Perché l'Occidente ha smarrito gli strumenti concettuali per pensare la pace e non riesce a definirla se non riducendola a un generico rifiuto delle armi o a una mera assenza di guerra? Sergio Cotta, tra i maggiori filosofi del diritto del nostro Paese, pone all'origine di questo fenomeno le teorie che, da Eraclito a Hobbes e a buona parte del pensiero contemporaneo, vedono nel conflitto l'elemento costitutivo di una visione antropologica negativa e come appiattita sulla prospettiva del fare creare distruggere. Per capire la natura della pace occorre guardare a un'altra linea di pensiero che, da Platone ad Agostino, da Leibniz a Husserl e Lévinas, invita a conoscere se stessi, alla ricerca della verità, all'incontro con l'altro. Se l'essenza originaria e universale dell'umano è relazionale, comunicativa, solidale, accogliente, allora la pace è il suo dato primario e la guerra è solo una condizione "parassita", una trasgressione rispetto alla verità della coesistenza civile.
Che cosa induce gli uomini a obbedire alle leggi? Quali sono i fondamenti ultimi dell'ordine politico? Secondo Voegelin la religione è il fattore che tiene insieme le società, la chiave di volta dell'esistenza umana, che si muove in una tensione perenne tra la precarietà della vita terrena e l'eternità dell'essere assoluto. La tradizione cristiana parla di creaturalità, ovvero lo stare in relazione con l'originario divino, ma al contempo segnati dalla finitezza e dalla morte. Se per Voegelin la crisi profonda che ha investito l'Occidente negli ultimi secoli nasce dal ripiegamento su se stessi, un percorso di ascesa è possibile grazie all'esperienza, descritta da Platone, dell'essere attratti fuori da sé, che corrisponde alla forza della grazia e all'attrazione del Cristo di cui parla il Vangelo. Religione e filosofia non sono in contraddizione, ma rivelano il nucleo dell'individuo come essere umano: la tensione verso Dio, l'invalicabile limite della persona.
Eric Voegelin (1901-1985) filosofo statunitense di origine tedesca si è occupato di filosofia politica e di storia della filosofia moderna. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo "Ordine e storia" (2 volumi, Vita e Pensiero, 2009-2015)
Straordinariamente plurima nei suoi significati, la parola solitudine richiama vissuti molto diversi e risonanze valoriali perfino contrapposte. La solitudine è per alcuni sofferenza, per altri sollievo; per alcuni malattia, per altri cura. Nella solitudine l'umanità appare talvolta dolorosamente perduta, in altri casi riconquistata. Solitudine può significare chiusura, angoscia, afflizione, ma anche pace, liberazione da esteriorità dispersive, scoperta di relazioni più autentiche con se stessi e con gli altri. Devastante da una parte e generativa dall'altra, la solitudine può angosciare ma anche ispirare grandi pensieri: "Da chi non ha mai vissuto in solitudine raramente vien fuori qualcosa di buono o di cattivo. Nella solitudine si trova l'assoluto, ma anche il pericolo assoluto" (S. Kierkegaard). La declinazione al plurale del titolo di questo volume e delle indagini multidisciplinari in esso contenute, dà conto della complessa fenomenologia dell'essere e del sentirsi soli, di cui ci ha resi maggiormente avvertiti anche l'esperienza pandemica dei nostri giorni.
La dolcezza è un enigma difficile da identificare. È il nome di un'emozione che non sappiamo più descrivere, venuta da un tempo in cui l'umano non era separato dal resto della vita, dagli animali, dagli elementi, dalla luce, dagli spiriti. È selvatica e raffinata, come ben sa la cultura orientale, è spirituale e carnale, è una festa dei sensi alla quale il tatto, il gusto, i profumi, i suoni aprono l'accesso. Soprattutto, è una potenza, una forza simbolica di resistenza capace di trasformare la vita. In questo saggio particolarissimo, scritto all'incrocio tra filosofia e psicanalisi, Anne Dufourmantelle insegue e ripercorre le tracce della dolcezza nell'esperienza delle donne e degli uomini, dialogando con Tolstoj e Dostoevskij, passando per Flaubert e Hugo, senza dimenticare Lévinas. E arriva a toccare l'origine stessa della dolcezza, che è il nome segreto dell'infanzia, un ricordo a se stessi che inventa il futuro e che si fa potenza di relazione con l'altro, in grado di trasformare anche il dolore in creazione di una nuova promessa di sollievo e ripartenza.
