L'irrequietudine dell'animo: come riconoscerla, diagnosticarla, curarla. Solo dopo queste fasi si potrà arrivare alla tranquillità dell'animo. Ma attenzione: tranquillitas non è possesso definitivo, dal quale nulla e nessuno possa allontanarci, ma equilibrio continuamente raggiunto, perduto, recuperato, nella consapevolezza che l'animo umano vacilla facilmente di fronte alle molte, troppe insidie che sono in noi e fuori di noi. Tranquillitas quindi non sarà assenza di movimento, ma incessante attività dello spirito, in continua dialettica con se stesso.
Le "Epistulae morales ad Lucilium" rappresentano l'espressione più matura della riflessione filosofica di Seneca. Si tratta di una raccolta di 124 lettere indirizzate all'amico e discepolo Lucilio, composte durante gli anni di ritiro dalla vita pubblica tra il 62 e il 65 d.C. Con una scrittura raffinata e uno stile decisamente nuovo rispetto a quello più ampolloso di Cicerone, le Lettere rappresentano uno straordinario documento del sentimento drammatico dell'esistenza. Partendo da problematiche di vita quotidiane, egli affronta argomenti di diversa natura, mettendo in luce le incertezze e le contraddizioni che lacerano ogni uomo e indicando, lettera dopo lettera, il cammino verso la libertà interiore e la virtù.
Quanto tempo perdiamo in occasioni inutili, dietro futili impegni senza costrutto? Eppure pesa su di noi l’idea che il tempo corra sempre veloce, che ci sfugga, che scivoli via troppo in fretta e che la vita, in una parola, sia troppo breve. Ma la vita non è breve: è lunga abbastanza (satis longa), è persino abbondante (large data), a patto che si sappia spenderla bene. Siamo noi che la abbreviamo, impiegando in attività pubbliche e private il tempo che dovremmo dedicare a noi stessi. Nel De brevitate vitae Seneca capovolge così l’approccio, mostrando che non è il tempo a nostra disposizione il problema ma il valore che noi decidiamo di accordargli. Vivere a lungo significa vivere bene il proprio tempo, e qualsiasi vita è sufficiente per realizzare anche le imprese più grandi. Basta volerlo.
In diverse occasioni, soprattutto nelle Lettere morali a Lucilio, Seneca fornisce dettagli sulla sua vita privata e sulle sue abitudini alimentari. Se i suoi contemporanei prediligono tavole imbandite con ostriche di lago e carne di cinghiale, lingue di fenicottero e vini addolciti dal miele, il filosofo opta per la frugalità di brodini e polenta, pane d'orzo e acqua semplice. Seneca ritiene, infatti, che il cibo rappresenti un'occasione per esercitare la virtù, per separare ciò che è essenziale da ciò che non lo è, un esercizio che presenta diversi punti di contatto con i precetti sui cibi della tradizione ascetica e monastica cristiana.
"Il De brevitate vitae", uno tra i più famosi dialoghi filosofici di Seneca (composto tra il 49 e il 55), è dedicato a un tema di perenne attualità: la fugacità del tempo e la brevità della vita. Che però, sostiene Seneca, appare tale solo a chi, non sapendone afferrare la vera essenza, si disperde in mille futili occupazioni. Di fronte a questa massa di occupati, "assediati" dalle proprie inutili attività, Seneca propone il modello umano del saggio. Questi sceglie di dedicarsi all'"otium", vivendo in prima persona l'alternativa etica alla violenza della società e trovando nella riflessione filosofica il metodo per ristabilire l'equilibrio morale e recuperare la salute dello spirito. La conoscenza di sé diventa il punto di partenza per dare un significato nuovo al proprio agire nel mondo.
Al commento delle Lettere 94 e 95 di Seneca, che qui presento, intende ]ungere da introduzione il mio volume Educazione alla sapientia in Seneca, Brescia ~978. Da ciò dipende che l'esame linguistico-lessicale occupi qui uno spazio maggiore rispetto al chiarimento dei concetti filosofici, che considero ormai presupposto; ed è anche questa la ragione per cui sono stata costretta a rinviare ad un'opera mia con più frequenza di quanto mi piacesse.
Ho abbondato in citazioni anche estese di passi paralleli, perché ho pensato di riuscire in tal modo a porre debitamente in luce una delle caratteristiche più spiccate della prosa senecana: la ripresa di concetti già espressi altrove; essa avviene ora in/orma assai breve e semplicemente allusiva, ora con variazioni più o meno/orti che servono a chiarirli o ampliarli, sempre, comunque, mediante il richiamo significativo di alcuni termini chiave, che segnalano al lettore il ritorno di un motivo caro all'autore. Per questa ragione ci è sembrato che, se l'antica norma: "Omeron ex Omèrou safenìzein' vale certo per ogni autore, essa offra applicazione di particolare utilità nel caso di Seneca.
