Il 18 gennaio 2001, su proposta del Collegio Siciliano di Filosofi a, il Sindaco di Siracusa, Giambattista Bufardeci, conferiva la cittadinanza onoraria a Jacques Derrida. In quella memorabile occasione il filosofo franco-algerino tenne una conferenza dal titolo Tentazione di Siracusa, pertinente metafora che evoca i cattivi rapporti intercorsi tra filosofia e politica che, a partire dai ricorrenti viaggi di Platone nella città siciliana, hanno scandito il tema della ricerca permanente della fondazione legittima del potere. Nel suo discorso, pronunciato in una città simbolo del Mediterraneo, Derrida indicava lucidamente alcune questioni - la crisi dello Stato-nazione, il tema della cittadinanza, delle frontiere, dell'ospitalità, del diritto d'asilo, dell'immigrazione, fra le altre - che, in forma ancor più drammatica, dopo l'11 settembre, inquietano la nostra attuale condizione. Postfazioni di Elio Cappuccio e Roberto Fai.
Tutta la filosofia di Derrida può essere letta come un ininterrotto seminario sul segno, sulla sua natura arbitraria e sulla sua impossibilità costitutiva di restituire la presenza nella sua integrità. La tesi principale del filosofo francese sostiene che il nostro linguaggio è contagiato dalla dispersione, dall’assenza, dalla perdita, dal rischio continuo di non essere supportato. Da una parte, la filosofia tenta invano di controllare lo spargersi incontenibile del suo significato, si batte contro la ruvida grana del linguaggio per offrire una pulita rivelazione della verità. Dall’altra la letteratura esibisce la sua insincerità, abbandonandosi al dionisiaco fermento del linguaggio. In questo saggio più che in altri, Derrida imbastisce un festoso modello di giochi di parole, rimandi, eco e allusioni destinati a decostruire sia la pretesa della critica di dire la verità sulla letteratura, sia quella della filosofia di annettersi l’attendibilità e la testamentarietà del testo letterario.
La trascrizione di queste lezioni testimonia dell’interesse di Derrida per Marx, attivo già negli anni Settanta, segnati dal clima infuocato della contestazione nell’Università e nella società, soprattutto parigine. Il Marx che viene presentato è un pensatore non accademico, ma rivoluzionario, in grado di trasformare la nozione stessa di teoria, inconcepibile in termini autentici fuori da un’attività di radicale cambiamento sia nel pensiero sia nei gesti. La lettura derridiana si lascia attraversare da quella del suo più anziano collega Louis Althusser, uno dei maestri dell’interpretazione di Marx in chiave scientifica e rivoluzionaria, sia riguardo all’economia che alla lotta politica. La nozione di prassi che ne emerge risulta di estremo, bruciante interesse nel momento della società attuale, rinunciataria fino agli estremi limiti a progetti di trasformazione radicale e soprattutto incredula che l’individuo, soggetto di un desiderio e di un giudizio, possa avere un effettivo spazio e possibilità di azione nella sfera dei rapporti politici. Una nozione di prassi diversa dalle procedure tecnocratiche è la posta in gioco di questo libro.
Vengono qui raccolti i testi di tre conferenze tenute nel 1984 da Derrida sull'opera di Paul de Man e pubblicate negli Stati Uniti due anni più tardi, con l'aggiunta di un quarto lungo saggio relativo alle polemiche sorte quando si apprese che de Man, tra il 1940 e il 1942, tenne una rubrica letteraria e artistica in un giornale belga favorevole all'occupazione nazista. Questo libro costituisce un episodio del tutto particolare all'interno della produzione derridiana, e al tempo stesso rappresenta un testo esemplare del modo di intendere la riflessione filosofica da parte del pensatore francese. La singolarità di queste pagine è dovuta al pathos che le attraversa, al loro susseguirsi come momenti di un dialogo sofferto con l'amico scomparso e con la sua opera. Il testo si presenta come un saggio sulle finzioni dell'autobiografia, all'interno del quale vengono affrontate tematiche diverse - l'esperienza della morte, la possibilità-impossibilità del lutto, la natura dell'amicizia, la problematica del nome proprio, la decostruzione, la teoria degli atti linguistici - ma che, in virtù del suo rigoroso procedere, pur nell'eterogeneità dei contenuti disegna un nesso essenziale tra memoria e responsabilità.
