
Il 14 luglio 1938 veniva pubblicato su un quotidiano di Roma un manifesto firmato da alcuni scienziati; in esso si proclamava la necessità di un razzismo italiano e si definivano gli ebrei come non appartenenti alla razza italiana. Quel manifesto segna l'avvio ufficiale di una campagna antisemita che il regime fascista aveva in realtà cominciato a orchestrare da mesi e che di lì a poco troverà il suo sbocco nelle leggi razziali che sancirono la discriminazione e la persecuzione degli ebrei. Con grande chiarezza e vigore espositivo, questo libro racconta come e perché il fascismo arrivò all'antisemitismo di stato, come fu orchestrata la propaganda e come fu realizzata la persecuzione dal 1938 fino al tragico epilogo della deportazione a opera dei tedeschi. A differenza di altri storici, che hanno messo in luce piuttosto le lunghe radici dell'antisemitismo fascista, l'autrice sostiene la forte rottura costituita dalla politica antisemita e ne individua l'origine nella necessità del regime di tenere il paese in stato di mobilitazione permanente.
Il Giornale di guerra di Benito Mussolini, pubblicato a puntate sul Popolo d'Italia tra il dicembre 1915 e il febbraio 1917, è uno dei documenti più interessanti sul primo conflitto mondiale. Alla guerra Mussolini partecipò come bersagliere semplice, combattendo per un anno e mezzo, sino al suo ferimento, sui fronti dell'alto Isonzo, della Carnia e del Carso. Di quell'esperienza ha offerto una cronaca "a caldo" che riletta oggi aiuta a comprendere non solo la sua successiva avventura politica, ma anche e soprattutto le caratteristiche e le peculiarità di quel particolare e tragico evento bellico. Si tratta dunque di un diario che va letto senza alcun pregiudizio ideologico, ma come un prezioso documento storico. Al tempo stesso si tratta di una testimonianza personale che però riflette le esperienze all'epoca vissute da molti altri combattenti. Quest'edizione, curata dallo storico e politologo Alessandro Campi (autore anche di un lungo saggio introduttivo d'inquadramento), ripropone il Giornale di guerra del futuro capo del fascismo in una versione accuratamente annotata dal punto di vista storico-critico.
Cupole, obelischi, archi trionfali, ma anche piante e animali, dal mitico fico ruminale, sotto il quale approdò la cesta con Romolo e Remo, alle salamandre sulla facciata di San Luigi dei Francesi. Tutta Roma è una costellazione di simboli che attraversano tre millenni di storia, spesso celati in monumenti che sembrerebbero pure decorazioni: come la fontana delle Tartarughe che idealmente raffigura il motto coniato da Augusto, "Festina lente" ovvero "Affrettati lentamente", ispirato a una massima di Aristotele secondo la quale si deve rapidamente mettere in pratica ciò che si è deliberato, ma soltanto dopo aver riflettuto lentamente. Alfredo Cattabiani, studioso di simbolismo e di tradizioni popolari, ricostruisce in questo libro la mappa dei simboli fondamentali di Roma rivisitando anche i miti ad essi collegati, da quelli della fondazione della città fino alle leggende medievali. Ma non vi è mito senza mistero: come ad esempio quello della Lupa che allattò i gemelli o l'altro del nome segreto di Roma, mai svelato nonostante l'illusione di chi, come Giovanni Pascoli, credeva fosse Amore. L'autore, senza pretendere di sollevare il velo che li nasconde, tenta alcuni percorsi interpretativi per illuminarne alcuni aspetti. Sfilano così sulla scena personaggi antichi e moderni, divinità e santi, elefanti sapienti accanto a gatti enigmatici, una Befana che assume le sembianze della lunare Anna Perenna, e infine cardinali e gesuiti attenti ai fiumi carsici delle tradizioni romane.