Ho rimandato ai libri senecani di mio marito più di quanto desiderassimo lui ed io e ne chiedo scusa al Lettore, ma rientra nello spirito della collana in cui appare il commento - nonché nelle norme dei direttori di essa - che una cosa già detta non venga ripetuta e ci si limiti a un rimando (salvo naturalmente il caso di aggiunte o correzioni). Questo stesso spirito comporta, d'altro canto, l'impegno a commentare in modo quanto possibile esauriente quei termini o concetti che appaiono per la prima volta, così da offrire eguali possibilità di rimando ai futuri commentatori. Ciò valga a giustificare l'ampiezza di alcune note che vorrebbero tener conto di gran parte dell'opera senecana.
Dopo le edizioni autorevoli del Haase, del Hense, del Be#rami, del Préchac e del Reynolds, mi è sembrato di po.
terrei fidare, per la costituzione del testo, dell'ultimo di tali editori, il Reynolds; mi limito, quindi, a segnalare i pochi passi in cui me ne discosto.
Ha letto in bozze tutto il mio lavoro l'amico pro/. Alberto Grilli: le sue molte osservazioni e suggestioni mi hanno permesso di correggere e migliorare; la gratitudine che gli debbo - e che qui gli esprimo cordialmente - credo quindi possa essere condivisa anche dal Lettore. Di quanto sia debitrice a mio marito, ho già detto nella premessa alla mia Educazione alla sapíentía,, mi basta qui ribadire che anche nella preparazione di questo commento ho potuto godere del suo consiglio e del suo sostegno.
Parma, Università, giugno ~979.
Maria Scarpat Bellincioni
Le Consolationes senecane sono tre: Ad Marciam, Ad Helviam mater e Ad Polybium. Esse hanno l'obiettivo di consolare i tre personaggi, afflitti per la morte di qualcuno, attraverso argomentazioni filosofiche. La prima è rivolta a Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, in seguito alla morte del figlio; l'opera vuole muovere una riflessione in particolare sul tema del suicidio, portando esempi di altre donne colpite dalla stessa disgrazia. La seconda consolati, la quale è addolorata per l'esilio in Corsica del figlio: egli però lo rassicura in quanto tale provvedimento non impedisce al saggio di dedicarsi all'otium. L'ultima consolazione è indirizzata a Polibio, il quale ha perso il fratello: Seneca, attraverso quest'opera, vuole in realtà tessere le lodi dell'imperatore Claudio per tornare dall'esilio a Roma.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.) nasce a Cordoba, in Spagna, verso il 4 a.C., ma è a Roma che inizia gli studi retorici e filosofici. Prima sotto Caligola, poi anche sotto Claudio cade in disgrazia e viene esiliato in Corsica per otto anni. Richiamato a Roma da Agrippina, diviene precettore del figlio Nerone e poi nel 56 è nominato console: è ormai ai vertici della carriera politica. Nerone però intende seguire le sue ambizioni, eliminando tutti i possibili avversari. Seneca allora, fallito il sogno di un regno della filosofia, sceglie di ritirarsi a vita privata. Nel 65 si trova però coinvolto nella congiura dei Pisoni, per cui, rientrato dalla Campania, lo raggiunge la comunicazione della condanna capitale. Il filosofo allora decide di togliersi la vita; con quel gesto intendeva affermare che al saggio rimane ancora un'ultima libertà, cioè la morte.
"Alla lunga il dolore si consuma: anche il più ostinato, quello che insorge quotidianamente e si ribella alle cure, è spossato dal tempo, efficacissimo mitigatore delle violenze."
Nella prima e più celebre delle sue Consolazioni Seneca si rivolge a Marcia, affranta in seguito alla prematura scomparsa del figlio Metilio. Richiamandosi alla forza d'animo della donna il filosofo la conforta e la sprona a trovare le risorse necessarie per risollevarsi da un lutto di fronte al quale «il tempo, rimedio naturale anche contro gli affanni più gravosi, si è rivelato del tutto inefficace». Lettera a una madre che ha perso il figlio ( Consolazione a Marcia il titolo originale dell'opera) è una delle più antiche riflessioni sulla morte, sulla fugacità del tempo e sul potere terapeutico della parola, e al tempo stesso un appassionato inno alla vita, troppo breve solo per quanti non sono in grado di apprezzarla.
«Nella dottrina di Senaca "il problema morale è un 'problema di forza': costituire una forza intima e personale contro le forze naturali e sociali che ci premono e ci urtano da ogni parte e munire l'anima propria come una fortezza in cui si racchiuda la nostra vita e da cui muova il nostro amore per la vita degli altri".» (Dall'introduzione di Concetto Marchesi)
La metafora medica ricorre di frequente nei testi di Seneca, la cui riflessione si muove secondo la distinzione tradizionale che accostava alla chirurgia altri due specifici settori di ricerca: la dietetica e la farmaceutica. “Cibo e cura” e “cibo e malattia” sono del resto due binomi tipici della riflessione ippocratica.
L’opera del medico avviene tuttavia nell’orizzonte più ampio della precarietà della salute e della finitezza della condizione umana. Talvolta, di fronte al male, neppure il dottore basta perché «la salute del corpo è temporanea e il medico, anche se la restituisce, non la può garantire». In questo modo riaffiora un’altra qualità del medico, quella di essere filosofo, poiché riflette sulla condizione umana e la sua fragilità, adotta sobrietà e temperanza e considera la malattia sempre a partire dall'uomo.