Per comprendere le dinamiche della storia e della politica occorre un'adeguata conoscenza della natura dell'uomo. Da questo presupposto prende avvio l'opera di Reinhold Niebuhr - qui tradotta per la prima volta in italiano -, dove viene descritta l'ambiguità della personalità umana, caratterizzata da una libertà radicale che apre a possibilità infinite di bene e di male. Questa ambiguità si riflette anche nelle discrepanze tra il comportamento morale e sociale degli individui e quello dei gruppi, meno capaci di controllare gli istinti e di andare al di là dei propri interessi, come dimostrano, per esempio, le questioni del razzismo e del nazionalismo. Per provare a risolvere la tensione tra il singolo e la comunità, tra classi, etnie e Stati, Niebuhr dichiara il bisogno urgente di un "realismo cristiano", che permetta alla politica di non rimanere intrappolata nell'immanenza della storia, ma di rivolgersi verso ciò che la eccede.
La questione di Dio, apparentemente non centrale nelle analisi di Edmund Husserl, si mostra, in realtà, come l'immancabile punto d'arrivo di numerose sue indagini sul "senso" dell'umano, sui legami intersoggettivi resi possibili dall'entropatia, sui conseguenti vincoli comunitari di carattere etico e sulle produzioni culturali, dalla filosofia alle scienze e alla teologia. In un serrato colloquio con i filosofi dell'Età Moderna, Cartesio e Leibniz, ma anche, alla lontana, con quelli del Medioevo, Agostino e Tommaso, la ricerca sul divino assume un'importanza sempre più palese soprattutto nei manoscritti del fenomenologo. La curatrice segue qui lo svolgimento di questo argomento, traducendo e commentando alcuni testi husserliani relativi al Dio dei filosofi, al Dio dei teologi e al Dio della fede, che culminano con una profonda meditazione sulla preghiera.
La mente fenomenologica pone domande fondamentali sulla mente dalla prospettiva della fenomenologia ed esamina temi come il tempo e la coscienza, l'intenzionalità e la percezione, la mente incarnata, l'azione. Questa nuova edizione è stata rivista e aggiornata estesamente. Il capitolo sulle metodologie fenomenologiche è stato ampliato per coprire la ricerca qualitativa e vi sono nuove sezioni che discutono gli studi recenti su temi come la fenomenologia critica, la cognizione sociale, la razza e il genere, l'intenzionalità collettiva e il sé. Presenta anche altre utili novità, come i riassunti dei capitoli, le guide a ulteriori letture e numerosi box con spiegazioni di temi specialistici, che rendono il volume un'introduzione ideale ai concetti chiave della fenomenologia, delle scienze cognitive e della filosofi a della mente. Postfazione alla nuova edizione di Patrizia Pedrini.
La centralità moderna del soggetto ha sigillato la dignità di ogni singolo venire al mondo: umani si nasce. Tale conquista, però, non ha spostato di un millimetro la nostra resa all'insignificanza della destinazione di questo nascere: l'umano è un effetto senza causa adeguata - praticamente un miracolo - ma la sua morte azzera tutto. Insomma, si nasce per niente. Non abbiamo il coraggio di dirlo ai figli, ma ci siamo convinti, dati scientifici alla mano, che il passaggio della nascita non si ripeterà in nessun altro modo. Eppure, nemmeno l'astrofisica, oggi, lo giurerebbe in tribunale. I segnali più antichi dell'ominizzazione della vita della coscienza coincidono con la ritualizzazione della morte come passaggio: come se lo sapessimo da sempre. Il cristianesimo, poi, ha introdotto la generazione e la risurrezione nell'intimità dell'essere divino, aprendovi la destinazione per un'umanità imperfetta. Impensabile anche per la religione più alta: eppure la fede cristiana non si muove da lì. Credenti o non credenti, quanti siamo, abbiamo forse dilapidato l'eredità migliore della nostra storia?