Nel secondo dei due anni di seminario dedicati da Jacques Derrida alla pena di morte, analisi e ricerche si dilatano fino a raggiungere il cuore di domande solo in apparenza distanti dalla pena capitale: cosa significa pensare il «vivente»? E il sangue, il «concetto» di sangue? Sarà mai possibile una «storia del sangue»? E poi ancora: cosa vuol dire «amar vivere»? Protagonisti di questo interminabile dibattito che incrocia necessariamente la questione della giustizia saranno Kant e Hegel, interrogati anche a partire dalle posizioni assunte nei confronti della tradizione della «legge del taglione» a cui vengono consacrate pagine di rara profondità. Ma il discorso non si ferma qui e, sempre all’insegna dello scavo dei moventi del suo stesso costituirsi, convoca imperativamente Freud (e il suo allievo Reik) per interrogare la trasformazione del diritto criminale operata dalla psicoanalisi. In queste lezioni che contribuiscono a tratteggiare – senza chiudere nessun confine – l’interminabile storia del «delitto » e del «castigo» che vertebra la società degli uomini, Derrida non concede tregua all’incalzare di questioni che si raccolgono nella domanda che attraversa e rilancia altrimenti tutte le altre: cos’è un desiderio?
Questo volume raccoglie alcuni testi giovanili di Derrida: un saggio importante - "La fenomenologia e la chiusura della metafisica" (1966), a cui l'autore rimanda ne "La voce e il fenomeno" - e cinque recensioni di testi relativi all'interpretazione di Husserl, nelle quali emergono la prospettiva interpretativa e le preoccupazioni che non cesseranno di animare il percorso del filosofo francese. Questi testi - a cura di Vittorio Perego, con Postfazione di Vincenzo Costa - ci permettono di accedere all'officina al cui interno Derrida forgiò la propria originale proposta filosofica. In essi sono preparate le idee fondamentali che non cesseranno di guidare il suo percorso e viene definita la sua posizione riguardo alla questione della metafisica.
Ecco la prima opera di Jacques Derrida. Scritta nel 1953-54, quando era studente di Filosofia all'École Normale Supérieure di Parigi, propone una lettura dell'opera di Husserl che assume come filo conduttore il tema della genesi. Si trattava allora di analizzare le difficoltà e i rimaneggiamenti provocati nel pensiero del fondatore della fenomenologia dalla presa in considerazione del tempo, del divenire e della storia, tanto nella costituzione del soggetto trascendentale quanto nella produzione intenzionale del senso dei suoi oggetti, e in particolare degli oggetti scientifici. Oltre a permetterci di ricostruire aspetti filosofici e persino filosofico-politici della Francia del tempo, quest'opera annuncia anche la problematica e lo stile delle questioni "decostruttrici" che Derrida svilupperà nelle sue numerose opere tra il 1962 e il 1990.
Delle arti - di ciò si tratta in questo libro. Delle arti, appunto, al plurale. O anche della problematicità di un singolare - l'"arte" -, che si rifrange ogni volta in una molteplicità lontanissima dall'essere omogenea. Jacques Derrida non si è mai sottratto alla sottile quanto inevitabile ingiunzione che le "arti del visibile", ossia il disegno, la pittura e la fotografia, ma anche il cinema, la videoarte e il teatro, suscitano per il solo fatto di esistere. Ed è vero - come il lettore potrà constatare - che la decostruzione trova nelle arti un'occasione assai feconda di esplicitare, mettere alla prova e sperimentare la portata dei suoi concetti. Per quanto concerne il visibile, infatti, si tratta sempre, anche se in modalità differenti nelle arti e rispetto alla scrittura, della traccia, del tratto, di spettri, e dunque di un "vedere senza vedere niente". Derrida non avrà pensato che a questo non vedere, come rivelano i testi qui raccolti (saggi, interventi, conferenze, interviste, scritti per cataloghi d'arte), apparsi lungo l'arco di venticinque anni di attività e pratica di scrittura, successivi alla pubblicazione di "La vérité en peinture" (1978) fino al 2004.
