Il Novecento in Italia è stato un secolo imprevedibile e drammatico come i passi di una sonnambula, sempre sul filo di cadute rovinose, risvegli improvvisi e svolte impreviste. Un racconto originale e appassionante di una storia nella quale tutti noi siamo i protagonisti.
L’Italia nel Novecento ha spesso camminato come una sonnambula, inconsapevole dei rischi e delle difficoltà a cui andava incontro. Salvo risvegliarsi all’improvviso sull’orlo del precipizio o mentre cadeva. Così anche chi voglia farne il ritratto si trova a inseguire un’ombra sfuggente, affascinante e difficile da definire. Così abbiamo l’Italia di Cadorna a Caporetto che si desta sulla linea del Piave, l’Italia sonnambula sotto il balcone del duce che si sveglia mentre passeggia sui tetti delle città bombardate; l’Italia narcotizzata dalla corruzione che apre gli occhi con l’inchiesta Mani pulite, l’Italia illusa dall’idea di un progresso inarrestabile e di un benessere inattaccabile che si risveglia di soprassalto con la recessione del 2009. E allora, forse, l’unico modo che abbiamo per conoscere e comprendere meglio questa sonnambula è quello di realizzare un grande affresco. Un dipinto, capace di tenere assieme il passo del narratore con l’accuratezza dello storico, in cui i temi più consueti sono affiancati ai grandi avvenimenti culturali e ai risultati più recenti della storia sociale. Ad animare e a ravvivare il racconto troviamo poi i ritratti dei grandi protagonisti, realizzati con la convinzione che una storia d’Italia non possa essere che una storia degli italiani. Un libro destinato a tutti coloro che vogliono riscoprire la storia recente del nostro paese attraverso un punto di vista non convenzionale.
Una piccola storia ignobile della giustizia italiana, subito cancellata e rimossa. La prova generale della strategia della tensione. A cinquant’anni dai fatti, un libro-inchiesta, degno erede dei lavori di Corrado Stajano e di Camilla Cederna, rivela le verità nascoste di uno dei momenti chiave della storia repubblicana.
Milano, 25 aprile 1969: due ordigni scoppiano alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni della Stazione centrale, provocando una ventina di feriti. È il primo atto della campagna di attentati che pochi mesi dopo porterà a Piazza Fontana. L’Ufficio politico della questura, fin dalle prime ore, punta verso gli anarchici. A condurre le indagini sono il commissario Luigi Calabresi e i suoi uomini, gli stessi che si troveranno nel suo ufficio la notte della morte di Giuseppe Pinelli, nome che nell’inchiesta spunterà di continuo, come quello di Pietro Valpreda, che già qui si profila come futuro capro espiatorio. Nel giro di pochi giorni vengono arrestati tre giovani (e altrettanti nelle settimane successive) e una coppia di noti anarchici milanesi, amici dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, che pure verrà rinviato a giudizio assieme alla moglie. Due anni dopo, con un colpo di scena dietro l’altro, il processo chiarirà le dimensioni della macchinazione anti-anarchica innescata da quegli attentati. Una vicenda determinante per comprendere fino in fondo i misteri di Piazza Fontana. Un racconto serrato di una pagina nera per la giustizia italiana, da allora totalmente rimossa dalla memoria, che assume nuova luce grazie alla scoperta di documenti fin qui inediti.
