Giacomo Matteotti è stato il primo vero antagonista di Mussolini, ed è stato il fantasma che ha aleggiato sul Fascismo per tutta la durata della dittatura. In "Solo" Riccardo Nencini ricostruisce in forma romanzesca, con la precisione dello studioso, la passione dell'uomo politico e la creatività dell'intellettuale e narratore, la vita di questo grande eroe italiano: l'infanzia, le prime esperienze politiche, gli amori, le amicizie, la militanza comune con Mussolini nel Partito socialista, e i giorni drammatici della durissima opposizione al Fascismo nascente, opposizione che gli costò la vita. Il risultato è un romanzo di ampio respiro, epico e struggente, che ci restituisce il ritratto emozionante e commosso di una stagione cruciale della nostra storia, e di un uomo coraggioso e solo, come tutti i grandi eroi.
Per molti secoli la considerazione e la condizione dei bambini è stata molto difficile, anche in una società, come quella medievale, che era costruita attorno al messaggio evangelico. Il "se non ritornerete come bambini- di Gesù risuonava dalle Sacre Scritture, ma sembrava non penetrare negli animi degli adulti, quando si rivolgevano al mondo dell'infanzia. Il libro ci fa comprendere il perché di tante difficoltà per i piccoli e come si sono create le premesse per la loro comprensione e il loro apprezzamento come persone. L'autore ci accompagna in un percorso affascinante: all'ascolto di pensatori autorevoli (Agostino, Ambrogio, Anselmo di Canterbury...), papi e educatori, fino a Tommaso d'Aquino e Bonaventura... ispiratori di Dante Alighieri anche su questo tema. Senza dimenticare san Francesco e la sua speciale attenzione per l'infanzia. «Gli adulti hanno paura dei bambini. Senza dubbio, possono dissimulare o travestire in mille modi quella paura: da affetto, da cura, da preoccupazione, da severità. E sanno anche dominarli: terrorizzandoli, seducendoli, corrompendoli, violentandoli, ingannandoli, obbligandoli, trascurandoli. Quel che resta più difficile, tuttavia, è prenderli per quello che sono...» Dalla prefazione di Franco Cardini.
Dopo il successo della prima edizione (1995) e la sua traduzione in varie lingue, questa Storia della letteratura cristiana antica, riveduta e ampliata, intende mettere in rilievo precipuamente gli aspetti letterari che caratterizzano gli scritti dei primi secoli cristiani e che spesso vengono trascurati dalle analoghe opere esistenti. La produzione letteraria cristiana è stata considerata quasi sempre o come strumento per la storia della Chiesa antica o come aspetto particolare della storia del pensiero patristico. Quest'opera, invece, vuole considerare l'insostituibile apporto che il cristianesimo ha arrecato alla formazione della cultura occidentale. Il termine "cultura" deve essere inteso in senso lato, e non esclusivamente come se si identificasse con i raggiungimenti artistici; essa comprende il pensiero, le problematiche, le soluzioni che l'antico cristianesimo produsse e visse al proprio interno. In tal modo si recupera, pur osservandola in un suo ambito specifico, la peculiarità del messaggio evangelico, che costituisce il nucleo insostituibile di ogni forma letteraria cristiana. Antichi e nuovi contemporaneamente furono i contenuti e i generi di questa letteratura, che costituì il passaggio dalla civiltà antica a quella medievale.
Si è scritto molto sulle grandi scoperte geografiche dell'età di Colombo, assai meno sull'esperienza che quei primi viaggiatori europei fecero incontrando le popolazioni native. Questi incontri cominciarono in realtà un secolo prima, quando i primi spagnoli arrivarono alle Canarie, continuarono sulle coste africane e infine nelle isole caraibiche in cui approdò Colombo. Gli europei scoprirono che il genere umano era più vasto e differenziato di quanto avessero saputo fin lì. Ma quei «selvaggi» nudi, licenziosi, magari anche cannibali, erano uomini davvero? E se lo erano per l'aspetto, lo erano per l'anima? Perché non conoscevano la parola di Cristo? E potevano riceverla? Abulafia racconta come quegli incontri si svolsero, e quali effetti ebbero sia sull'idea europea di genere umano sia sul destino, tragico, di quei popoli sconosciuti.