Antichi culti misterici di chiara derivazione orientale, luoghi romani che richiamano princìpi esoterici indiani, tradizioni e filosofie "mistiche", fino alle singolari iscrizioni della "Porta magica" e alle oscure alchimie di Cagliostro. Ma è proprio vero che la storia di Roma inizia con Romolo e appartiene soltanto all'Occidente? Forse le radici della città vanno cercate anche nell'India magica, quella della religione dei Veda, culla dell'esoterismo, dalla quale, più di quattromila anni fa, un popolo emigrò verso ovest in cerca di nuove terre. Sempre dall'Oriente giunsero Roma, fanciulla troiana cantata dal poeta siculo-greco Stesicoro, ed Enea, immortalato da Virgilio. Seguendo il tracciato ben definito che collega Roma all'Oriente, questo libro rivela pagine dimenticate dalla storiografia, scandali erotico-religiosi soffocati nel sangue, culti asiatici che imponevano il principio della purezza spirituale attraverso l'evirazione, sepolture di uomini vivi come atto di espiazione; ma anche movimenti spirituali come il Pitagorismo, l'Orfismo e le religioni "misteriche" che spianarono la strada al Cristianesimo. Nel Medioevo Roma continuò a essere la "città dei miracoli" e nel Rinascimento pullulava non solo di artisti ma anche di alchimisti.
Dal 14 luglio 1789 fino alla caduta di Robespierre, la Francia vive cinque anni di sconvolgimenti che rifondano lo Stato e la società, fissano nuovi valori di riferimento, suscitano una straordinaria adesione. Se molto è stato scritto su questo evento fondatore, meno si è indagato sugli uomini che ne sono stati gli artefici: i rivoluzionari. Chi erano questi uomini comuni che si impegnarono in un percorso spesso senza ritorno? Quando si manifestò in loro la prima presa di coscienza di rivoluzionari? Quando ruppero i ponti psicologici con il passato e si proiettarono verso un futuro tutto da immaginare? Quali furono le modalità di adesione, i meccanismi di attrazione o di repulsione attivati dalla rivoluzione? E una volta entrati in questa dinamica, fu possibile uscirne? Analizzando gli elementi che contribuiscono a formare la complessa personalità del rivoluzionario, Haim Burstin offre una sequenza delle emozioni e delle aspettative suscitate da una rivoluzione in cammino e mostra come tali tensioni entrino in un particolare sistema di creazione del consenso e di affermazione di un’egemonia politica. Un approccio di tipo antropologico che consente di far nuova luce su una tempesta che ha trasformato il mondo.
Un’antica casa medioevale ormai degradata, un vasto cortile rinascimentale. È qui che il 16 ottobre del 1943 i nazisti arrestano più di trenta ebrei, un terzo dei suoi abitanti, tra i più poveri della Comunità. Sono per lo più vecchi, donne e bambini. Altri quattordici saranno catturati nei mesi successivi.
La storia che racconta Anna Foa in Portico d'Ottavia 13 è quella degli abitanti della Casa e dei nove mesi segnati per gli ebrei romani da oltre duemila deportazioni. Sono presi per strada, nel quartiere del vecchio ghetto da cui non si sono allontanati, nelle stesse case in cui sono tornati, nei negozi, perfino al bar. Li arrestano soprattutto i fascisti, le bande autonome dipendenti direttamente da Kappler mosse dall’avidità della taglia, guidate dalle delazioni delle spie. Tutto può accadere: sono l’avidità e la crudeltà la norma della spietata caccia all’uomo. Quando le spie indicano gli ebrei alle bande, un carrozzone si avvicina per far salire gli arrestati, liberarne alcuni, mandarne altri a morte, a seconda della convenienza e del capriccio. L’arbitrio era re nella Roma di quei mesi. Intorno, il caos più tremendo, nessuna forma di organizzazione, il vuoto, i bombardamenti, la fame, i rastrellamenti, le fosse Ardeatine. Il quartiere è il teatro di questa caccia infinita, un teatro che attira come una calamita i suoi abitanti e i cacciatori, che conoscono le loro prede e sanno come e dove trovarle.
La razzia
A destra della via del Portico d’Ottavia, lato est, vedo un milite delle SS tedesche. Sta piantato sulle gambe leggermente divaricate; solo un piccolo moto a dondolo da destra a sinistra, e da sinistra a destra, un moto pigro, tranquillo, la mano alla cinghia del fucile mitragliatore messo a tracolla. Due passi ancora. Altro milite SS immobile, armato
(Luciano Morpurgo, Caccia all'uomo. Vita sofferenze e beffe. Pagine di un diario 1938-1944. Dalmatia 1946, p. 107).
Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e copriva di un velo il buio della notte. Prima dell’alba i soldati tedeschi avevano sparato diffusamente intorno alle vie strette del vecchio ghetto: sparavano in aria, nel deserto del coprifuoco, senza scopo apparente, e questo rendeva ancor più inquietante il fragore dei loro spari. Qualcuno si era alzato ancor prima dell’alba, nella Casa e nelle case vicine. Era annunciato un rifornimento di sigarette, quella mattina, ed era meglio mettersi in coda presto dal tabaccaio dell’Isola Tiberina, là accanto. Erano tanti a fumare, allora, e le sigarette erano un bene raro e rassicurante.
Nella Casa, i due ampi porticati erano vuoti, non risuonavano ancora dei giochi dei bambini. Era festa, era sabato ma era anche l’ultimo giorno di Sukkot. Gli abitanti, stremati per essere rimasti a lungo svegli a causa degli spari, si concedevano un poco di sonno in più. Nella Casa e nelle case vicine, molti avrebbero lavorato come se non fosse giorno di festa, cercando di raccogliere qualche soldo per mangiare in quei tempi grami di guerra e di persecuzione. Più tardi alcuni sarebbero andati in sinagoga, non al Tempio grande, che era stato chiuso per precauzione dalla Comunità, ma al Tempio spagnolo, sotto al Tempio grande, dove le funzioni continuavano a tenersi regolarmente.
C’erano state grandi discussioni in Comunità, su questa decisione di tenere aperto per le funzioni almeno quel Tempio, e il rabbino Zolli, che voleva chiudere tutto, anche gli uffici della Comunità, si era nascosto da amici fidati, dopo aver esortato i fedeli a seguire il suo esempio. Non erano tempi, quelli, che gli ebrei si radunassero tutti insieme, neanche per pregare il Signore. Ma il presidente della Comunità aveva deciso altrimenti, accusando il rabbino di essere un vile e un allarmista. Eppure, dopo che il rabbino si era allontanato da casa, i tedeschi vi avevano fatto irruzione, sfondando la porta e crivellandola di colpi, senza trovare né lui né i suoi. Era stata quella la prima casa di ebrei in cui i nazisti erano andati, già ben prima della razzia, vicinissimo alla sinagoga, al numero 19 di via di San Bartolomeo dei Vaccinari.
La razzia cominciò poco prima delle cinque e trenta. Il quartiere del vecchio ghetto era circondato, c’erano pattuglie tedesche di guardia a tutte le vie di accesso, in via del Tempio, in via del Progresso, in via del Portico d’Ottavia, in piazza Costaguti, in via di Sant’Angelo in Pescheria, in piazza Mattei, di fronte al teatro di Marcello. Anche se forse, a giudicare da quanti sono riusciti a fuggire da via di Sant’Angelo in Pescheria, da quella parte la rete non dovette essere troppo stretta, probabilmente per mancanza di uomini.
Nella Casa, i nazisti non ebbero neanche il bisogno di sfondare il portoncino di legno, che era tutto sfasciato e restava sempre aperto. Entrarono nel cortile a passi pesanti e cominciarono a bussare alle porte col calcio del fucile, là al piano terra, dove si aprivano gli appartamenti e i magazzini. Poi, dal momento che nessuno andava loro ad aprire, sfondarono una porta a spallate, sempre gridando ordini nel vuoto. A quel punto, tutti gli abitanti della Casa erano svegli e tendevano un orecchio atterrito a quanto stava succedendo al piano terra.
Una donna che abitava al secondo piano, subito sopra la prima porta sfondata, Cesira Limentani, non perse altro tempo, prese la figlia di cinque anni, avvolse in una copertina il bambino più piccolo, che aveva solo sei mesi, e insieme ad alcuni dei suoi vicini saltò fuori dalla finestra, verso il retro. Il salto era basso, e riuscirono a fuggire, sottraendosi ai posti di blocco dei tedeschi. Più tardi, trovarono rifugio in un istituto religioso vicino al Gazometro. La donna non credeva davvero che avrebbero preso anche loro, le donne con le creature, ma non si era fermata troppo a pensare e, quando aveva sentito il fracasso della porta sfondata e gli ordini rauchi dei tedeschi, era scappata via subito, d’istinto, con i bambini. E questo salvò loro la vita.
