Emersa dalla tradizione orale dei Sumeri nel terzo millennio a.C., e tramandata per migliaia di anni da molti popoli del Vicino Oriente su tavolette d'argilla scritte in caratteri cuneiformi, l'epopea di Gilgamesh si pone alle origini stesse della letteratura mondiale. Re di Uruk, Gilgamesh è infatti il primo eroe a partire in cerca di avventure, a uccidere mostri, sfidare gli dèi, viaggiare ai confini della terra deciso a conquistarsi con le sue gesta un nome imperituro. Ma quando la morte gli strappa Enkidu, il compagno per eccellenza, Gilgamesh, atterrito e ormai solo, affronta l'impresa che travalica ogni altra: la ricerca del segreto della vita eterna - un segreto che solo Utnapishtim, l'unico sopravvissuto al Diluvio Universale, può insegnargli. Farà infine ritorno a Uruk a mani vuote, ma ricco di una nuova consapevolezza: la morte è il destino ineluttabile che gli dèi hanno assegnato all'uomo, e nel godimento di questa vita effimera risiede la sua sola saggezza.
Fra le grandi narrazioni che hanno accompagnato la storia dell'uomo, quella dell'Esodo dall'Egitto è senza dubbio una delle più dense di significato, e il testo biblico che l'ha tramandata fino a noi ne è la vivida testimonianza letteraria. La potenza evocativa delle descrizioni - dalle dieci piaghe d'Egitto al prodigio del Mare dei giunchi - rischia tuttavia di lasciare in ombra gli sviluppi sotterranei del mito. In questo saggio Jan Assmann, con profondità e vastità di sguardo, interroga il libro dell'Esodo dal punto di vista dell'«egittologo che opera nel campo delle scienze culturali», risalendo alle origini dei suoi nuclei mitici e indagandone gli effetti e i riverberi nel tempo. Sarà così possibile vedere da una nuova prospettiva la cruciale rivelazione nel roveto ardente, allorché Yahweh manifesta la propria volontà e stabilisce un patto con il popolo eletto: «Con l'idea del patto viene al mondo la "fede", che rappresenta l'autentica, rivoluzionaria novità del monoteismo biblico, sia esso veterotestamentario, neotestamentario o islamico». Nell'Antico Testamento, infatti, «"fede" ha lo stesso significato di "fedeltà", ovvero fiducia nel patto». E il «monoteismo della fedeltà» porterà a una nuova idea di religione, in grado di gettare «le basi per un rapporto totalmente nuovo con il mondo, con Dio e con il tempo» - un rapporto destinato a perdurare fino alla modernità.
Gli dèi non sono frutto di invenzioni, elucubrazioni o rappresentazioni, ma possono soltanto essere sperimentati». Tale era la prospettiva di Walter F. Otto, ribadita in questo libro, che si può considerare il suo lascito: muovendo da una critica serrata alle «posizioni teoriche che continuano a ostacolare la genuina comprensione della religione greca», e lasciando poi risuonare direttamente «la voce del più spirituale e creativo di tutti i popoli ... che ben riusciamo a percepire, purché ci mettiamo in ascolto di quel che hanno da dirci i suoi maggiori testimoni da Omero in poi », Otto ci mostra come i miti siano in realtà autentiche «rivelazioni ontologiche», in quanto nati non già da sogni dell'anima, ma «dalla lucida contemplazione dell'occhio spirituale spalancato sull'essere delle cose». E ci spiega perché gli dèi greci continueranno sempre a parlarci: «Apollo, Dioniso, Afrodite, Ermes e tutti gli altri restano per noi manifestazioni sempre luminose ed estremamente significative. E per quanto possa risultarci difficile credere seriamente in loro, il loro sguardo sublime non cessa di venirci incontro appena ci solleviamo da tutto ciò che è meramente fattuale nelle altezze dove dimorano le forme».