La storia d’Italia è stata sempre immersa nella storia del mondo. Ma dalla fine della seconda guerra mondiale la sua storia è assolutamente incomprensibile se perdiamo di vista la dimensione internazionale e la analizziamo come una vicenda tutta interna. L’Italia ha saputo superare i traumi di una dittatura e di una disfatta proprio in quanto si è trovata a essere una frontiera della Guerra fredda. In vent’anni il paese è diventato uno dei più sviluppati al mondo e si è costituita una democrazia con una Costituzione molto avanzata. Negli anni ’60 e ’70 la strada delle riforme, del superamento degli squilibri interni e di una relativa autonomia nazionale incontrerà potenti ostacoli all’interno del paese e da parte delle potenze straniere. E verrà la stagione drammatica delle stragi e dei terrorismi. Il processo di globalizzazione successivo vede l’Italia restare ai margini della nuova fase storica. Mentre si assiste all’ascesa irresistibile delle potenze asiatiche e si completa la rivoluzione informatica e finanziaria, la Penisola affronta un trentennio di lungo declino economico e sociale e il conseguente deperimento delle pratiche democratiche. Sei lezioni che ci restituiscono una sintesi efficace della storia d’Italia. La testimonianza militante di un grande intellettuale sull’importanza della riflessione storica per comprendere il presente e restituire prospettiva al futuro.
Indimenticabile in "Vacanze romane", icona di stile in "Colazione da Tiffany" e "Sabrina", Audrey Hepburn è una delle star del cinema più amate. Della sua vita, dei suoi film e del suo impegno come ambasciatrice dell'UNICEF, giornali e rotocalchi hanno raccontato molto, dando l'idea che, nonostante la sua estrema riservatezza, di lei non ci fosse più nulla da scoprire. Ma così non è. Figlia di una baronessa olandese e di un sedicente conte inglese, dopo alcuni anni in Inghilterra, la giovane Audrey si trova in Olanda proprio negli anni dell'occupazione tedesca. Sarà l'uccisione da parte dei nazisti dell'amato zio Otto, unica figura maschile di riferimento dal momento che il padre viveva in Inghilterra dopo la separazione dalla moglie, ad avvicinare la ragazzina alla Resistenza. Mettendo a rischio la propria vita, Audrey comincia a consegnare cibo ai soldati britannici, a fare da staffetta per le informazioni e i giornali clandestini, a danzare per raccogliere fondi per i gruppi di resistenti nelle Serate nere, così chiamate perché le finestre venivano oscurate. Di questo impegno, Audrey parlò pochissimo e con vaghe allusioni. Né amava parlare della fame e degli stenti che aveva dovuto sopportare in quegli anni, la "dieta di guerra" la chiamava, e che ne avevano segnato la salute e il fisico. Con tenacia da investigatore e accuratezza da storico, Robert Matzen ha ricostruito gli eventi di quegli anni, perlustrando archivi, confrontando documenti - tra cui il diario dello zio Otto - e facendo rivivere una Audrey Hepburn segreta e inedita, dal coraggio e dalla generosità infiniti.
Il volume racconta la storia dell’omosessualità nell’Occidente cristiano dalla tarda antichità al Settecento. Utilizzando quale punto di osservazione le fonti criminali, vi si ricostruisce una storia sociale e culturale delle trasgressioni sessuali e di genere, incentrandosi, al di là del mondo delle élites, sulla vita e l’esperienza quotidiana di donne e uomini comuni. Questa narrazione si intreccia con gli sviluppi del controllo istituzionale e i suoi rapporti di conflitto e mediazione con una base sociale non sempre docile ad accoglierne i dettami. Alla luce del percorso di ricerca dell’autore e dell’apporto di nuove correnti storiografiche, come la storia delle emozioni, il libro focalizza alcuni snodi critici del dibattito storiografico, sui quali propone di gettare una nuova luce. Ne risulta ridimensionato il ruolo giocato dai rapporti pederastici nelle manifestazioni dell’omosessualità premoderna; omosessualità maschile e femminile sono presentate in una narrazione intrecciata; il tema del desiderio è letto nelle sue complesse relazioni con l’infrazione delle norme di genere; infine, la dimensione globale e i rapporti con le culture extraeuropee giocano un ruolo centrale nella ricostruzione storica. Tutto questo in una prosa piana e leggibile, che mira a rendere l’opera fruibile anche per un lettore non specialistico.
