Poco tempo dopo la morte del fratello Bernard, Daniel Pennac allestisce una lettura scenica di un celebre racconto di Melville, "Bartleby lo scrivano". Per il personaggio di Bartleby, lui e Bernard avevano la medesima predilezione. Alternando le pagine dell'adattamento teatrale di Bartleby agli aneddoti su Bernard, ricordi affettuosi, divertenti o spietati e battute piene di humour, Daniel Pennac tratteggia il ricordo del fratello scomparso, vero e proprio complice, insostituibile compagno di vita. E mette contemporaneamente in luce una singolare affinità tra i due personaggi. Come Bartleby, Bernard era sempre più incline a ritrarsi deliberatamente dalla vita sociale, a un rifiuto categorico di aggravare l'entropia.
Emma Bovary è una donna intrappolata nella tranquilla vita di provincia e nel ménage con un marito medico benestante e perbene che le riserva tutte le attenzioni ma non riesce a scuoterla dalla noia e dal torpore. Grande lettrice di romanzi sentimentali, Emma ricerca la passione nella vita quotidiana rifugiandosi prima in fantasie romantiche, poi nei lussi che ha sempre sognato da ragazza, infine in relazioni incaute. Eppure nemmeno questa evasione dal mondo familiare riuscirà a portarle la felicità sperata. Pubblicato nel 1857, il romanzo venne attaccato per i contenuti immorali ma impose a lettori e lettrici un nuovo modello di eroina.
D'Artagnan, giovane guascone, parte per Parigi per unirsi ai moschettieri, la legione di spadaccini fortemente voluta dal re di Francia Luigi XIII e invisa al perfido cardinal Richelieu. Si trova per caso a combattere al fianco di Athos, Porthos e Aramis, dimostrando tutto il suo valore e il suo cuore, necessari per servire la corona e difenderla da nemici fuori e dentro la corte. D'Artagnan e il trio di moschettieri saranno costretti a ricorrere a tutto il loro ingegno e le loro abilità con la spada per preservare l'onore della regina Anna e contrastare gli schemi malvagi del cardinale. Con questa epopea di cappa e spada pubblicata nel 1844, Dumas ricama sulla storia un colorato mondo di combattimenti, intrighi e romanticismo. Un romanzo che ha ispirato decine di adattamenti cinematografici, parodie e seguiti letterari.
Alí ha perso tutto. Eppure non ha mai creduto che la Storia potesse riservargli qualcosa di brutto. Non a lui che è sopravvissuto alla battaglia di Montecassino combattendo per la Francia. Non a lui, a cui il cielo ha - letteralmente - donato un torchio e Dio un primogenito bello e sano come Hamid. Ma quando nel 1962 l'Algeria ottiene l'indipendenza, Alí non è più l'uomo onorato e rispettato del suo piccolo villaggio. Ha dovuto collaborare con gli oppressori francesi: ora nuovi oppressori lo perseguitano in nome di un'altra bandiera. Alí deve lasciare per sempre - ma questo ancora non lo sa - gli uliveti della sua amata montagna in Cabilia. Hamid è ancora piccolo quando perde tutto per la prima volta. O meglio, scambia tutto quello che ha: l'innocenza per lo spettacolo delle torture della guerra civile, la casetta sul crinale per una tenda in un desolante campo d'accoglienza, i suoi fieri genitori per due ombre svuotate da un'anonima banlieue francese. Di quello sradicamento Hamid finisce per farne una religione, condannando il paese della sua infanzia all'oblio e se stesso alla condizione permanente di straniero. Naïma ha perso l'Algeria prima ancora di poterla avere. Perché il padre Hamid non ha mai voluto raccontarle niente, sua nonna non parla la sua lingua, la metà dei suoi zii è nata in Francia, suo nonno Alí è morto da tempo e in fondo va bene così. Naïma è francese e pensa di non avere nulla in comune con quel paese sulla riva opposta del Mediterraneo. Fino a quando per lavoro non è costretta a visitare l'Algeria e decide di conoscere meglio la travagliata storia della sua famiglia. Anche se tutti la considerano «un'algerina» - soprattutto negli anni del terrorismo e della xenofobia che infetta l'Europa - Naïma capisce presto che un paese non è un tratto somatico e non si può ereditare.
«Il mio amico Serge ha comprato un quadro» annuncia Marc, da solo in scena, ad apertura di sipario. «È una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Subito dopo Marc viene a sapere dallo stesso Serge che il quadro bianco a righe bianche è stato pagato duecentomila franchi: cosa che Marc giudica grottesca, poiché secondo lui è «una merda». Un terzo amico, Yvan - che ha già abbastanza guai con i preparativi del suo matrimonio -, non prende posizione, venendo accusato dagli altri due di pusillanimità e doppiezza. Così, la serata che i tre decidono di trascorrere insieme si trasforma in un regolamento di conti, in un gioco al massacro: il quadro bianco a righe bianche diventa il rivelatore da cui affiorano a poco a poco nevrosi, risentimenti e rivalità, mentre le parole si fanno sempre più velenose, sempre più acuminate, fino a ridurre in macerie la fragile impalcatura di un rapporto fondato sull'egoismo, la vanità e l'ipocrisia. Yasmina Reza, di cui conosciamo la penna affilata e lo sguardo chirurgico, tocca in questa commedia nera vette di comica crudeltà, si diverte e ci fa divertire - perché ridiamo molto, anche se sempre più a denti stretti, a mano a mano che da sotto la maschera buffa del théâtre de boulevard vediamo spuntare la malinconia.
