Come è noto, il Vangelo invita non solo a diventare discepoli di Cristo e figli di Dio, ma a essere trasformati in Cristo, attraverso la Grazia che è donata col battesimo. Ciò equivale a richiamare il cristiano alla sua vera vocazione che i la santità. Con questo libro Hildebrand ci aiuta a rendere concreto l'invito del Vangelo, contemplando quelle qualità generali che sono caratteristiche dell'uomo novo in Cristo. Attraverso una serie di meditazioni sulla disponibilità a cambiare, il raccoglimento e la contemplazione, la conoscenza di sé, la libertà interiore, ma anche la semplicità, l'umiltò, la fiducia in Dio e la fame di giustizia, Hildebrand ci offre un solido auto per affrontare la via che il cristiano è chiamato a percorrere per raggiungere quella meta che è la comunione d'amore Dio. Con questo volume Hildebrand ci mostra quanto è grande e profondo il senso della chiamata che Gesù rivolge a tutti quando dice: "Seguimi!".
Questo saggio è un estratto dal capolavoro spirituale di Dietrich von Hildebrand, Trasformazione in Cristo, che il filosofo scrisse durante la sua eroica lotta contro i nazisti e che è spesso paragonato a L'imitazione di Cristo da coloro che ne hanno apprezzato la straordinaria saggezza spirituale. In esso von Hildebrand mostra perché per rispondere alla chiamata di Dio con la santità dobbiamo essere trasformati in Cristo, e spiega le virtù a cui occorre tendere per realizzare questa trasformazione. Tra le diverse virtù richiamate da von Hildebrand - contrizione, fame di giustizia, fiducia, mitezza, misericordia, ecc. - l'umiltà ha certo un posto essenziale. Smascherando l'ipocrisia di stampo nietzschiano, che fa dell'umiltà un atteggiamento servile e rassegnato, inadatto a chi vuole imporre i propri diritti e affermare la propria volontà, von Hildebrand mostra, al contrario, come l'umiltà sia una struttura fondante della dignità dell'uomo, premessa di ogni cammino spirituale e presupposto di ogni vera libertà. Non coltivare la vera umiltà espone - come sottolinea Pierangelo Sequeri nella Prefazione - alle insidie dell'orgoglio e soprattutto al proliferare dell'alterigia, perversione capace di minare ogni legame sociale e ogni autentica compassione umana.
Il cuore è uno dei simboli universali della vita affettiva, diffuso in molte civiltà sin dai tempi più antichi. Oggi, tuttavia, questo fondamentale simbolo richiama quasi unicamente un vago e impalpabile sentimentalismo, assai lontano dalla consistenza ontologica e dalla capacità di apertura alla trascendenza che l'immagine del cuore ha sempre teso a delineare. In questo breve testo, Hildebrand mostra come il "cuore" sia la sede di un'intensa attività vitale e affettiva, indispensabile per accedere alla conoscenza vissuta di tutta una serie di strati di beni e valori che compongono la realtà. Inoltrandosi nella via aperta da Max Scheler, Hildebrand offre uno dei maggiori contributi all'analisi fenomenologia di questa fondamentale sfera della persona umana, incidendo con apporti determinanti su una riflessione che ancora oggi è al centro dell'interesse filosofico. Il testo di Hildebrand, però, non contiene soltanto una raffinata analisi filosofica dell'affettività umana, ma anche una riflessione intima e meditata sul mistero del Sacro Cuore di Cristo, che aiuta a comprenderlo nella sua profondità teologica evitandone letture superficiali e sentimentalistiche.
La questione del lavoro occupa oggi un posto considerevole, se non centrale, nelle preoccupazione di molti governi e popolazioni del mondo. Tanto che, in molti paesi, il lavoro non è considerato solo un mezzo di sostentamento ma un diritto: un diritto che garantisce la dignità della persona. Questo vale, per esempio, per il nostro paese, dove il primo articolo della Costituzione sancisce che il lavoro è il fondamento della nostra democrazia e della nostra Repubblica. Tale riconoscimento non dovrebbe affatto stupirci, se solo pensiamo che dagli albori della modernità fino a oggi, dagli economisti liberali ai movimenti operai, da Marx a Ernst Jünger, il lavoro è visto come il perno della nostra civiltà, e gli si assegna una centralità che rasenta spesso la sacralizzazione. La riflessione sul lavoro ha un posto importante anche nella produzione di Jacques Ellul, sociologo e teologo francese, noto soprattutto come studioso e critico della società tecnica. Si tratta - come si può evincere dagli scritti raccolti in questo volume - di una critica assai radicale dell'ideologia del lavoro che sta alla base della nostra società. Ellul porta avanti la sua riflessione su due piani: storico-sociologico e teologico.