Scrupolosamente, gradino dopo gradino, i nazisti salirono le larghe scale di marmo consunte della Casa, memoria di antichi splendori, fermandosi ad ogni porta senza tralasciarne nessuna. Questo dette ad alcuni degli abitanti il tempo di fuggire. La Casa era piena di anfratti e corridoi, che consentivano di scappare dal retro senza essere visti. Alcuni, pochi però, si erano già allontanati nei giorni precedenti. In tutto, quel giorno furono catturati nella Casa trentacinque ebrei. Molti altri abitanti della Casa, quattordici in tutto, furono presi nel corso dei mesi successivi e ben sei di loro furono assassinati alle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944. Per una sola casa, sia pur grande come quella, fra novanta e cento abitanti, non era certo poco.
Intanto, mentre i nazisti salivano le scale delle case lì intorno e bussavano perentori alle porte, tutti si erano svegliati. “All’improvviso la Piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni”, scrive Settimia Spizzichino, l’unica donna superstite della deportazione del 16 ottobre, allora una ragazza di ventidue anni che abitava con la famiglia subito lì dietro, a via della Reginella. Voci e grida risuonavano alte dalle finestre degli edifici, gli uni avvisavano i parenti o gli amici nella casa accanto di scappare. “Prendono gli ebrei, prendono tutti”, si gridava da ogni parte. Le donne si affacciavano alle finestre degli ultimi piani, mentre già i nazisti entravano nelle case sottostanti. Chi ci riusciva, prendeva le scale facendo finta di niente, come fece la famiglia Fatucci che abitava all’ultimo piano della Casa: dopo aver fatto fuggire i figli maschi dai tetti, i genitori di mezza età e le due figlie adolescenti scesero le scale senza voltarsi indietro. Si era ormai capito che i tedeschi non si limitavano ad arrestare gli uomini in età da lavoro, ma prendevano tutti, proprio tutti, dai vecchi ai neonati. Che cosa ne avrebbero fatto poi, nessuno lo sapeva. Come non sapevano che i tedeschi stavano facendo lo stesso in tutta Roma, che in quello stesso momento ogni edificio della città in cui abitavano ebrei risuonava delle stesse grida e degli stessi passi.
I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo. Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città, fra italiani e stranieri oltre tredicimila. In realtà ne presero molti di meno, poco più di mille una volta rilasciati i “misti”, un sostanziale fallimento nell’ottica nazista, che il rapporto ufficiale di Kappler attribuisce sia al numero insufficiente degli uomini impegnati nell’azione sia “all’atteggiamento di resistenza passiva, e in alcuni casi individuali di aiuto attivo, della popolazione”.
Talvolta i tedeschi chiesero al portiere o ad altri inquilini dove potevano trovare quei signori là dell’elenco, alla cui porta avevano invano suonato. E ci fu chi, come il colonnello Guido Terracina, incontrò i nazisti mentre scendeva le scale per scappare e chiese loro in tedesco cosa stesse succedendo, lesse il suo nome sul loro elenco e rispose, con un gran sangue freddo, che quel signore non si vedeva dall’estate passata, che si diceva che fosse sfollato altrove. E continuò a scendere le scale, dopo aver salutato cortesemente i tedeschi (Morpurgo 1946, pp. 108-109). Ma per farlo bisognava sapere il tedesco e abitare in una casa, come quella dove abitava Terracina, in via Sannio, dove non vivessero solo ebrei. Non in Portico d’Ottavia, dunque, o, come dicevano gli ebrei, in “piazza”.
Gli uomini impegnati nell’operazione erano in tutto 365, cinque compagnie dell’esercito e della polizia di sicurezza guidate da un reparto specializzato nella caccia all’ebreo formato da 14 ufficiali e sottufficiali e 30 soldati, comandati dal capitano Theodor Dannecker, uno stretto collaboratore di Eichmann, che avrebbe successivamente cooperato con lui nella deportazione degli ebrei ungheresi.
Dannecker era arrivato a Roma il 6 ottobre, stabilendosi in via Tasso, la sede delle carceri della Gestapo, e aveva dedicato i giorni successivi alla preparazione della razzia, coadiuvato da un gruppo di poliziotti italiani messi a sua disposizione dalla questura e guidati dal commissario aggiunto Gennaro Cappa, allora capo del Servizio Razza della Questura di Roma e successivamente stretto collaboratore del questore Caruso. Avevano il compito di preparare l’indirizzario degli ebrei dividendolo per zone. Per farlo, usarono presumibilmente l’elenco depositato presso la questura (ma ce ne erano molte altre copie a Roma, dalle istituzioni centrali fin nei commissariati di polizia), frutto del censimento degli ebrei fatto nel 1938 e del suo principale aggiornamento nel 1942, e lo incrociarono con altri dati, tra cui probabilmente l’elenco dei contribuenti sequestrato alla Comunità ebraica il giorno dopo la consegna dell’oro, il 29 settembre.
