Il web è il più grande apparato di registrazione che l'umanità abbia sinora sviluppato, e questo spiega l'importanza dei cambiamenti che ha prodotto. Basti pensare che sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Il numero di segni disponibile per la manipolazione e la combinazione diviene incommensurabilmente più elevato che in qualunque cultura precedente, e questo cambia tutto. Ecco perché comprendere la vera natura del web è il primo passo verso la comprensione della rivoluzione in corso, che genera un nuovo mondo, un nuovo capitale, una nuova umanità: anzi una documanità. Alla radicale revisione e alla costruzione concettuale dei nostri modi di guardare alla tecnica, all'umanità, al capitale è dedicato il nuovo e definitivo libro di Maurizio Ferraris, uno dei più influenti e originali filosofi contemporanei.
Benedetto Croce e Giovanni Gentile sono tra i protagonisti della riscoperta di Leonardo in Italia agli inizi del Novecento, e il loro contributo è decisivo per la definizione di una autentica critica del pensiero leonardesco. I due testi qui raccolti per la prima volta in volume, apparsi nel 1910 e nel 1919, affrontano la questione se Leonardo possa essere considerato propriamente un filosofo e se, nell'amalgama "caotico" della sua creazione, siano ravvisabili tracce d'una qualche forma di filosofia. Croce e Gentile, ciascuno fedele alle proprie categorie di pensiero, restituiscono l'immagine di un infaticabile indagatore della natura attraverso la multiformità della sua opera, ricostruita in un dedalo di frammenti, di abbozzi e di studi preparatori. Filosofo, inventore, artista sublime, naturalista: se Leonardo sfugge a una definizione univoca e ordinaria, il merito di Croce e Gentile è quello di saperne cogliere e testimoniare, parafrasando Eugenio Garin, la dimensione storica, la misura umana, al di fuori di ogni mito.
Per la prima volta in Italia l'edizione critica completa, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis, dei Salons che Denis Diderot compose fra il 1759 e il 1781 con cadenza biennale, con l'eccezione degli anni 1773, 1777 e 1779. A completamento del volume anche l'edizione, curata da Massimo Modica, dei "Saggi sulla pittura" e dei "Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura, l'architettura e la poesia, per continuare i «Salons»", che Diderot scrisse nel 1766 e nel 1777. Il volume rappresenta uno strumento per la conoscenza dell'opera di Diderot, della storia del pensiero illuminista e della storia dell'arte e della critica d'arte e anche una chiave di lettura per una comprensione più consapevole del presente, a partire proprio dalla rilevanza che la cultura delle immagini ha nella nostra società.
Pubblicato nel 1846 questo scritto inaugura una nuova fase della ricerca religiosa di Feuerbach, che ora riconsidera la posizione del cristianesimo all'interno del più vasto orizzonte delle religioni primitive e dell'antichità classica. Esso costituisce allo stesso tempo un importante documento della critica della religione in genere, in quanto individua la radice della religione nel sentimento di dipendenza dalla natura, ovvero da tutto ciò che circonda e limita l'uomo. Questo sentimento di dipendenza o di "finitudine" è visto anche come il nucleo di verità ineliminabile della religione.
Questo breve testo è la rilettura in chiave moderna di un'opera di Arthur Schopenhauer. Venne pubblicata postuma per il pudore dell'Autore, che non la riteneva in linea con il suo pensiero e l'etica. Il lettore è in grado di decidere cosa fare degli stratagemmi per prevalere sull'avversario. Di sicuro i personaggi riportati non sono sempre esemplari di correttezza e virtù.
Con questo volume s'intende mettere a disposizione del lettore italiano una parte poco conosciuta dell'opera di Michel Foucault, quella scritta per giornali e riviste e che Foucault stesso ha definito il suo "giornalismo filosofico". I testi qui presentati spaziano dal problema della vita e del vivente, a quello della nascita del biopotere e degli effetti della medicalizzazione della società; dalla questione del crimine e della punizione a quella della società disciplinare e dei dispositivi di controllo e sicurezza; dai temi filosofici della verità e dell'identità al problema della sessualità e della soggettività che si forma o si sfalda nel punto d'intersezione e di conflitto tra desiderio e piacere. A questi interrogativi si intreccia sempre la domanda che sin dall'inizio ha accompagnato il lavoro di Foucault, a volte esplicitamente, altre volte in segreto: quella sul ruolo e sulla funzione dell'intellettuale.
