La partecipazione politica è essenziale per la democrazia, eppure sono molti gli equivoci creati dalle retoriche "partecipazioniste" e dall'uso strumentale e ideologico di processi partecipativi depoliticizzati. In questo scenario si collocano anche gli ecosistemi comunicativi digitali, che possono favorire lo sviluppo di culture e posizioni alternative ma che, al tempo stesso, sono situati dentro fenomeni sociali ed economici che ne limitano le potenzialità. Il volume analizza la partecipazione considerando l'esistenza di un doppio binario: da una parte, le lotte e l'impegno di associazioni, movimenti, gruppi sociali più o meno organizzati come pratiche di resistenza e difesa della democrazia; dall'altra, le procedure non inclusive, che finiscono per essere funzionali solo alla razionalità neoliberista. Emergono quindi forme di partecipazione "disconnesse" dalle cittadine e dai cittadini reali, esercizi a uso della nuova tecnocrazia dei processi di partecipazione, e funzionali solo alla legittimazione popolare di decisioni già prese. L'unica possibilità di "riconnessione" proviene dalla partecipazione come eguaglianza sostanziale nel prendere parte alla vita della comunità, dove si collocano le esperienze più innovative di partecipazione creativa che trovano nell'idea di "cura" non solo una risposta tattica all'interno della crisi ma anche un'inedita modalità strategica di azione politica.
Maurizio Avola non è famoso come Tommaso Buscetta e non è un capo come Totò Riina. Ma non è un killer qualsiasi: è il killer perfetto, obbediente, preciso, silenzioso, e proprio per questo indispensabile nei momenti decisivi. Forse sottovalutato dai suoi capi e dagli inquirenti che ne hanno vagliato le testimonianze, ha archiviati nella memoria particolari, voci, volti che coprono tre decenni di storia italiana. Ad accendere l'interesse di Santoro è il fatto che Avola abbia conosciuto Matteo Messina Denaro e abbia compiuto con «l'ultimo padrino» diverse azioni. Scoprirà però che è solo una parte, e non la più rilevante, di quanto Avola può svelare, andando incontro a quella che è probabilmente l'inchiesta più importante della sua vita. Addentrandosi nel labirinto dei ricordi, il giornalista si trasformerà man mano da interlocutore reticente in sodale a cui Avola affida le tessere del puzzle e le sconvolgenti rivelazioni che emergono. Mafia e antimafia, politica e potere, informazione e depistaggi, vicende personali e derive sociali si intrecciano in un racconto che si muove tra passato e presente, dalla Sicilia degli anni settanta al paese che siamo diventati.
Questo libro offre una ricognizione delle principali genealogie novecentesche della cultura visuale, scegliendo solo tre figure paradigmatiche: Aby Warburg, Sigmund Freud e Walter Benjamin. Dopo Warburg la nozione di immagine è definitivamente cambiata. Dopo Freud lo sguardo è indissolubilmente legato al tema della sessualità e del bios. Dopo Benjamin la nozione di dispositivo e quelle di apparato, assemblage e ambiente mediale sono definitivamente cambiate. Questi autori non stanno solo alle origini della cultura visuale ma ne prefigurano gli sviluppi futuri. Da Warburg abbiamo imparato che il fare-immagine fa parte della biologia e dei comportamenti essenziali dell'Homo sapiens, un aspetto che le neuroscienze cognitive, l'antropologia, l'archeologia e la paleontologia stanno sviluppando in questi anni. Grazie a Freud sappiamo che lo sguardo è essenziale per comprendere pratiche epistemiche, questioni di genere e politiche sociali. Benjamin ci ha insegnato che i dispositivi sono elementi essenziali della nostra nicchia ecologica.