Antico sogno dell'uomo, nel dopoguerra la conquista della Luna divenne un obiettivo di interesse strategico e propagandistico per ciascuno dei due blocchi di qua e di là dalla Cortina di ferro: ultimo gradino d'una scalata allo spazio poggiata sull'esperienza degli scienziati nazisti e motivata dalle nuove esigenze militari. Grazie al genio di Sergej Korolëv i sovietici vinsero tutte le tappe di un'eroica epopea, ma sul traguardo dovettero arrendersi alla sorte e alla maggiore potenza degli americani.
Arcaica e stracciona, dedita alla sopraffazione e al sopruso, la Picciotteria calabrese di fine Ottocento sembrava destinata a rimanere ancorata ai miti, ai riti e ai codici di comportamento nati nelle carceri borboniche sul calco di quelli delle società segrete risorgimentali. E invece, proprio allora, inizia una rivoluzione silenziosa che trasformerà il suo volto rurale in quello imprenditoriale della 'ndrangheta odierna, spregiudicata e spietata multinazionale del crimine, capace di adeguarsi alle mutevoli sfide del mercato globale. A innescare questa metamorfosi a cavallo dei due secoli è la «scoperta» dell'America. Sbarcati nel Nuovo Mondo insieme a decine di migliaia di onesti braccianti, i «maffiosi» calabresi, a differenza dei meno accorti confratelli siciliani e campani, scelgono il basso profilo per ricostituire la loro rete malavitosa, fatta di capi, gregari e leggende (su tutte, quella del «brigante» Musolino), che lucra lauti profitti sulla pelle dei lavoratori italiani (come i minatori di Carbondale, in Pennsylvania) e di centinaia di giovani immigrate indotte a prostituirsi nei resort di Manhattan e di Chicago, prima di reggere le fila del commercio clandestino di alcolici e del narcotraffico. Nasce così la 'ndrangheta imprenditrice d'oltreoceano, che stringe mani, stipula accordi e riesce a infiltrarsi nel sancta sanctorum delle élite sociali, a partire da Tammany Hall, potente macchina elettorale del Partito democratico nonché padrona incontrastata di New York, con la quale instaura un rapporto di mutua assistenza: voti in cambio di protezione e favori. Fino a proiettare pesantemente la sua ombra sulla scena del delitto Petrosino. Una volta tornati in Calabria, saranno gli «americani» a imporre all'organizzazione la nuova strategia criminale (controllo del territorio e collusione con politica e istituzioni), avviando quel processo che, in pochi decenni, farà della 'ndrangheta una delle mafie più potenti e pervasive al mondo. Dopo un lungo lavoro di ricerca condotto su una vastissima mole di documenti, in gran parte inediti, Antonio Nicaso, Maria Barillà e Vittorio Amaddeo ricostruiscono la storia di questa mutazione criminale della 'ndrangheta in terra americana. Prefazione di Nicola Gratteri.
Nel 1929 la politica di collettivizzazione agricola forzata promossa da Stalin costrinse milioni di contadini russi a consegnare allo Stato bestiame, attrezzi e ogni scorta alimentare fino all'ultimo chicco di grano. È l'inizio di una catastrofica carestia, la più letale nella storia d'Europa, che causò, tra il 1931 e 1933, oltre 5 milioni di vittime, in gran parte nella Repubblica socialista sovietica di Ucraina, una delle più popolose dell'URSS. Un vero e proprio «sterminio per fame» (in ucraino, «Holodomor»), frutto della criminale operazione architettata dal governo di Mosca e attuata con particolare ferocia nel «granaio d'Europa»: la proprietà collettiva era infatti uno dei pilastri del marxismo-leninismo professato dal Partito comunista sovietico e la campagna doveva fornire ogni possibile risorsa alla crescita delle città e dell'apparato industriale e militare del Paese. Dell'erronea valutazione del limite invalicabile oltre il quale il contributo delle campagne si sarebbe capovolto in un'immane strage di vite umane, Anne Applebaum incolpa l'arbitro assoluto di ogni decisione, Stalin, sordo alle suppliche dei dirigenti comunisti ucraini e ai circostanziati rapporti della polizia segreta che lo informavano della situazione sempre più critica della popolazione. E spiega l'accanimento contro il popolo ucraino e la rancorosa rivalsa nei confronti di coloro che, durante la guerra civile degli anni 1918-1920, avevano avanzato pretese d'indipendenza proclamando l'effimera Repubblica nazionale ucraina, fautrice di una rinascita culturale e linguistica autoctona, tornata minacciosamente in auge nei primi anni Trenta in quella terra da sempre contesa. Di questa tragedia, occultata per decenni in Unione Sovietica e sepolta altrove sotto una cortina di silenzio, Anne Applebaum offre una ricostruzione vivida e impressionante, rigorosamente basata su documenti governativi desecretati e testimonianze inedite dei sopravvissuti. Una crudele verità storica in cui sono visibili sottotraccia le radici dell'odierno conflitto armato che oppone l'Ucraina, in cerca della propria identità di nazione, e la Russia; e dietro cui trapelano, nell'atteggiamento dei «nuovi zar» del Cremlino di allora e di oggi, gli inquietanti sintomi di una comune volontà genocidaria.
