Memorie di Arato perché le giudica veritiere e, in particolare, di averle utilizzate per il racconto della guerra cleomenica: "poiché fra gli scrittori contemporanei ad Arato gode di credito presso taluni Filarco, il quale in molti punti è di opinione contraria rispetto ad Arato e lo contraddice, sarebbe utile, o piuttosto necessario, "a noi che abbiamo deciso di seguire Arato per la narrazione della guerra cleomenica", spiegare questa scelta, affinché non si consenta che il falso abbia forza uguale alla verità nelle opere storiche". E proprio mentre sta narrando la guerra cleomenica, Polibio fornisce un'altra informazione preziosa. Arato decide di avviare trattative con Antigono Dosone in vista di una alleanza fra Achei e Macedoni contro Sparta, ma ritiene opportuno agire di nascosto; egli "era costretto a dire e a fare in pubblico molte cose contrarie alla sua opinione... per questo non ha trascritto taluni di questi fatti neppure nelle Memorie". Le Memorie di Arato, dunque, se da un lato erano, a giudizio di Polibio, veritiere (e per questo Polibio le preferiva alle Storie di Filarco), dall'altro erano volutamente incomplete e Polibio integra ciò che in esse mancava.
Nella Vita di Arato la prima menzione delle Memorie figura a 3,3: è opera non rifinita perché Arato l'ha scritta in fretta e con le prime parole che capitavano. Sebbene sia opinione comune che la "Vita di Arato" fino al capitolo 46 (cioè, fino alla fine della guerra cleomenica) derivi in larga parte dalle Memorie, sono in realtà scarsissimi i frammenti che possono con sicurezza essere loro attribuiti. Per quanto siano pochissimi e facciano riferimento ad eventi diversi, è possibile individuare una tendenza che li accomuna. Procediamo ad un rapido esame.
1. Poiché gli Etoli si accingono ad invadere il Peloponneso (241 a.C.), si riuniscono contro di loro gli eserciti acheo e spartano. Agide, re di Sparta, esorta alla lotta, ma Arato impedisce lo scontro e consente agli Etoli di passare; per questo è fatto segno di ingiurie e di biasimo. Nella "Vita di Agide" Plutarco racconta il medesimo episodio, ma riferisce l'opinione di Batone di Sinope secondo il quale non fu Arato ma Agide ad impedire lo scontro. Plutarco smentisce Batone che non ha letto quanto lo stesso Arato ha scritto in proposito "difendendo" l'opportunità della sua scelta (cioè di non combattere).
2. Arato si impegnò a lungo nella liberazione di Atene; una volta assalì il Pireo mentre erano in vigore accordi di pace e venne accusato dagli Achei. Nelle Memorie, nega la sua personale responsabilità e accusa Ergine, ma, aggiunge Plutarco, la sua difesa non pare convincente.
3. Plutarco biasima la decisione di Arato di chiamare in aiuto contro Cleomene il re di Macedonia Antigono Dosone e non accetta la sua giustificazione (evidentemente nelle Memorie). Arato - scrive Plutarco - non risparmia parole "difendendo" la necessità del ricorso ad Antigono.
Un aspetto che caratterizzava le Memorie era, dunque, la tendenza (o, forse, la necessità) da parte di Arato a "difendersi" da accuse che gli venivano rivolte; la sua difesa era, a volte, una accusa. Lo si è visto: si difende dall'accusa di aver assalito il Pireo in tempo di pace, accusando Ergine; l'accusa più grave che rivolgeva a Cleomene era di volere l'eliminazione della ricchezza e il risanamento della povertà; possiamo ritenere con una certa sicurezza che Arato rivolgeva a Cleomene l'accusa di agire nell'illegalità e da tiranno. Sembra, perciò, che le Memorie non fossero opera dal tono neutrale e distaccato: pare che fossero piuttosto un'opera nella quale vi era un intreccio di accuse e di difese, e si rifletteva la vivacità della vita politica del loro autore. Esse appaiono politicamente orientale, velinamente incomplete e strumento di autogiustificazione.
Plutarco dichiara, all'inizio della Vita di Alessandro, di non voler scrivere storia, ma vite. Al centro della narrazione infatti non ci sono mai la situazione o gli eventi, ma i personaggi con il loro carattere, i loro vizi e le loro virtù. E nessuno poteva rappresentare quella commistione di grandezza e bassezza, di bene e di male di cui è fatto l'Uomo meglio dei due più celebri condottieri dell'antichità e forse della storia: Alessandro Magno e Caio Giulio Cesare. Domenico Magnino e Antonio La Penna ricostruiscono nei saggi introduttivi il metodo di lavoro di Plutarco e analizzano il valore storico delle Vite qui presentate.