Viviamo nell'era del digitale, è un dato di fatto, e gli schermi sono ovunque: in ufficio, a scuola, a casa, nelle nostre tasche. Per dovere o per svago, gli occhi tornano sempre lì. Specie quelli dei più giovani, visto che li usano come principale - se non unico - canale d'intrattenimento. Qualche cifra? In Occidente, i bambini sotto i due anni trascorrono in media tre ore al giorno davanti a un monitor. Tra gli otto e i dodici anni le ore diventano cinque, e salgono a sette tra i tredici e i diciotto. Possibile che un'attività tanto pervasiva non impatti sul loro sviluppo? Per anni ci siamo lasciati cullare dal mito che vedeva nei nativi digitali i fortunati destinatari di un balzo evolutivo, da Homo sapiens a Homo numericus: multitasking, più attento e intuitivo, pronto a cogliere le infinite possibilità offerte dalla Rete. Una visione dorata diffusa anche da media, sedicenti «esperti» e divulgatori non meglio qualificati. Troppo a lungo gli interessi di pochi e l'accondiscendenza di molti ci hanno spinti a ignorare i messaggi allarmati della scienza, proprio come è successo per il tabacco, i cambiamenti climatici e gli alimenti pieni di zuccheri. Sì, perché le ricerche sono ormai concordi: tutto quel tempo passato davanti a uno schermo ha gravi conseguenze su salute, comportamento e capacità intellettuali dei nostri figli. Finalmente, in queste pagine, un neuroscienziato ci presenta i dati per come sono: preoccupanti, e tali da imporre un immediato cambio di rotta.
Un manuale di «primo soccorso» per ragazzi e famiglie, utile per comunicare sempre meglio in rete, sviluppare la propria autonomia senza rinunciare a neanche un follower o un like, diventare più abili nel distinguere i fatti verificati dalle bufale, imparare a riconoscere ciò che più ci serve nella tv in streaming, nei giornali online, nei siti e nei più diversi link. A farci da guida un giornalista di lungo corso che racconta - con la sua esperienza un po' in tutti i media - i suoi punti di vista a proposito di rete e tv, radio e giornali, public speaking e social. E contemporaneamente suggerisce a giovani e genitori di non considerare i nuovi modi di comunicare solo passatempi o poco più, o semplici scorciatoie per fare incontri e amicizie, ma nuove, importanti opportunità di lavoro. Dall'influencer allo sviluppatore di app, grazie ai new media stanno nascendo di continuo nuovi mestieri: ne potrà approfittare chi comunica meglio, chi sa individuare e coltivare le proprie attitudini, puntando a migliorarsi sfruttando la stessa rete. È la scommessa (e l'augurio) che questo libro vi propone di accettare. Senza paure e con lucidità. Prefazione di Mario Morcellini.
Seduto alla scrivania di casa – sopra di lui lo sguardo vigile di Kurt Vonnegut, accanto a lui una finestra aperta su campi e boschi –, Michele Serra scrive le sue amache. Se non è a casa, le scrive dove capita: in treno, in macchina, al bar, in autogrill, ovunque. Praticamente senza sosta, ogni giorno, da un quarto di secolo. Ormai sono quasi ottomila corsivi, quasi ottomila opinioni: abbastanza per sentirsi “un caso umano”, per voltarsi indietro e interrogarsi sulle ragioni e la sostanza di tutto questo. Ecco allora la precoce familiarità di Serra con libri e macchine per scrivere, il debito di riconoscenza nei confronti di persone e luoghi che lo hanno formato, la scoperta delle parole più ricorrenti tra le centinaia di migliaia battute sulla tastiera. Fra tutte, le più utilizzate sono due, sinistra e politica. “Se l’ho scritta ben 1321 volte, la parola ‘sinistra’, è sicuramente perché stavo cercando di spiegare prima di tutto a me stesso che cosa volevo dire esattamente, dicendo sinistra. Lo stimolo fondamentale della scrittura, direi non solo della mia, è l’ignoto.” Una riflessione emozionata e comica sul mestiere di scrivere, pubblicata in sincrono con Il grande libro delle amache, in cui si può leggere la storia di questi venticinque anni mentre accadevano. Questo libretto ne è la postilla e il compendio.