La punizione è la storia di un'ingiustizia: la detenzione di novantaquattro studenti, puniti per aver manifestato pacificamente nelle strade delle grandi città del Marocco nel marzo del 1965. La prigionia è subdola, ma non per questo meno violenta: viene spacciata come convocazione per il servizio militare. I ragazzi ricevono nelle loro case un semplice obbligo di comparizione in caserma e di lì non escono più. Si ritrovano prigionieri in luoghi che sono lontani da tutto, isolati dalle loro famiglie e da chiunque potrebbe aiutarli, sfruttati, denutriti e maltrattati fino alla morte. Sempre senza spiegazioni; sempre senza nessuna ragione. Fra questi ragazzi c'è anche Tahar Ben Jelloun, che uscirà vivo da tutto questo quasi per miracolo, salvato indirettamente dal colpo di stato del 1971. Come dichiara nel libro, ci sono voluti 50 anni per riuscire a tornare con la mente a quelle settimane che hanno segnato per sempre la sua coscienza, e forse hanno segretamente nutrito la sua vocazione di scrittore.
Il mondo visto da un bambino (con tutto il suo stupore, le sue ingenue e profonde intuizioni) e narrato dalla penna di Prévert: in queste pagine in prosa il poeta francese racconta la propria infanzia. Gli affetti e le immagini della vita famigliare si alternano alle percezioni dell'ambiente esterno: la scoperta di Parigi, le vacanze in Bretagna, il cinema, i libri d'avventura, e un'occhiata stranita sulla società e sulla politica.
Nel luglio 1806 François-René de Chateaubriand partì per un lungo viaggio alle radici dell'Antichità, con l'intento di raccogliere "immagini" di un mondo che poi avrebbe raccontato nella sua epopea I martiri (1809). La visita di luoghi celebri, legati alla Classicità e alla fede cristiana e quasi "mitici" per l'epoca, non poté che suscitare in lui profonde riflessioni. Da qui l'idea di metterle per iscritto in un'opera che vide la luce, con il titolo di Itinerario da Parigi a Gerusalemme (1811), dopo un profondo intervento di rielaborazione del Diario aggiornato in loco. Da Parigi, Chateaubriand raggiunse la Terra Santa passando per l'Italia, la Grecia, la Turchia, e rientrando poi attraverso l'Egitto. In questa edizione sono presentate solo le parti dedicate alla Terra Santa, vero e proprio "cuore" del viaggio. Raggiungeremo perciò l'Autore a Giaffa, sulla costa del Mediterraneo, saremo suoi compagni di carovana attraverso la Giudea e arriveremo quindi a Gerusalemme, per visitare ogni angolo di una città così diversa eppure così simile ad oggi. Un classico della letteratura di viaggio che ha ancora molto da dire, come documento storico e testimonianza di un grande scrittore, della sua epoca e di una terra unica.
Primi anni Cinquanta, Léopoldville, infelice sobborgo di Parigi dall'aria irrespirabile, presidiato da uno stabilimento chimico e circondato da campi di cavolo. Louise, diciassette anni e un cuore avido, è già stufa della pochezza di questo posto, della madre che la opprime, del patrigno disoccupato e alcolizzato. Ecco perché rimane tanto affascinata dai Rooland, una coppia di stravaganti americani trasferitisi da poco nel quartiere. Casa Rooland, ai suoi occhi, è un'isola di colore e allegria che sorge come un sogno in quel grigiore, con quella favolosa Dodge parcheggiata nel vialetto di ghiaia rossa, i suoi sedili di pelle bianca, le cromature. I Rooland li vede in giardino quando torna a casa dalla fabbrica, seduti insieme su un dondolo con i cuscini blu, un bicchiere in mano, a passare il tempo come nessun francese farebbe mai. In un giorno più sbagliato degli altri Louise prende coraggio, va da loro, si propone come domestica, pur di entrare in quelle stanze. E comincia per lei una nuova vita, in un mondo fuori dal mondo. Ma sarà proprio la convivenza con la coppia a rivelare le crepe di quell'apparente perfezione, a rendere palesi segreti e ossessioni, e la ragazza si troverà in un groviglio di non detti, di tensioni, di comportamenti incomprensibili e desideri fatali. E il suo sogno sarà offuscato da ombre sempre più lunghe.
Un bambino è curioso. Fa molte domande e si aspetta risposte precise e convincenti. Non bariamo con le domande di un bambino. Mentre mi accompagnava a una protesta contro un disegno di legge sull'immigrazione, mia figlia mi ha chiesto del razzismo. Abbiamo parlato molto. I bambini sono in una posizione migliore di chiunque altro per capire che non nasciamo razzisti ma a volte lo diventiamo. Questo libro, che cerca di rispondere alle domande di mia figlia, è per i bambini che non hanno ancora pregiudizi e vogliono capire meglio la realtà. Per quanto riguarda gli adulti che lo leggeranno, spero che li aiuti a rispondere alle domande, più imbarazzanti di quanto pensano, dei propri figlie.