Con le "Vite di Temistocle e di Camillo", a cura di Carlo Carena, Mario Manfredini e Luigi Piccirilli, la Fondazione Valla prosegue l'edizione di tutte le Vite di Plutarco, in un nuovo testo critico e con un ampio commento scientifico.
In Temistocle, Tucidide scorse un supremo leader politico, capace di trasformare Atene da piccola città agricola in impero marinaro; mentre i nemici videro in lui il simbolo di ogni vizio. Ai nostri occhi, Temistocle incarna nella sua figura tre singolari qualità umane: un'ambizione divorante, una bruciante passione per il potere e la gloria, che lo spinse a violare la "misura" raccomandata dai moralisti antichi; un'intelligenza astuta, duttile, tortuosa e labirintica, come quella di Ulisse (i Persiani lo definivano "una serpe greca dal dorso screziato") ; e un carisma visionario, che gli apportava le rivelazioni decisive in sogno. Raccontandone la vita, come sempre gli accade quando si tratta di eroi della "dismisura", Plutarco esibisce le sue eccelse doti narrative: nessun lettore di questo volume potrà facilmente dimenticare episodi come l'abbandono di Atene, l'invasione persiana, la battaglia di Salamina, gli ultimi anni di Temistocle.
Con la "Vita di Camillo", Plutarco compie un altro dei suoi scavi nell'enigma di Roma arcaica. Camillo dedica un tempio a Mater Matuta, dea dell'aurora: egli è colui che trionfa all'alba; e come Mercurio, di cui porta il nome, si serve del fuoco e del "furto" per avere il sopravvento sui nemici. Attorno a lui, una Roma tutta immersa nel prodigioso e nel sacro: laghi che straripano a causa di sacrilegi, statue che parlano e sudano, oracoli da interpretare, i segreti delle Vestali. Compaiono i Galli, minacciando Roma di irreparabile rovina: e Plutarco rappresenta la loro invasione come la storia della migrazione di gente del nord da luoghi ricchi d'ombra verso il caldo di un paese pianeggiante e insalubre.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
Scoli
COMMENTO
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Temistocle". Generalmente si ritiene che Temistocle sia un personaggio caratterizzato storicamente meglio di Solone; tuttavia, la cronologia degli avvenimenti della sua vita è quanto mai incerta e costituisce oggetto di discussione da parte degli studiosi moderni. Neppure del suo tradimento fu addotta mai una prova decisiva, nonostante le accuse dei suoi avversari. Per le sue non comuni doti di abilità e di scaltrezza, per la sua capacità di trarre profitto da ogni situazione, per il suo programma marittimo volto sia verso l'Oriente sia verso l'Occidente, Temistocle appare per un verso la prefigurazione di Alcibiade e per un altro quella di Pericle. Non è tutto : egli è stato definito a ragione "un type d'homme a métis"; e infatti, più d'ogni altro, pare incarnare quella forma d'intelligenza pratica, chiamata dai Greci metis e contraddistinta dall'inganno, dalla sorpresa e soprattutto dall'astuzia, che implica una permanente minaccia per ogni tipo di ordine costituito. E ciò in quanto la metis - si sa - opera nel dominio del mutevole e dell'imprevisto per meglio capovolgere situazioni e gerarchie già costituite, ricorrendo ad armi particolari, come reti, nasse, esche, lacci, trappole, trabocchetti, insomma a tutto ciò che è intessuto, ordito, macchinato. Temistocle presenta appunto una mente equivoca, tortuosa e complicata come i labirinti; è dotato d'intelligenza pratica; possiede la saggezza (sophia), cioè l'abilità politica (deinotes politike), e l'intelligenza che presiede all'azione (drasterios synesis: 2,6). Secondo la tradizione (2,6 sg.), egli aveva appreso tali qualità da Mnesifilo (una specie di "doppio" dell'intelligenza temistoclea), che gli suggerì un piano estremamente astuto, a cui Temistocle dovrà la sua fama: la trappola di Salamina, grazie alla quale i Greci riuscirono a mutare a proprio vantaggio una situazione di netta inferiorità. Lo stratagemma, seguito o ideato da Temistocle, pare ispirarsi a un procedimento in uso presso i pescatori, vale a dire all'accerchiamento con cui essi catturano alcuni pesci. A Salamina, il greco Temistocle manovrò come alla pesca del tonno: attirata con l'inganno (lo stratagemma di Sicinno: 12,5 sgg.) la flotta nemica, chiuse la rete e i Persiani si trovarono intrappolati come tonni. Proprio per tali qualità (raggiro, astuzia, dolo, ecc.), che gli valsero presso gli antichi e i moderni l'appellativo di Odisseo, Temistocle divenne oggetto di critiche e di lodi. Già il suo maestro - narra Plutarco (2,2) - soleva dirgli che sarebbe diventato grande in tutto, nel bene come nel male; e infatti il suo operato diede origine ben presto a due tradizioni storiografiche, l'una ostile e l'altra elogiativa.