Agli inizi del VI secolo, le popolazioni dell'Europa occidentale erano tormentate delle invasioni barbariche e i sovrani dell'impero romano d'Oriente attratti dall'opulenza e dal lusso: il patrimonio scientifico classico ed ellenistico sembrava in pericolo. Delle opere di Tolomeo, Euclide e Galeno erano sopravvissute solo poche copie, sparse tra Egitto, Siria, Anatolia e Grecia. Eppure, in un viaggio lungo un millennio, quei testi di astronomia, matematica e medicina, letti, tradotti e copiati nei centri di cultura medievali, riuscirono a sopravvivere e ad alimentare la rivoluzione scientifica moderna. È intorno a sette grandi città, crocevia di popoli, religioni e lingue attraverso i secoli, che ruota la ricostruzione della storica inglese Violet Moller alla ricerca delle tracce lasciate dagli intellettuali che hanno tramandato gli studi di questi celebri autori. Come Galeno di Pergamo, chiamato a Roma dall'imperatore per esercitare la professione di medico di corte dopo essersi formato a Smirne, Corinto e Alessandria d'Egitto, proprio dove Euclide compose gli Elementi e Tolomeo l'Almagesto. Quando la città sede della più ricca biblioteca dell'antichità andò in rovina, la sua eredità culturale trovò dimora nel mondo islamico: a Baghdad, grazie al mecenatismo del califfato, la ricerca matematica, amalgamando le conoscenze tradizionali alle rivoluzionarie scoperte indiane, lo zero e l'idea di infinito, raggiunse vette inaspettate. Giunta in Europa per fuggire alle persecuzioni degli Abbasidi, la dinastia omayyade portò l'eccellenza araba a Cordova, favorendo così il confronto tra studiosi ebrei, cristiani e musulmani e il perfezionamento di molte teorie scientifiche. Queste risalirono poi la penisola iberica fino a Toledo divenuta, con la Reconquista, la porta di accesso alla cristianità, che aveva preservato il sapere antico nei monasteri, tra i quali spiccava Montecassino. Toccò quindi all'Italia meridionale: a Salerno, Costantino l'Africano introdusse i testi di Galeno, che resero la scuola medica cittadina all'avanguardia nel campo della fisiologia e della farmacologia; a Palermo, maestosa capitale normanna, le opere furono tradotte direttamente dal greco al latino. Infine, il viaggio si conclude a Venezia, dove nella seconda metà del XV secolo le prime tipografie diedero alle stampe i manoscritti di quell'antica conoscenza, che, all'alba del Rinascimento, ha raggiunto le biblioteche disseminate in ogni angolo d'Europa per arrivare fino a noi. "La mappa dei libri perduti" è una storia delle idee e degli uomini che le hanno studiate, copiate, tradotte e diffuse, ma anche un invito a ritrovare i legami profondi tra il mondo islamico e quello cristiano, il cui incontro ha dato vita a un patrimonio intellettuale davvero universale.