"È possibile, dichiarandolo "in silenzio" o "a bassa voce", non dovere niente a un maestro? Proprio qui? A un maestro ammirato? Quanto a sapere se qui è possibile ammirare un maestro senza dovergli restituire niente, senza impegnarsi espressamente nel mercato di nessun "grazie", senza debito e senza dovere, dunque senza favore possibile, là dove forse ne va ancora di una strana esperienza della spartizione, ebbene, perché la domanda resti, e resti aperta o sospesa, bisognerebbe provare a pensare altrimenti tutti i concetti che vi si trovano compromessi: la distinzione tra "dire" e "tacere", il "senso", il "buono" del "buon senso", il "debito", il "dovere", la "maestria o la magisterialità del maestro" (non dimentichiamo che nella maggior parte dei casi parliamo al maschile), proprio la parte della "spartizione" (di "cosa"? di "chi"? con "chi"?); ma anche il "niente", il "possibile" e il resto. Soprattutto il resto".
"A me sembra che vi siano almeno tre ragioni per ritornare ancora su queste pagine, per leggere o rileggere ancora questo saggio scritto quaranta anni fa e che può ormai essere considerato un classico della filosofia contemporanea. Innanzitutto esso è senza alcun dubbio un esempio magistrale di lettura e interrogazione di un testo filosofico; anche se al termine della lettura si arrivasse a non condividere alcuna delle tesi interpretative proposte dal filosofo francese, non si può non riconoscere il rigore, l'acribia e la fecondità di questo modo di leggere, sollecitare la riflessione altrui e praticare la filosofia che non cade mai nell'ingenua sterilità, di intendere il pensiero e l'atto stesso del pensare come un campo di battaglia sul quale confliggono tesi opposte. In secondo luogo il saggio di Derrida è un'analisi serrata di un punto centrale del pensiero platonico che tuttavia alcuni hanno finito per ridurre alla semplice contrapposizione tra oralità e scrittura. La posta in gioco nella riflessione che Platone articola a proposito del mito del dio Theut e dell'invenzione della scrittura va ben al di là della difesa di un particolare mezzo espressivo, l'oralità, coinvolgendo invece la natura del pensiero e l'atto stesso di pensare. In terzo luogo questo saggio del '68 resta centrale anche all'interno dell'amplissima produzione derridiana di cui l'insistenza sul concetto di indecidibilità è senza alcun dubbio uno dei tratti costanti e costitutivi". (Dall'Introduzione di Silvano Petrosino)
Jacques Derrida fornisce una delle definizioni più sorprendenti della sua idea di "decostruzione", che non è una filosofia, né un metodo, né un concetto preciso, ma "solo ciò che capita se capita". Quel che è certo è che la decostruzione va sempre insieme a qualche altra cosa; essa, infatti, articola e disarticola ogni parte del discorso, riconoscendo tale divisione anche al proprio interno. L'elemento che rende concretamente possibile tutto questo è la congiunzione "e", un "sincategorema" capace di esprimere la correlazione tra insiemi eterogenei: la decostruzione e la scienza, la decostruzione e l'America, la decostruzione e l'amore ecc. Derrida, rifacendosi a Foucault, Borges e soprattutto a Husserl, spiega l'importanza della "e" quale collegamento logico (e fenomenologico) che può avere molte forme, usi e significati, perfino disgiuntivi, perché la congiunzione scivola e s'insinua dietro ogni disgiunzione. Testo breve quanto denso, "Et cetera" è anche una acuta e divertente riflessione metalinguistica, dal momento che non si può descrivere e formalizzare un'unità di linguaggio come la "e" senza farne già uso all'interno della stessa descrizione.
La favola e il mito mentono? Esistono bugie necessarie o inevitabili? La menzogna fa parte strutturalmente della cultura umana? E possiamo tracciarne una storia che scorra parallela a quella del sapere? In questo breve saggio, sviluppo di un seminario tenuto al Collège International de Philosophie, Jacques Derrida si pone il compito di disegnare il perimetro del concetto di menzogna, confrontandosi con l'incerto statuto che la porta, fin dall'origine, a confondersi con la falsità, l'astuzia, l'errore, l'inganno e anche l'invenzione poetica. Ma se il filosofo francese è consapevole, con Montaigne, che "il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito", non rinuncia al suo tentativo di formalizzazione e procede con ironia e rigore nella sua indagine. Chiamando in causa Platone e Freud, Heidegger e sant'Agostino, Kant e Hannah Arendt, si delinea così il complesso (e spesso malinteso) rapporto tra menzogna e sapere, una relazione destinata a frustrare ogni tentativo di assolutizzazione teorica.