Gli elenchi usati dai nazisti furono quindi il risultato del lavoro d’ufficio dei poliziotti italiani, sotto la direzione dei tedeschi. Non fidando però nella discrezione dei poliziotti italiani, Dannecker li consegnò per la notte in caserma per tutta la durata delle operazioni. L’azione doveva cogliere gli ebrei di sorpresa e il segreto era assolutamente necessario. Due o tre giorni prima del 16 ottobre arrivò anche il reparto speciale di Dannecker, che si acquartierò al Collegio Militare, sulla Lungara, dove poi sarebbero stati radunati gli ebrei razziati.
Stranamente, non abbiamo nessuna fotografia della razzia del 16 ottobre. Nessun tedesco, a quanto si sa, ha fotografato le file degli ebrei ammassati di fronte alle rovine del Portico in attesa dei camion, nessuno ha immortalato le azioni romane del reparto speciale di Dannecker. Eppure, sappiamo che era usanza dei nazisti prendere immagini delle loro azioni. Sono rimaste innumerevoli foto delle azioni naziste, perfino delle esecuzioni di donne e bambini nei villaggi russi e polacchi. Ci sono foto, scattate da un fotografo ufficiale delle SS, della distruzione del ghetto di Varsavia. A Roma non furono fatte foto. I nazisti potrebbero aver preferito non documentare questa azione, farla passare sotto silenzio.
È forse questo un altro indizio delle esitazioni tedesche di fronte alla deportazione degli ebrei romani proprio “sotto le finestre del papa”? O si tratta di un caso, e le foto c’erano e sono state successivamente smarrite? Emergeranno forse un giorno da qualche archivio ancora inesplorato, a renderci visibile quello che ora possiamo solo rivivere attraverso le testimonianze e i documenti scritti? Vedremo, allora, il portone del numero 13 con la fila di donne, vecchi e bambini che scendevano quelle scale spinti dai fucili dei nazisti?
I tedeschi eseguivano il loro compito senza violenze superflue ma in fretta. Solo il calcio del fucile a pigiare sui carri i recalcitranti, a spingere chi, vecchio o confuso, tardava a muoversi. Entrando, avevano consegnato ad ogni famiglia un biglietto dattiloscritto in due lingue, tedesco e italiano. Diceva che tutti, proprio tutti, dovevano raggruppare poche cose essenziali, dei viveri per otto giorni e lasciare la propria abitazione entro venti minuti, seguendo i militari tedeschi.
La fretta era tale che pochi ebbero il tempo di pensare, di capire cosa stava succedendo. Bisognava ricordarsi di prendere tutte le cose assolutamente necessarie ad uno spostamento, le medicine per i vecchi e i malati, quanto serviva ai bambini piccoli. La fretta stessa che veniva imposta alle vittime rendeva loro quasi impossibile sfuggire alla presa, una volta che erano nelle mani dei tedeschi. Ci fu chi riuscì a farlo, certo, nella confusione, ma molti che pure avrebbero potuto fuggire preferirono restare vicino ai loro cari, alle madri, ai bambini. Non dobbiamo dimenticare che erano intere famiglie che venivano così rastrellate. E poi, furono radunati tutti insieme ad aspettare i camion che li avrebbero portati lontano da lì, non si sapeva dove.
Per gli abitanti della Casa, furono pochi metri, poi furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi del Portico d’Ottavia, là dove nel Medioevo c’era stato il mercato del pesce. E qui, mentre aspettavano, senza più il calcio dei fucili a far loro fretta, cominciarono a rendersi conto di cosa si trattava. Qualcuno si ricordò degli elenchi comunitari che erano stati sequestrati tre settimane prima dai nazisti, altri pensarono alle voci che giravano e a cui non avevano voluto dare peso. E lì, mentre aspettavano i camion e poi vi salivano, qualcuno riuscì ad allontanarsi approfittando di un attimo di distrazione dei soldati o forse di uno spiraglio di pietà. Ci fu anche chi riuscì a gettare il proprio bimbo nelle braccia di un passante generoso, come fece una delle donne arrestate al numero 9 di via del Portico d’Ottavia. Ma il sentimento più forte, oltre alla paura, era l’incredulità, che spingeva le famiglie a ritrovarsi, i figli a seguire la madre, i genitori a raccogliersi intorno i bambini. Che se ne facevano i nazisti di tutti quei bambini e quei vecchi?, si pensava. E nessuno poteva immaginare che la destinazione finale sarebbe stata non un campo di lavoro, ma la camera a gas.