"La deontologia professionale sta racchiusa in gran parte, se non per intero, in questa semplice e difficile parola: onestà. È una parola che non evita gli errori: essi fanno parte del nostro lavoro, Perché è un lavoro che nasce dall'immediato e che dà i suoi risultati a tambur battente. Ma evita le distorsioni maliziose quando non addirittura malvage, le furbe strumentalizzazioni, gli asservimenti e le discipline di fazione o di clan di partito. Gli onesti sono refrattari alle opinioni di schieramento - che prescindono da ogni valutazione personale - alle pressioni autorevoli, alle mobilitazioni ideologiche. Non è che siano indifferenti all'ideologia, e insensibili alla necessità, in determinati momenti, di scegliere con chi e contro chi stare. Ma queste considerazioni non prevalgono mai sulla propria autonomia di giudizio. Un giornalista che si attenga a questa regoletta in apparenza facile facile potrà senza dubbio sbagliare.ma da galantuomo. Gli sbagli generosi devono essere riparati, ma non macchiano chi li ha compiuti. Sono gli altri, gli sbagli del servilismo e del carrierismo - che poi sbagli non sono, ma intenzionali stilettate - quelli che sporcano". (Indro Montanelli)
La Rete ha rivoluzionato il modo di fare informazione. Il giornalismo tradizionale deve fare i conti con siti, blog, social network, portali, citizen journalism, e soprattutto con la velocità e mancanza di controllo con cui le notizie vengono postate. In questa nuova dimensione le "vecchie regole" che hanno presieduto la produzione delle notizie sono ancora valide? Ha ancora senso applicarle così come sono, quando si parla di diffamazione, diritto d'autore, utilizzazione delle immagini, diritti della persona? E la funzione del giornalista ha ancora valore? La prima risposta è decisamente negativa. La digitalizzazione dell'informazione ha drammaticamente evidenziato che il contesto è regolato da norme obsolete e anacronistiche. La seconda invece è positiva: l'informazione giornalistica può avere un ruolo determinante a patto che sappia evolversi e passare dalla concezione ottocentesca di notizia a quella contemporanea di verità. Nello tsunami di news che ogni giorno ci viene addosso, abbiamo sempre più la necessità di un giornalismo affidabile se non certificato. Un'informazione che sia costante ricerca dell'aletheia, cioè di quel qualcosa che non è nascosto ma che comunque bisogna svelare.
Le tecnologie digitali sconvolgono il quadro antropologico finora noto. Virtualità, connettività universale e libero accesso alle fonti di informazione stanno riplasmando le facoltà cognitive dei ragazzi e dislocando altrimenti il sapere. Non è più là fuori, remoto, scosceso, paludato e spesso respingente; adesso sta tutto in tasca, a portata di mano, senza mediazione. Mentre i grandi mediatori - il sistema scolastico, ma anche gli istituti della politici e della società-spettacolo - si ostinano a brillare come stelle morte da tempo, ignare della propria fine. Il mondo non sarà più un posto per vecchi. L'ultraottantenne Michel Serres, epistemologo tra i più originali, registra sorridente quell'ineluttabile obsolescenza. Non trema, lui, di fronte al crollo di gerarchie e privilegi secolari, anzi rimane incantato dai suoi effetti più tellurici e si schiera incondizionatamente dalla parte dei ragazzi, capaci di un'intelligenza inventiva che è forza di svincolamento, nel corpo e nella mente.
"Se in passato c'è stato un problema di troppo pochi mezzi di informazione e quindi di un accesso limitato all'informazione, oggi, e per il futuro, la preoccupazione maggiore è che, in un mondo dove prevale semmai l'abbondanza nell'offerta di contenuti, ciascuno resti nel suo piccolo recinto di informazione amica e non si esponga mai all'ascolto di idee diverse dalle proprie."
Sul pluralismo nell’informazione e sulla concentrazione nel mercato dei media si discute in Italia con toni accesi ma poco rigore, senza tenere conto dei dati e delle dinamiche economiche. Io voglio andare in controtendenza e interrogarmi sulle origini della situazione attuale, su ciò che possiamo attenderci per il futuro e sulle politiche che possono rivelarsi utili.
Pluralismo vuol dire avere tante voci che parlano assieme. In sua assenza la democrazia funziona male. Per scegliere, i cittadini devono disporre di una informazione ampia e pluralista. Ma in Italia non è così. Numeri alla mano, Michele Polo spiega l’anomalia italiana a confronto con il panorama europeo e avanza più di una soluzione.
Indice
Premessa - Prologo - I. Di cosa parliamo quando parliamo di pluralismo - II. Un viaggio in quattro tappe: televisione, giornali, radio e Internet - III. Il mercato può assicurare il pluralismo? - IV. Che fare? - Appendice dei numeri
Aggiornato e coerente con i più fecondi sviluppi della ricerca sui media, il manuale - pur particolarmente attento alla chiarezza espositiva - non rinuncia ad analizzare la complessità delle relazioni fra media e società, ricostruendo approfonditamente teorie, modelli, metodi di ricerca. Il volume si colloca all'interno delle tendenze più avanzate dei media and cultural studies, offrendo nel contempo uno sguardo aperto e plurale sulle diverse posizioni e sui differenti approcci alla sociologia dei mass media. Ne risulta un testo fondamentale per chi voglia acquisire i rudimenti della disciplina ma anche per chiunque desideri intraprendere percorsi di approfondimento. Sul sito www.carocci.it sono disponibili materiali per ulteriori letture.