Grande è il bisogno di ricominciare. Nelle nostre vite, nella Chiesa, e nel mondo. Una pesante cappa di apatia grava infatti nei cuori, colmandoci di amarezza, di impotenza, e di disperazione. Ma per ricominciare, per ridare slancio ai nostri progetti, abbiamo bisogno di pensieri nuovi, di parole vive, abbiamo bisogno di ridare vita alle parole più antiche, di rianimarle. Questo libro tenta di riaccendere la luce di 12 parole su cui fondiamo la nostra esistenza terrena. Tenta di far emergere dal loro ascolto la freschezza della nuova umanità che sta fiorendo dentro questa notte planetaria. Perché è proprio così: una nascita è il senso di tutto questo declino: impariamo a sentirne l'avvento.
Il cuore della vita della Chiesa: parola e ascolto.
Chiesa, dove vai? Viene da lontano, la crisi che sta attraversando il pontificato di Benedetto XVI. Lo scandalo dei preti pedofili e i tanti cristiani che "abbandonano" la Chiesa non sono emergenze dell'oggi. È una crisi spirituale, per lo scadimento della vita di fede e della morale. Una crisi istituzionale, che chiama in causa episcopati e Curia romana. Una crisi nei rapporti con la modernità, con la cultura laica. Tuttavia, oltre a essere un atto d'accusa e di indignazione, questo pamphlet è anche un atto d'amore verso la Chiesa di un cristiano che, come tanti credenti e non, si augura l'inizio di una grande riforma e un ritorno a quella rivoluzione, lasciata a metà, del Concilio Vaticano II.
Dai vangeli ai padri della chiesa, dalle lettere di Paolo alle Confessioni di Agostino, dagli eremiti del Vicino Oriente all'eresia ariana, da Anselmo alla scuola francescana del XIII secolo, fino a Tommaso d'Aquino e ai suoi avversari - Duns Scoto e Occam -, dalla Riforma luterana e calvinista al Vaticano II e fino a Joseph Ratzinger: in questo libro vengono presentate e analizzate le scuole di pensiero, le dottrine, le correnti (talvolta contrapposte) della teologia cristiana. La sfida, per gli ideatori del volume, era quella di presentare una storia niente affatto breve in poche pagine e sintetizzare dibattiti complessi in poche parole chiave. Quest'opera si rivolge a coloro per i quali la teologia resta una sconosciuta, una questione da credenti, il recinto degli eruditi.
"L'immagine biblica dell'arca è il filo rosso scelto da Jean-Louis Chrétien per offrirci una ricca e articolata analisi del fenomeno della parola umana. Come l'arca costruita dal patriarca Noè accolse (...) uomini e animali al tempo del diluvio, così avviene con la parola (...). Con la parola, come in un'arca, noi possiamo accogliere cose, uomini e animali, riconoscendoli nella loro natura e facendoci carico della loro custodia e manifestazione. Ma (...) anche noi siamo da sempre ospitati dalla trama delle parole che ci sono state rivolte e in cui ci troviamo a vivere (...). Quest'opera ci presenta una fenomenologia della parola umana in se stessa compiuta, una nuova e felice sintesi di grande capacità 'rivelativa', che ci aiuta a meglio 'vedere' e 'sperimentare' quel fenomeno della parola, di ricchezza inesauribile, in cui viviamo e di cui viviamo." (Dalla Prefazione di Giovanni Ferretti.)
Per il catechismo significa soprattutto non nominare il nome di Dio senza rispetto e non bestemmiare. In realtà, nella sua formulazione più autentica, il comandamento biblico vieta di servirsi del nome del Signore per coprire ogni forma di ingiustizia: dal giurare il falso alle giustificazioni dell'oppressione, alle guerre sedicenti giuste. In un non lontano passato gli Stati moderni hanno definito giuste le loro guerre trovandone la legittimazione anche in simboli religiosi; e ancor oggi, in età globale, il connubio tra Dio e violenza resta più che mai all'ordine del giorno. Il nome di Dio continua perciò a dirsi in molti modi carichi di ambiguità, mentre la sua santificazione - prospettata nel "Padre Nostro" - dovrebbe essere uno spazio di libertà e rifrangersi nella costruzione di relazioni umane pacificate.