Coloro che si salvarono in maggior numero furono quelli che i tedeschi cercarono più tardi, quando già la notizia si era sparsa per le case degli ebrei, portata da chi era riuscito a scappare o, dove c’era, dal telefono. Altri trovarono rifugio, mentre la razzia era in corso, in casa di non ebrei, di “ariani”. Bastò aprire la porta di casa e infilarsi in una porta a fianco che si apriva ad accoglierli, dal momento che in molti casi, anche se non in tutti, i tedeschi seguirono scrupolosamente i loro elenchi e avevano l’ordine di non frugare le case dei non ebrei. E anche quando intravedevano attraverso le porte socchiuse le loro vittime riunite nelle case degli “ariani” – come successe in alcuni casi – come capire se si trattava di ebrei in fuga o di parenti sfollati? Di quella solidarietà degli “ariani” verso gli ebrei, degli aiuti che questi avevano ricevuto, se ne lamentarono aspramente i nazisti, nel loro rapporto sulla razzia. Degli italiani, perfino di quelli in camicia nera, non c’era da fidarsi. Avevano fatto bene la sera prima a consegnare in caserma i reparti della polizia italiana che li avevano aiutati nella preparazione della razzia, perché non cominciassero a far chiacchiere in giro o non avvisassero addirittura gli ebrei di ciò che si stava preparando.
Ma nella Casa tutti gli abitanti erano ebrei, di tutti loro i tedeschi avevano i nomi. Non c’era nessun altro a portata di mano a cui chiedere rifugio, nessun appartamento che non fosse destinato ad essere rovistato da capo a fondo perché abitato dagli ebrei. E fu questa, se non la prima, comunque una delle prime case da cui cominciò nel quartiere del vecchio ghetto la razzia del 16 ottobre 1943: via del Portico d’Ottavia 13.
Uomini che furono chiamati a far parte della grande macchina della guerra e ne conobbero la dimensione smisurata e ineluttabile. Che vissero in prima persona la ritirata di Caporetto, che patirono la fame nei campi di prigionia, che tornarono a casa talvolta menomati per sempre. Donne che si assunsero il carico del lavoro e della crescita dei bambini, che attesero i mariti, i padri, i fratelli, i figli, che soccorsero i soldati con la loro forza morale o si presero cura dei loro corpi come infermiere volontarie. Questo libro ricostruisce la storia della prima guerra mondiale attraverso le storie di persone comuni che ne furono coinvolte e travolte. Per far riemergere la trama vissuta e sofferta della guerra si affida al fiume carsico delle scritture inedite, fragili e spesso incerte, prodotte dai protagonisti a volte nel fondo di una trincea o nella baracca di un campo di concentramento, nel corso del conflitto ma anche dopo. Le lettere inviate a casa dal fronte e dalla prigionia e viceversa, i taccuini, i diari, le memorie scritte a distanza di tempo, gli album con le dediche dei malati alle infermiere danno un volto, un nome e un cognome, una storia alle speranze e alla disperazione di chi uscì vivo dal conflitto e di chi ne fu inghiottito.