La prima, che tendeva a metterne in rilievo l'astuzia, l'avidità e la corruttibilità, è testimoniata da Timocreonte ed Erodoto. Mentre, però, la polemica di Timocreonte, che rappresentò Temistocle come un uomo facile alla corruzione, privo di scrupoli e ambizioso (21,5 sgg.), ebbe carattere soprattutto personale senza alcuna (o con attenuata) implicazione politica, il ritratto erodoteo, poco lusinghiero, fu frutto dell'avversione nei confronti di Temistocle delle fonti d'informazione da cui attinse lo storico. Un esame, anche superficiale, dei passi di Erodoto rivela che Temistocle è sì la figura che domina la narrazione della guerra contro Serse, ma che la sua personalità viene presentata sotto una luce ambigua: è esaltata l'astuzia, mai la genialità; non è lui l'artefice del successo di Salamina, ma Mnesifilo (VIII 57 sg.); per soddisfare l'insaziabile pleonexia ("avidità"), si procura ricchezze all'insaputa degli altri comandanti, estorcendo denaro agli abitanti di Paro e di Caristo (VIII 112); sfruttando ogni occasione per il proprio tornaconto, cerca di cattivarsi le empatie dei Persiani (VIII 109 sg.). La descrizione erodotea evoca subito alla mente l'erma-ritratto di Temistocle, rinvenuta a Ostia nel 1959 e dalla quale pare sprigionarsi una forza fisica rattenuta, una violenza e un'ostinazione che può mutarsi in qualsiasi momento in furore. Il ritratto sembra adattarsi perfettamente a quel Temistocle che, esigendo denaro dagli Andri, affermava di essere giunto presso di loro in compagnia di due dee, la Persuasione e la Necessità (Erodoto, VIII 111). Gli elogi sono pochissimi (VII 144; VIII 110): solo una volta Erodoto, parlando di lui, afferma che "ebbe voce e fama" di essere di gran lunga il più saggio di tutti i Greci (VIII 124); ma questa connotazione di Temistocle quale sophotatos appare essere piuttosto opinione degli altri che dello storico, quasi egli intendesse scindere, in tale giudizio, la propria valutazione dalla communis opinio, La palese partigianeria, che evidenzia soprattutto i difetti di Temistocle, pare provenire a Erodoto dalla sua simpatia nei confronti degli Alcrneonidi (V 62-71; VI 121-51) e dei Cerici (gli "Araldi" dei misteri eleusini): ai primi apparteneva quel Leobote che presentò l'accusa di tradimento contro Temistocle (25,1; Mar, 605 e), ai secondi il suo avversario politico, Aristide (Arisi. 25,4 e 6), legato pure agli Alcrneonidi {Arisi. 2,1 ; Mor. 790 f; 805 f). E questo spiega anche la lode erodotea tributata ad Aristide, definito "l'uomo migliore e il più giusto di Atene" (Vili 79). Tuttavia, al tempo in cui Erodoto scriveva le Storie (450-20 circa), la "leggenda" di Temistocle s'era già formata, e il contrasto fra lui tutto scaltrezza (sophotatos) e Aristide tutto giustizia (dikaiotatos) difficilmente poteva passare in secondo piano: la disonestà dell'uno risultava evidente dalle accuse di Timocreonte, l'onestà dell'altro veniva esaltata quasi polemicamente dagli alleati di Atene, i quali, sottoposti dopo il 478/7 a contribuzioni sempre più gravose, provavano nostalgia per le fasi iniziali della lega delio-attica e vedevano in Aristide il realizzatore di un sistema più equanime di quello attuato da Pericle.