Ai nostri occhi può sembrare strano che i trionfi dell'Impero romano venissero allora attribuiti soprattutto a sette oggetti gelosamente custoditi nei penetrali dei templi dell'Urbe, e che dalla loro presenza si facesse dipendere la durevolezza e l'invincibilità di quel mondo. Eppure, già in epoca regia e, guardando a Costantinopoli, ancora dopo la caduta dell'Urbe, i Romani credevano fermamente che quegli oggetti - doni prodigiosi, testimoni della benevola volontà soprannaturale, reliquie magiche e arcane - fossero i veri fautori dell'ordine e dell'eternità dell'imperium, le sue autentiche e sicure fondamenta. Di quei talismani, e della loro tutela occulta e simbolica, racconta questo libro di Mino Gabriele, che ripercorre storie e leggende, discerne il vero dal falso, riesce a cogliere i significati manifesti e quelli nascosti attraverso l'esame critico delle fonti letterarie e dei riscontri archeologici, ricostruendo così un irripetibile, straordinario patrimonio di miti. E per il lettore, anche grazie alle immagini che arricchiscono il volume, sarà un viaggio appassionante nel mondo sacro degli antichi, dove il credibile e l'incredibile convivevano in sorprendente e ordinaria comunione.
Nella fotografia riprodotta sulla copertina di questo libro, che ritrae Mircea Eliade e Cioran insieme a Parigi, negli anni Settanta, colpisce il contrasto tra le due fisionomie. Un contrasto che sembra rispecchiare la distanza che umanamente e intellettualmente separava i due grandi romeni: il fecondo e ammirato studioso, in grado di maneggiare con scioltezza le concezioni religiose di tutte le culture; e il sulfureo flâneur del pensiero, l’antiaccademico ancorato a poche e lancinanti ossessioni. Da subito, del resto, non erano mancati gli scontri visto che, all’inizio degli anni Trenta, Eliade aveva attaccato Cioran per via della sua tanatologia, che gli faceva prediligere le tenebre e la negazione alla luce e alla creazione; e Cioran, da parte sua, aveva demolito Eliade in un articolo che sin dal titolo aveva tutto il sapore di una sentenza inappellabile: L’uomo senza destino. Ma, dietro le divergenze, si celava anche un’intesa, una complicità che alimentò una fervida, inossidabile amicizia, come testimonia questo volume in cui sono raccolte le lettere che i due si scrissero nell’arco di un cinquantennio, scambiando riflessioni, pareri letterari, impressioni di viaggio, osservazioni politiche, ricordi. Lettere a volte accese da vampate di humour, non senza contraddizioni e paradossi – ma sempre contrassegnate da quella sincerità che spingeva Cioran a confessare: «Benché io provi per te un’infinita e non smentita simpatia, a volte sento il desiderio di attaccarti, senza argomenti, senza prove e senza idee. Ogniqualvolta ho avuto l’occasione di scrivere qualcosa contro di te, il mio affetto è aumentato ».
Da sempre, ogni società si fonda su una serie di presupposti – una fede, un’ideologia, una religione – che trascendono la vita dei singoli individui e costituiscono l’essenza di un’identità collettiva: credenze che hanno l’eccezionale potere di definire, e dividere, i popoli, e che oggi come ieri sono una forza propulsiva della politica in gran parte del mondo. Credenze a volte laiche, come nel caso dei nazionalismi, ma più spesso, nel corso della storia, religiose. Indagando su questo aspetto centrale dell’esistenza umana, in Vivere con gli dèi Neil MacGregor viaggia – e ci fa viaggiare – nel tempo e nello spazio, guidandoci in un’illuminante avventura tra le fedi. Da Vanuatu alle Alpi sveve all’Acrocoro etiopico, dall’Era glaciale all’epoca Zhou ai giorni nostri, MacGregor passa in rassegna oggetti, luoghi e attività umane per mostrarci come la religione abbia sempre plasmato la vita pubblica, improntando le relazioni tra gli individui e gli Stati – e come abbia contribuito a fare di noi ciò che siamo oggi: «“Chi siamo ‘noi’?” è la grande questione politica del nostro tempo, e riguarda essenzialmente quello in cui crediamo».