Il cuore è uno dei simboli universali della vita affettiva, diffuso in molte civiltà sin dai tempi più antichi. Oggi, tuttavia, questo fondamentale simbolo richiama quasi unicamente un vago e impalpabile sentimentalismo, assai lontano dalla consistenza ontologica e dalla capacità di apertura alla trascendenza che l'immagine del cuore ha sempre teso a delineare. In questo breve testo, Hildebrand mostra come il "cuore" sia la sede di un'intensa attività vitale e affettiva, indispensabile per accedere alla conoscenza vissuta di tutta una serie di strati di beni e valori che compongono la realtà. Inoltrandosi nella via aperta da Max Scheler, Hildebrand offre uno dei maggiori contributi all'analisi fenomenologia di questa fondamentale sfera della persona umana, incidendo con apporti determinanti su una riflessione che ancora oggi è al centro dell'interesse filosofico. Il testo di Hildebrand, però, non contiene soltanto una raffinata analisi filosofica dell'affettività umana, ma anche una riflessione intima e meditata sul mistero del Sacro Cuore di Cristo, che aiuta a comprenderlo nella sua profondità teologica evitandone letture superficiali e sentimentalistiche.
La pandemia da Covid-19 ha profondamente modificato i comportamenti, le abitudini e gli stili di vita dei cittadini. Alla situazione che ne è derivata fa riferimento questo bel volume dal titolo curioso "Il fico sterile", che adotta un genere letterario inconsueto, scegliendo come interlocutore l'homo sapiens e rivolgendosi a lui, non senza un velo di elegante ironia, attraverso una lunga lettera in cui si alternano a giudizi molto severi sul modello socio-culturale dominante proposte positive di cambiamento. Il volume non si limita tuttavia a rilevare i limiti e i mali della situazione presente; offre piuttosto indicazioni e piste preziose per la promozione di una alternativa, che esige per essere attivata un cambio di paradigma, sia a livello della coscienza personale che della struttura sociale. (dalla «Prefazione» di Giannino Piana)
In questo testo ormai classico, pubblicato per la prima volta nel 1981, Habermas analizza l'ipotesi che la razionalità non sia esclusivamente di tipo funzionalistico, finalizzata cioè a uno scopo e tale da ridurre gli individui a strumenti, ma possa essere di tipo discorsivo, ovvero più emancipativa, e scaturire dal dialogo tra soggetti non isolati nel mondo sociale. Come il linguaggio non è solo un insieme di termini ma anche discorso rivolto a qualcuno con cui ci si deve intendere (e che in quell'intesa si realizza), così la legittimazione delle istituzioni politiche dipende in gran parte dalla «razionalità comunicativa», in grado di favorire la formazione di una volontà collettiva e di promuovere la partecipazione democratica da parte di individui non asserviti. Un'opera tuttora centrale nella produzione dell'autore, che viene qui riproposta in un'edizione rivista e arricchita della nuova presentazione di Alessandro Ferrara e di un testo inedito scritto per l'occasione dallo stesso Habermas.
In questo testo ormai classico, pubblicato per la prima volta nel 1981, Habermas analizza l'ipotesi che la razionalità non sia esclusivamente di tipo funzionalistico, finalizzata cioè a uno scopo e tale da ridurre gli individui a strumenti, ma possa essere di tipo discorsivo, ovvero più emancipativa, e scaturire dal dialogo tra soggetti non isolati nel mondo sociale. Come il linguaggio non è solo un insieme di termini ma anche discorso rivolto a qualcuno con cui ci si deve intendere (e che in quell'intesa si realizza), così la legittimazione delle istituzioni politiche dipende in gran parte dalla «razionalità comunicativa», in grado di favorire la formazione di una volontà collettiva e di promuovere la partecipazione democratica da parte di individui non asserviti. Un'opera tuttora centrale nella produzione dell'autore, che viene qui riproposta in un'edizione rivista e arricchita della nuova presentazione di Alessandro Ferrara e di un testo inedito scritto per l'occasione dallo stesso Habermas.