Filosofo, logico, matematico e attivista, Bertrand Russell non è stato soltanto una figura centrale per il suo contributo alla logica e alla disciplina matematica nel XX secolo, ma anche un uomo di grande spessore etico, tormentato dalle profonde inquietudini della sua epoca e desideroso di lasciare un segno, intellettuale e civile, nel mondo. In questa straordinaria autobiografia, Russell torna sulla sua difficile infanzia trascorsa in un ambiente vittoriano intriso di ipocrisia e tabù, ricorda l’esaltante scoperta della filosofia e della matematica e rievoca la sua inesauribile battaglia pacifi sta, che a più riprese lo portò a scontrarsi contro il potere, al punto da finire in carcere.
Bertrand Russell (Trellech 1872 – Penrhyndeudraeth 1970) è stato una delle figure più importanti del XX secolo in virtù della sua straordinaria capacità di accostare la riflessione filosofica alle discipline scientifiche, in particolare alla logica e alla matematica. Nel 1950 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Di Russell, Mimesis ha pubblicato Sintesi filosofica (2018).
Intorno agli anni Quaranta del Novecento, grazie agli studi del filosofo americano Arthur Oncken Lovejoy, nasce negli Stati Uniti la storia delle idee come disciplina autonoma, distinta dalla storia della filosofia e incentrata sul concetto di processo ed elaborazione inteso come continua mutazione. Proprio i testi di Lovejoy costituiscono il punto di partenza della riflessione di Jacques Le Goff che, con la chiarezza del divulgatore e una scrittura seducente, ripercorre tutti i passaggi che hanno caratterizzato l'accoglienza della disciplina in Europa e le sue conseguenze nell'elaborazione sociale e politica. La sua indagine dimostra come l'uomo attraverso la storia delle idee abbia saputo trovare una via d'uscita dai vincoli della storia, su cui è ancora possibile in qualche modo influire grazie alla consapevolezza politica e alla conseguente azione. Con un saggio di Francesco Mores.
A un anno dalla sua scomparsa, proponiamo uno degli ultimi lavori di Emanuele Severino, dedicato allo sviluppo della scienza e della filosofia nel XX secolo. La scienza oggi intende essere la forma autentica del sapere umano e quindi la pietra di paragone cui debbono commisurarsi tutte le altre forme di conoscenza e innanzitutto la filosofia. Benché la scienza si presenti come la guida più affidabile nelle decisioni che l'uomo deve prendere e come lo strumento più efficace per risolvere i problemi sempre più complessi della vita, la sua concezione come sapere esatto, certo e dimostrabile è decaduta da tempo. Essa non è epistème ma dòxa: funziona ed è indispensabile, ma non ci dice nulla circa la verità e della nostra relazione col senso ultimo dell'essere che la filosofia può ancora avere un futuro.
Emanuele Severino (1929-2020) è annoverato tra i più importanti pensatori italiani del '900 e da molti considerato come uno dei più grandi filosofi della nostra epoca. Laureatosi a Pavia con una tesi su "Heidegger e la metafisica" nel 1948, soltanto due anni pi+ tardi ottenne la libera docenza. Nel 1954 fu chiamato a insegnare all'Università Cattolica di Milano, dove nel 1962 divenne ordinario della cattedra di Filosofia morale. Dal 1970 al 2001 è stato professore ordinario di Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Venezia, divenendone poi professore emerito, e a partire dal 2002 ha collaborato con la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, tenendo il corso di "ontologia fondamentale". E' scomparso il 17 gennaio del 2020 a Brescia, la stessa città in cui era nato.
L’obiettivo di fondo del pensiero di Santayana è d’integrare la bellezza e l’arte, così come ogni altra attività umana, con la vita, restituendo ad esse la forte vitalità da cui sorgono. Secondo quest’approccio vitalistico quindi il problema estetico non è un problema isolato, ma viene colto nella sua relazione essenziale con l’unità vitale dell’universo naturale e con l’unità fondamentale della coscienza umana.