«Quell'automobile traforata di colpi, quei giornali sparsi sul sedile posteriore, quel corpo coperto da un lenzuolo, quel rivolo di sangue che attraversa l'asfalto di via Fani. Immagini, impresse nella nostra memoria, che scandiscono un passaggio d'epoca.» Quando e perché è finita la Prima Repubblica? Per rispondere a questa domanda Walter Veltroni ricostruisce un intero, travagliato, capitolo della nostra storia a partire dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro, che mette fine al disegno politico più ambizioso del secondo dopoguerra, un'alleanza tra la Dc di Zaccagnini e il Pci di Berlinguer, e apre una crisi che forse non si è mai chiusa. Attraverso gli anni del terrorismo e della strategia della tensione, degli attentati e dei Servizi segreti, delle sfide elettorali e delle mancate riforme; da Andreotti a Craxi, da Leone a Cossiga, dal rischio di un colpo di Stato alla scoperta dell'organizzazione segreta Gladio, dalla P2 a Tangentopoli e oltre. L'autore riavvolge il filo della memoria nazionale attraverso eventi e ricordi vissuti da se stesso e dai protagonisti dell'epoca: intreccia così le testimonianze di Virginio Rognoni, Claudio Martelli, Emma Bonino, Beppe Pisanu, Claudio Signorile, Rino Formica, Aldo Tortorella, Achille Occhetto, Mario Segni, ma ritrova anche una rivelatrice intervista al brigatista Prospero Gallinari, carceriere dello statista democristiano assassinato. Un'inchiesta nel nostro passato che illustra fatti, personaggi, versioni inedite e interpretazioni politiche riportando alla luce l'eredità di un disegno infranto che ancora grava sull'Italia di oggi.
L'Italia è il paese del debito pubblico: da sempre alto e difficile da gestire, ha costantemente condizionato la nostra storia. Ma come abbiamo potuto crescere nonostante questo peso? Quali sono le conseguenze che ha prodotto sulla politica e sulla società? Fin dalla sua origine, il forte debito pubblico è stato uno dei grandi problemi dell'Italia unita. Un problema che ha accompagnato tutta la nostra storia, tanto da essere l'unico paese al mondo ad aver avuto un debito superiore al 60% del Pil per più di 110 anni. Dal 1992 è divenuto l'asse centrale di tutta la vita politica nazionale: prima con le ingenti misure e i 'tagli' per entrare nell'euro, poi con i limiti imposti dal rispetto dei parametri di Maastricht. Questo libro, oltre a ricostruire l'andamento storico delle politiche del debito e ad analizzare le responsabilità della classe politica e della società italiana che spesso del debito si sono alimentate, mostra altresì un'inaspettata dinamicità dello Stato, dello Stato 'debitore' italiano, di fronte alle sue crisi, a quelle dei decisori politici, al susseguirsi di squilibri e riequilibri dei conti. Tale dinamicità, tuttavia, dopo l'esplosione della pandemia pare non bastare più e ha bisogno di essere sostituita da una più organica visione che si misuri con la natura 'fisiologica' del debito stesso.
Mai apparsi prima d'ora in Italia, i cinque testi che compongono questo libro riguardano tre temi particolarmente cari a Philippe Ariès. Il primo è una lettura quasi autobiografica del suo incontro con la storia delle mentalità, la cui indagine richiede ragione e passione. Il secondo riguarda il mondo dell'infanzia, osservato in un passaggio cruciale: a partire dal XVII secolo, la famiglia aperta sulla società degli adulti diviene una struttura chiusa che si concentra, anche sul piano affettivo, sui bambini e li confina tra le mura di casa ritardandone il passaggio all'età adulta. Il terzo tema riguarda la fine della vita; i testi qui riportati permettono di cogliere la "preistoria" delle ricerche dell'autore su questo tema e sulla liturgia antica dei funerali.
Avere paura è un grande destino umano. I tempi difficili in cui siamo immersi ne sono segnati e questo sentimento rischia di immobilizzarci, come animali di fronte a un pericolo. Ma forse è possibile guardarlo con altri occhi. In queste pagine colte e appassionate, Adriano Prosperi ci accompagna a incontrare le paure dell'uomo, ci racconta le epoche di pestilenza e ci ricorda la potenza di un'iconografia del peccato e del Male che informa e percorre le costruzioni intellettuali attraverso cui comprendiamo la vita. E assieme al passato ci spiega il presente, mettendo a nudo il cuore antico della nostra modernità globalizzata, in un'analisi sferzante di ciò che davvero abbiamo da temere: un orizzonte di disparità economica, saccheggio ambientale e impoverimento culturale. Questo è il vero flagello, su questo orizzonte compariranno - o sono già comparsi - i nuovi cavalieri dell'Apocalisse. La pestilenza ha portato alla luce, come in ogni tempo, complottismi popolari e strategie dei potenti, attacchi ai medici e processioni penitenziali, pozioni miracolose e capri espiatori. Ma occorre guardare oltre. E riconoscere la paura nel suo aspetto più nascosto di forma di dominio, peste delle menti per cui esiste un solo rimedio, pietra filosofale ricercata nei secoli dalla scienza come dall'arte: la conoscenza. L'arma con cui possiamo affrontare un sentimento che ci appartiene e che, se riusciamo a dominarlo, può renderci più forti.