L'ottava parola del decalogo proclamata in Es 20, 16 (e in Dt 5, 20), secondo quella che ne appare la più adeguata traduzione dall'ebraico, vieta, propriamente, non di pronunciare falsa testimonianza, ma di rispondere come testimone di menzogna. Il senso autentico del precetto biblico, pur calato nel suo peculiare contesto giudiziario dischiude una "idea" di verità di tipo non teoretico-metafisico bensì pratico-sapienziale e storico-esistenziale, che intuisce nella dimensione relazionale della domanda e della risposta - ovvero nell'abisso della dia-logia e dell'alterità - l'essenza originaria e irrelativa della libertà, in cui menzogna e verità (a dispetto di accomodanti semplificazioni manicheistiche) si danno assieme, in un moto dialettico e contestuale di velamento e dis-velamento. Rispondere come testimone di menzogna non è solo violazione di una regola giuridica e di un comandamento, ma anche radicale contraddizione del vincolo di affidamento "credente" che informa tutta la Torah di cui JHWH, per primo, è testimone verace. La testimonianza fedele finisce sorprendentemente con il rivelarsi il luogo ove accade un atto di cura e di responsabilità verso il prossimo, che non è cosa diversa dall'amore.
L'autore propone una lettura che mette in luce i parallelismi tra il mondo della teologia, quello della fantasia e quello reale, evidenziando molte questioni chiave della vita umana e della fede cristiana.
Un comandamento contraddetto da millenni di storia poiché oggi come un tempo regna la convinzione che in determinate circostanze uccidere sia giusto e necessario. L'omicidio è una costante antropologica dello spirito umano, un marchio sanguinario della specie: Caino inaugura biblicamente la storia assassinando Abele. Ma cosa Caino uccide in Abele? L'individuo-persona, la discendenza secondo la concezione ebraica, la sacralità della vita secondo il cristianesimo, la "nuda vita" dello sterminio, quella considerata mero funzionamento biologico nelle attuali discussioni sul fine-vita? In queste domande sono i nodi di un comandamento su cui si scontrano oggi ragioni biopolitiche, teologiche e scientifiche. È possibile restituire uno statuto assoluto alla proibizione dell'omicidio?
L'interdetto di questo comandamento nella cultura biblica non vieta la produzione d'immagini, ma il loro uso improprio, la loro elevazione a divinità. Non si possono adorare altri dei e non si può adorare Dio al modo degli altri, ossia rendendolo immagine-feticcio. Non solo: le storiche dispute religiose in ambito cristiano su questo divieto hanno investito anche il tema della differenza fra l'autentico sacramento della presenza divina e il segno magico o superstizioso, come l'amuleto e il feticcio. Oggi il problema dell'idolatria non si è esaurito, ha solo trovato la sua metamorfosi banale nella proliferazione di nuove icone e idoli di massa prodotti dai media. Come distinguere ancora l'incanto dell'immagine sacra e artistica dalla perversione del feticcio?
Per gli uomini d’oggi spesso inviluppati nell’esasperata strumentalizzazione di una serietà insensata o nell’insensatezza di una mondanità asfittica, la libertà del gioco è una necessità redentrice. La gaia libertà dello spirito, lo slancio estroso e insieme altruistico, il disinganno rasserenato, l’incedere leggero che non s’impantana in un mondo spesso tragico sono i tratti dell’homo vere ludens. Per il cattolico, chiesa e grazia e azione liturgica sono preludio di quella libera serenità che brillerà nell’eterno gioco della visione divina.