George Santayana – studioso di origine spagnola, nato a Madrid nel 1863, ma formatosi ed operante negli Stati Uniti, per ritornare infine in Europa, e vivere soprattutto a Roma dove morì nel 1952 – è autore di una vastissima produzione in lingua inglese poco conosciuta nel nostro paese. Eppure, accanto a quella di John Dewey, la sua riflessione rappresenta una delle elaborazioni più significative della filosofia americana. E la sua opera fondamentale, Il senso della Bellezza (1896), è divenuto un classico dell’estetica contemporanea. L’obiettivo di fondo del pensiero di Santayana è d’integrare la bellezza e l’arte, così come ogni altra attività umana, con la vita, restituendo ad esse la forte vitalità da cui sorgono. Secondo quest’approccio vitalistico quindi il problema estetico non è un problema isolato, ma viene colto nella sua relazione essenziale con l’unità vitale dell’universo naturale e con l’unità fondamentale della coscienza umana. La concezione estetica di Santayana, proprio in quanto privilegia la centralità della bellezza come esperienza vitale e si volge ad indagare il modo in cui noi la percepiamo ed il significato che ad essa attribuiamo, che cerca nella natura e nell’esperienza, ossia nell’uomo e nell’universo antropologico le fonti, i materiali e le forme della bellezza e dell’arte, per marcare l’accento sulle dimensioni del sentire e dell’agire, costituisce dunque una proposta di grande originalità e in stimolante sintonia con la ricerca odierna. Così Il senso della Bellezza mantiene immutato il fascino di un classico, ed è difficile rimanere insensibili alla singolare lucidità della teoria del bello di Santayana, all’accattivante raffinatezza delle sue argomentazioni. Correda il testo, qui presentato per la prima volta il lingua italiana con la puntuale cura di Giuseppe Patella, un ampio apparato esegetico, critico e bibliografico.
«Il difficile non è concepire l'immortalità, ma la morte»: così, in un quadernetto di appunti risalenti agli anni 1909-1910, mai consegnato alle stampe, Gentile annotava il suo turbamento circa quelle che possono essere annoverate tra le questioni più decisive dell'attualismo. Decisive non tanto perché particolarmente ricorrenti - la prima trattazione sistematica dedicata al tema della morte e dell'immortalità non vedrà la luce che nel 1916 -, bensì per il carattere profondamente controverso che le contraddistingue. Ed è proprio per la «difficoltà e astruseria di questo problema», come lo definisce nel 1920, che il filosofo vi si impegnò, privatamente, più di quanto non si potrebbe forse presagire considerando esclusivamente i suoi scritti editi. Alla serie di appunti volti a perlustrare i concetti di morte e immortalità si è ritenuto opportuno affiancarne, inoltre, degli altri che, concernenti il valore dell'"individuo", la natura del "carattere", o, ancora, il "concetto di filosofia definitiva", occorrono ad approfondire, secondo un altro rispetto, il senso della medesima inquietudine speculativa. La pubblicazione di questo tomo, pertanto, si propone di consegnare al lettore un ulteriore strumento ermeneutico, che, collaterale ma non secondario, consenta l'accesso ad uno dei temi più incisivi nello sviluppo dell'attualismo: la meditatio mortis.
Pubblicata nel 1788, è la seconda opera critica di Kant e la seconda opera di etica dopo la Fondazione della metafisica dei costumi del 1785. Fin dalla prefazione Kant ritiene di dover giustificare il titolo dell'opera, preoccupandosi di spiegare perché abbia scelto di intitolarla Critica della ragion pratica. Ciò che Kant ritiene di dover giustificare non è l'uso del termine "critica", ma è la parte del titolo che specifica l'oggetto dell'esame critico: sarebbe infatti naturale attendersi che esso fosse stabilito in parallelo a quello della prima Critica. Se quest'ultima si era concentrata sulla ragion pura teoretica, è lecito aspettarsi che a essere ora sottoposta ad esame sia la ragion pura nel suo uso pratico, e che pertanto l'opera si intitoli Critica della raion pura pratica. Invece nel determinare la scelta del titolo prevale il riconoscimento che in ambito pratico s'impone un'inversione del compito critico tanto al suo versante negativo. Mentre infatti in sede teoretica il lavoro critico era pervenuto a negare le pretese della ragion pura di varcare i limiti dell'esperienza, in sede pratica il lavoro critico contesta alla ragion pratica empiricamente condizionata la pretesa di essere la sola a dirigere la nostra condotta.