Appassionante come un romanzo, ma scrupoloso nella ricostruzione dei fatti come un saggio storico, il libro fa luce sui quei primi quindici anni drammatici del secolo XIX che cambiarono il volto dell’Europa. Per avvicinare la storia al grande pubblico, sceglie lo stile narrativo. I dialoghi e gli avvenimenti scorrono davanti al lettore come un film o un’opera teatrale. Sullo sfondo si agitano grandi personaggi: gli ambigui Talleyrand e Fouché, il principe di Metternich, Joséphine de Beauharnais e Maria Luisa d’Asburgo, i cardinali Consalvi e Fesch, la madre e i familiari di Napoleone.
Sulla scorta di una pluralità di fonti archivistiche e a stampa, l'Autore approfondisce il ruolo esercitato dalla Santa Sede in materia di assistenza e cura pastorale dell'emigrazione italiana all'estero nel periodo che, dalla seconda metà dell'Ottocento, giunge fino al Concilio Ecumenico Vaticano II e alla stagione postconciliare. L'Autore documenta come, almeno fino alla seconda metà degli anni Ottanta dell'Ottocento, gli interventi promossi dalla Chiesa italiana per la tutela degli emigranti furono assai limitati e rivestirono, nel complesso, un carattere episodico e marginale. La situazione mutò sensibilmente nel corso dei pontificati di Leone XIII e di Pio X. Quest'ultimo, in particolare, s'impegnò tanto sul fronte dell'intensificazione delle iniziative ed opere di assistenza e nella centralizzazione delle politiche a sostegno della cura pastorale dei migranti, quanto su quello - altrettanto decisivo - del reclutamento e della formazione culturale e spirituale del clero destinato ad animare la vita religiosa delle comunità di emigrati italiani all'estero. L'impegno in favore dei profughi e dei prigionieri di guerra esercitato dalla Santa Sede negli anni della seconda guerra mondiale contribuì a far maturare all'interno della Chiesa una sensibilità più larga e a spostare progressivamente l'attenzione dal problema dell'emigrazione italiana a quello, più complessivo e di portata universale, di tutti coloro che, non solamente per motivi economici, ma anche per cause legate ai conflitti armati, alle catastrofi naturali e alle persecuzioni, erano - e sono ancora oggi - costretti ad abbandonare i luoghi d'origine e a vivere lontano dal proprio paese (profughi, prigionieri di guerra, rifugiati ecc.).
L'itinerario ripercorre le tappe dell'Italia napoleonica lasciando in sottofondo i campi di battaglia e restituendo, piuttosto, la fitta rete dei luoghi della memoria: monumenti, edifici, ma anche tracce di civiltà materiale. Accanto all'Italia di Napoleone vi fu, però, anche un'Italia dei Bonaparte (i Napoleonidi, come furono chiamati), che popolarono l'Italia della Restaurazione assai più della Francia. Molte città furono luogo d'azione dei fratelli di Napoleone e dei loro figli, così come delle sorelle Elisa, Carolina e Paolina. Non solo Roma e Firenze, ma anche Trieste, Bologna, Macerata, Viareggio, Senigallia e altre città ancora videro nascere e morire ville e palazzi dei Bonaparte. Una presenza giunta sino agli anni Venti del Novecento e che rese l'Italia - dopo la Francia - il paese più napoleonico d'Europa.
Si può immaginare un Napoleone giardiniere, con un largo cappello di paglia e un comodo camicione di lino per difendersi dal sole, che zappa e innaffia nella illusoria speranza di far crescere le sue stentate piantine al caldo e all'umido dei Tropici? A Sant'Elena Napoleone fu anche questo. Allontanando i fantasmi del passato, impastati di gloria e di sconfitta, egli usò il lungo esilio per guardarsi dentro, lavorare sulla memoria, scoprire la vastità di uno spazio interiore, dopo che gli spazi non meno vasti ai quali lo avevano abituato le sue imprese si erano ridotti progressivamente a una isola minuscola, a un giardino intorno casa e, quando tutto sta per finire, a una stanza, l'ultima.