Agli occhi del lettore contemporaneo la storia del Ducato di Milano che fa seguito alla morte di Francesco Sforza risulta piena di avventure, lotte di potere, intrighi e misteri, e proprio per questo straordinariamente avvincente. Ce lo ricorda Carlo Maria Lomartire in questo secondo volume della sua trilogia dedicata a una delle più potenti dinastie del Rinascimento italiano. Se infatti è noto e acclarato che Galeazzo Maria, primogenito e successore di Francesco, rimase vittima di una congiura tanto da essere assassinato sul sagrato della basilica milanese di Santo Stefano, il macabro sospetto che suo figlio Gian Galeazzo Maria, legittimo erede, fosse morto avvelenato continuò a circolare per lungo tempo, dentro e fuori la corte milanese. Gettando un'ombra sul personaggio più spregiudicato e cinico della famiglia, Ludovico Sforza, detto «Il Moro» per la carnagione olivastra, la capigliatura corvina, gli occhi neri e fiammeggianti. Uomo di intelligenza sfolgorante, dotato di una sottile sensibilità politica e animato da un'ambizione insaziabile, Ludovico riuscì a fare di Milano oltre che una delle città più ricche, vivaci e ammirate d'Europa, un'invidiata capitale della creatività e della cultura. Fu proprio negli anni della sua reggenza che Milano accolse - insieme al Bramante e a tanti altri artisti, poeti e letterati - il genio di Leonardo da Vinci. Qui il pittore toscano attese ad alcune delle sue opere più celebri: dalla "Dama con l'ermellino" (che altro non era che il ritratto della bella e sensuale Lucia Gallerani, amante del Moro), all'"Ultima cena", dalle costruzioni di macchine militari alla realizzazione del sistema di irrigazione dei Navigli, fino al progetto, rimasto incompiuto, di un colossale monumento equestre in onore del capostipite Francesco Sforza (il famoso "Cavallo di Leonardo"). Sullo sfondo, intrecciata a elementi narrativi che permettono al lettore di cogliere tutte le coloriture psicologiche dei protagonisti dell'epopea sforzesca, gli avvenimenti più importanti, rigorosamente documentati, che attraversano l'Italia del XV secolo: dalla congiura fiorentina dei Pazzi alla battaglia di Fornovo, dall'elezione di papa Giulio II alla discesa di Carlo VIII di Francia. Grazie a una descrizione dei fatti puntuale e scrupolosa, ricca di dettagli e notizie, il libro di Lomartire ci guida alla comprensione di un'epoca irripetibile della nostra storia, dentro la quale si possono rintracciare, insieme ai pregi e ai difetti del carattere italiano, le radici delle fortune e delle virtù della Milano d'oggi.
Il 5 agosto 1943, a pochi giorni dall'arresto di Mussolini, i giornali pubblicano una notizia sensazionale: il governo Badoglio ha istituito una commissione con il compito d'indagare sulle fortune accumulate dai gerarchi nel corso del ventennio, i cosiddetti illeciti arricchimenti del fascismo. Il duce e i capi del regime, un tempo intoccabili, finiscono in prima pagina, dati in pasto a un'opinione pubblica che fino al giorno prima li aveva temuti, odiati, riveriti, spesso invidiati. Chi sono e quanto hanno «rubato»? E lo Stato è voluto veramente andare fino in fondo o ha chiuso un occhio, consentendo ai più di farla franca? Infine, quanto è tornato nelle tasche degli italiani? Quello che l'inchiesta scoperchia è un autentico verminaio. Una storia di corruzione e concussione, di tangenti e appalti, di capitali che trovano riparo all'estero, di raccomandazioni; un intreccio perverso tra politica e affari alla faccia del rigore e dell'onestà tanto proclamati dalla propaganda fascista. È una storia anche grottesca, fatta di fughe rocambolesche, di rotoli di banconote nascosti nell'acqua degli sciacquoni, di tesori sotterrati in giardino; e verbali di sequestro così scrupolosi da non crederci: favolosi