"Il negazionismo è un piccolo universo autoreferenziato, per alcuni aspetti quasi un genere letterario a sé, che non viene scalfito dalla ragione poiché ha una sua ragione, che riposa sulla negazione": soprattutto è un fenomeno carsico, perché a intervalli più o meno regolari, si ripresenta con inquietante costanza negando l'evidenza dello sterminio degli ebrei e, con esso, delle condotte criminali assunte dalla Germania nazista. "La totalità della menzogna non sta nelle singole affermazioni ma nel loro utilizzo in sequenza, all'interno di un universo di significati che è menzognero poiché perviene a negare la realtà dei fatti. Il negazionismo, sul piano dei concetti, non è propriamente un'ideologia compiuta così come, sul versante di coloro che lo professano e lo condividono, non costituisce una setta, anche se molte delle sue manifestazioni e dei comportamenti di coloro che si riconoscono in esso farebbero pensare altrimenti. Si tratta piuttosto di un atteggiamento mentale che si traduce in un modo di essere nei confronti del passato. Al giorno d'oggi si presenta come il prodotto della stratificazione e dell'interazione di tre elementi: il neofascismo, il radicalismo di alcuni piccoli gruppi della sinistra più estrema e il viscerale antisionismo militante delle frange islamiste". Claudio Vercelli ricostruisce storicamente il fenomeno negazionista, ne descrive i protagonisti e gli ideologi, racconta la mappa concettuale...
La tragedia della Shoah rappresentata da una prospettiva inedita: dalle origini dell'antisemitismo europeo all'orrore dei campi di sterminio, oltre 100 mappe e grafici illustrano la trasformazione di un'ideologia in aberrante realtà. Come si è diffuso l'odio antisemita nell'Europa dei Lumi? Quali sono state le conseguenze della Grande Guerra? Quali le tappe delle politiche razziali nella Germania nazionalsocialista, culminate nell'uccisione pianificata di circa 6 milioni di individui? E quali sono state le responsabilità degli Alleati e della Chiesa? Dalle prime uccisioni sul fronte orientale per mano delle Einsatzgruppen ai rastrellamenti nell'Europa occupata, dalla Francia alla Grecia, fin dentro l'inferno di Auschwitz, Treblinka, Betzec, Sobibór, Majdanek e Chelmno: un atlante che offre molteplici risposte a decenni di domande su come la Shoah sia stata possibile nel secolo del trionfo della "modernità", e su come il massacro degli ebrei d'Europa abbia potuto concretamente avere luogo in tutte le sue fasi, dalla concentrazione all'eliminazione.
Questa edizione del "Giornale di guerra 1915-1917" ne propone per la prima volta il testo in un'accurata edizione critica, raffrontando le puntate originariamente uscite su "II Popolo d'Italia" nel dicembre 1915-febbraio 1917 col volume pubblicato nel 1923 dall'editrice Imperia (appartenente al Partito nazionale fascista). Le cronache dal fronte sono integrate dalla trascrizione di stralci epistolari, che s'intrecciano proficuamente con i taccuini mussoliniani e ne colmano i vuoti cronologici. II fitto apparato critico e la Postfazione di Mimmo Franzinelli forniscono importanti elementi conoscitivi e interpretativi al "Giornale di guerra" e al suo autore, che dell'esperienza bellica fornì versioni suggestive ma non sempre fedeli alla cruda realtà della guerra. II volume è corredato da una ricca documentazione fotografica per lo più inedita o riscoperta.
"Tra il 1939 e il 1945, la Germania nazista, assecondata da molteplici complicità, ha sterminato circa 6 milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. Le è mancato solo il tempo per distruggere l'intero popolo ebraico come aveva deciso. Questa è la realtà cruda del genocidio ebraico, Shoah nella lingua ebraica. La decisione di "far scomparire" il popolo ebraico dalla terra, la determinazione di decidere chi deve e chi non deve abitare il pianeta, spinta alle sue ultime conseguenze, segna la specificità di un'impresa, unica a tutt'oggi, tesa a modificare la configurazione stessa dell'umanità."
K. è la storia di un padre alla ricerca della figlia, desaparecida nel 1974 durante la dittatura militare in Brasile; la storia di una ricerca in cui ogni indizio si dissolve prima di prendere forma concreta e durante la quale i ricordi dell’Europa riaffiorano foschi: il vecchio rivoluzionario polacco fuggito in tempo dalla Shoah non può fare infatti a meno di paragonare il vuoto lasciato dallo sterminio nazista al vuoto lasciato dalla scomparsa della figlia. La cronaca della ricerca di K. assume il ritmo di un thriller e, mentre il senso di colpa di essersi dedicato più al culto della letteratura yiddish che a sua figlia lo tormenta, K. affronta indomito e senza timore qualsiasi strada pur di avvicinarsi alla verità. Nel suo percorso K. arriverà inevitabilmente alle domande fondamentali che si pongono di fronte a ogni ingiustizia, ma inesorabilmente rimarrà all’oscuro del destino della figlia.