La storia dell'idea di sacramento sembrerebbe esclusivamente teologica. Negli ultimi anni, però, si è riscontrato un crescente interesse anche filosofico per questo concetto. Si pensi alla fenomenologia francese, che chiama in causa ripetutamente l'eucarestia, o ai lavori di Agamben, in cui il sacramento è assunto come paradigma di dinamiche economiche, politiche e più latamente ontologiche. Ma altri esempi si possono citare, e anzi un uso filosofico del sacramento inizia già nella modernità. Il volume tenta perciò la ricostruzione di alcune tappe fondamentali della storia dell'idea, del cui lungo sviluppo mancava ancora una ricostruzione diacronica. Muovendo non solo dalla patristica latina, ma anche dai prodromi nella Bibbia ebraica, e passando attraverso la comprensione semiotica che, sulla scia di Agostino, si sviluppa nel XII secolo e nella scolastica, i saggi qui raccolti arrivano sino a Kant, all'idealismo tedesco e al pensiero contemporaneo. Infine, sulla scia di una ricerca precendente, in queste pagine si tenta di leggere sinteticamente l'attuale uso filosofico del sacramento alla luce dell'analogia: instaurando una logica che tiene insieme identità e differenza, infatti, il sacramento rappresenta una possibile radicalizzazione di quella figura teorica, dalle valenze ontologiche prima che teologiche.
La relazione Giacobbe-Esaù si è imposta come uno dei grandi archetipi dell'immaginario occidentale. La vendita della primogenitura, il "furto" della benedizione paterna, il sogno della scala, la lotta con l'angelo, l'incontro fra i fratelli si sono man mano affermate come immagini della coscienza collettiva occidentale. Un'attenzione testimoniata sia dalla tradizione esegetico-biblica, sia dalla sensibilità artistica, che più volte, si pensi solo a Rembrandt, è tornata a rappresentare la storia dei due figli di Isacco. Ma ancor più, questa relazione è un momento importante per la storia dell'umanità: per la prima volta si propone l'ideale di una fratellanza universale, capace di costruire vincoli di appartenenza che superano i tradizionali legami tribali ed identitari. Un percorso, che ha visto dividersi mondo ebraico e mondo cristiano, i quali hanno interpretato in modo specifico e a tratti antitetico la relazione fra i due fratelli, offrendo, al contempo due diversi modi di intendere l'identità europea ed occidentale. Attraverso il rapporto fra Giacobbe ed Esaù si pensa, così, l'identità del Vecchio Continente: i suoi confini ed il modo in cui decide di relazionarsi all'Alterità.
Quale importanza può avere oggi la preghiera? L'uomo del secondo millennio, padrone del proprio tempo, e ormai in grado di gestire la natura attraverso la tecnologia e la storia attraverso la pianificazione politica, ha ancora bisogno di pregare? Quale sarebbe il senso di tale preghiera se non l'espressione di un desiderio destinato alla frustrazione o di una richiesta di aiuto alienante e pericolosamente tendente a una deresponsabilizzazione? Questi interrogativi possono essere riassunti in un'ultima radicale questione: colui che prega aggiunge o toglie elementi essenziali alla definizione dell'idea di persona? Partendo da una prospettiva antropologica e filosofica, il presente saggio risponde a questa domanda sostenendo che l'uomo è un essere orante non per scelta, ma per natura. La sua preghiera non è frutto di un desiderio soggettivo, bensì è iscritta nel suo squilibrio ontologico che lo rende consapevole della sua finitezza e dei suoi limiti, ma al contempo lo informa delle sue aspirazioni. Questa tesi è argomentata a partire dalla preghiera di richiesta e da quella di ringraziamento, due tra le forme più comuni e significative di preghiera, già al centro delle critiche filosofiche. Lo spostamento di attenzione dalla preghiera intesa come oggetto all'atto orante colto nel suo dinamismo, permette di cogliere il nesso con altre dimensioni umane, quali la libertà, il tempo, la conoscenza e la relazionalità.
Le prime parole dell'Ecclesiaste - il libro sapienziale dell'Antico Testamento, redatto da un ignoto autore del III secolo a. C. e da alcuni interpreti attribuito a Salomone stesso - sono note a tutti: "Vanità delle vanità, tutto è vanità". Queste parole hanno fatto dell'anonimo autore il modello universale dello scettico, che dubita di tutto e non crede in nulla, e del testo una scheggia di incomprensibile nichilismo nel corpo stesso delle Sacre Scritture. Come si giustifica la presenza di quest'opera nel complesso dei libri che compongono la Bibbia? Perché è stata accolta nel Canone? Alla contraddittorietà della presenza e dell'insegnamento dell'Ecclesiaste molti hanno cercato di dare una risposta, perlopiù cercando di minimizzare, ridimensionare, limitare le dure constatazioni contenute nel testo. Partendo dalle stesse domande ma senza ritrarsi di fronte alla contraddittorietà del testo, anche Jacques Ellul - il noto teologo protestate e critico della società tecnologica - si è cimentato nell'analisi e nel commento di quest'opera. Ma nel suo caso il testo ha trovato un autore estremamente simpatetico, a cui l'Ecclesiaste ha offerto l'estro per alcune notevoli pagine su scetticismo e fede, nichilismo e speranza, fugacità e saggezza. Pagine superate solo dalle sconcertanti considerazioni sul denaro, il lavoro e la felicità che l'autore ha saputo trarre da questo antico testo dagli insegnamenti sempre attuali.