patrimoni in ville e palazzi, pellicce, arazzi, gioielli, fino al numero di posate in argento, all'ultima pantofola, calza e mutanda del gerarca inquisito. Alla ribalta salgono nomi eccellenti: si scopre per esempio che Alessandro Pavolini, ministro del Minculpop, gran signore del cinema di regime, è pronto a tutto, anche a cambiare le leggi, pur di far felice l'amante, l'attrice e icona sexy Doris Duranti; che l'integerrimo Roberto Farinacci, l'ideologo della purezza fascista, ha accumulato un patrimonio di centinaia di milioni, niente male per un ex ferroviere diventato avvocato copiando la tesi di laurea; o, ancora, che Edmondo Rossoni, ex leader sindacale - «la migliore forchetta del regime» e non solo perché usa pasteggiare con posate d'oro - si è costruito nel Ferrarese un vero e proprio impero immobiliare. C'è poi Mussolini e i suoi «affari di famiglia», con gli intrallazzi di Galeazzo ed Edda Ciano, l'avidità di donna Rachele e la rapacità del clan Petacci. Mauro Canali e Clemente Volpini forniscono con documenti una radiografia del malaffare in camicia nera, facendo i «conti in tasca» ai vertici della nomenclatura fascista.
Per la conoscenza storica le vite dei lavoratori della terra sono rimaste nell’ombra. In assenza di testimonianze dirette bisogna rifarsi ai medici condotti, obbligati a vivere tra i contadini per occuparsi della loro salute. L’obbiettivo della medicina ufficiale fu quello di risanare l’ambiente di lavoro e di vita della collettività attraverso il controllo dei fondamentali parametri dell’igiene: aria, acqua, suolo. Ciò obbligò i medici a studiare le condizioni di vita dei contadini. Impegnati nella lotta contro le malattie epidemiche e la mortalità infantile, i medici condotti denunziarono le condizioni di vita dei contadini, in numerose inchieste e statistiche realizzate dai regimi napoleonici, dall’Austria e poi, sistematicamente, dallo Stato italiano. E furono materia delle topografie sanitarie dedicate ai comuni dove operavano. Emerge qui sempre piú netta la barriera sociale che divide la cultura ufficiale dal mondo contadino: l’igiene. La sporcizia appare come il segno ineliminabile di un mondo a parte, tanto da raggiungere talvolta gli estremi del razzismo.
Quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra nelle campagne italiane dell’Ottocento? Pierre Bourdieu ha coniato per i contadini la definizione di «classe oggetto», che inevitabilmente si affaccia in questo libro. Essa esprime la loro subalternità nella storia europea dei secoli scorsi: individui rappresentati da altri, oggetto di commiserazione o paura per ribadirne la condizione subalterna. Quella classe fu cancellata dalla cultura dominante anche perché priva dei mezzi per farsi conoscere. Nel secolo XIX inchieste, statistiche e topografie sanitarie misero davanti all’opinione pubblica rappresentazioni della realtà contadina che aprirono un conflitto interno agli schieramenti politici. Tornare sui contadini dell’Ottocento costringe a varcare un tempo tanto breve nel computo delle generazioni quanto remotissimo nelle rappresentazioni culturali. La vigente strutturazione del racconto storico misura la nostra distanza dal passato con la scansione delle epoche. Cosí l’età del Risorgimento si è guadagnata una sua dimensione che l’allontana da noi. Eppure quel secolo XIX e quella storia dell’Italia di allora ci compaiono davanti come una presenza familiare se solo la misuriamo con le generazioni dei nostri personali antenati. Ma il tempo dei nostri bisavoli era davvero vicino al nostro? E quanto regge quell’articolazione scolastica del disegno del passato che lo ha inserito nell’epoca che chiamiamo contemporanea? Questa è la domanda che ci accompagnerà nel viaggio attraverso le fonti ottocentesche di Un volgo disperso.