«Non l'aspetto, non mi pare di averlo mai aspettato» dichiara Ceronetti, senza nascondersi tuttavia che il tema fluttua da sempre nel suo «mondo mentale», anzi è «centrale e sigillato come l'ombelico». Tant'è che soltanto lui poteva darci questo piccolo libro prezioso, in cui, armato solo delle sue domande appassionate e della sua immensa erudizione, egli parte alla ricerca di presenze e testimonianze messianiche nei testi degli autori che da sempre frequenta e ama: da Eraclito a Isaia, da Buber a Dostoevskij, da Rimbaud a Beckett, da Cechov a Kafka. E in tal modo ci indica una via, e ci spalanca orizzonti: perché, ci dice, «pensare messianicamente, sia pure con una forzatura malinconica, trattiene la mente dal precipitare nell'incretinimento generale», e perché nessuno quanto lui sa che, per quanto ignari, si vive tutti nell'attesa del Messia.
«Confucio era un saggio: una figura che la civiltà occidentale non conosce, o ha conosciuto quasi soltanto alle origini. Noi siamo abituati a distinguere: quello è un filosofo, quello un letterato, quello un politico, quello un pedagogo, quello un romanziere, quello uno specialista in chimica o fisica. Confucio era insieme tutte queste cose e nessuna di queste cose: poteva sembrare, volta a volta, un metafisico o un politico o un moralista, ma qualsiasi frase dicesse, era abituato a portare tutte le proprie parole verso il centro, trasformando la verità metafisica in politica, la morale in letteratura. Detestava gli specialisti: gli uomini “unilaterali”, con una faccia sola e un lavoro solo».
Pietro Citati
Mentre abbiamo negli occhi le immagini dello sterminio dei cristiani assiri, o della distruzione dei templi di Palmira, Russell ci racconta di un altro Medio Oriente, una terra di straordinaria diversità religiosa e di scambi fecondi tra culture, e di un altro islam, una civiltà che in passato ha saputo esprimere grande tolleranza verso i culti religiosi pagani - assai più dell'Europa cristiana. Russell ci introduce infatti a fedi orgogliose e millenarie - progressivamente stritolate dai blocchi contrapposti delle "grandi religioni mondiali" -, a fedi esotiche e talvolta esoteriche le cui radici affondano nella remota antichità mesopotamica della regione e le cui storie si intrecciano con l'Egitto dei faraoni e con il tempio di Gerusalemme, con i magi persiani e con le falangi macedoni. E ci porta a scoprire l'adorazione dei pavoni e il culto dei filosofi greci, la fede nella reincarnazione e la credenza negli influssi planetari, pratiche stregonesche e attese messianiche. Ma dei gruppi religiosi qui descritti - yazidi e mandei, drusi e zoroastriani, copti e samaritani e altri ancora - non si parla solo al passato: cacciati dalle proprie case, in fuga da guerre e persecuzioni, nei paesi ospitanti si trovano ad affrontare sfide e ostacoli inediti per salvare dall'oblio le tradizioni ancestrali di cui sono gli ultimi eredi.
Appassionante ricostruzione dell'universo religioso greco, questo lavoro avvicina il lettore alle figure della religione olimpica attraverso un duplice percorso: analizza da un lato il sostrato culturale dei dodici dei olimpici, dall'altro li presenta come esseri che, grazie alle loro divine epifanie, vivono una vita inesauribile. Raccontati in uno stile alto e insieme capace di filtrare un'impeccabile dottrina, questo testo ha costituito un modello per intere generazioni di studiosi e per chi, come Heidegger, ha sempre guardato a Otto come a un illuminato interprete del passato. Questa edizione è arricchita da un saggio inedito su Zeus, la divinità suprema che ancora mancava all'appello nel testo originale tedesco.
L'incontro tra Simone Weil e alcuni testi della Grecia antica, innanzitutto l'Iliade, Platone, i pitagorici e i tragici, ha segnato uno dei picchi del secolo scorso. Nulla di quanto la luce della sua mente ha raggiunto è rimasto immutato. In particolare i Vangeli, come se la via regale per capirli non passasse da Gerusalemme, ma da Atene. Il verbo come mediatore, il sovrannaturale e l'innaturale, la bellezza del mondo, il giusto punito, la sventura: sono alcuni dei temi che Simone Weil tratta in questi scritti, non più nella forma altamente condensata dei quaderni, ma in una trattazione distesa, come chiarendo in primo luogo a se stessa le sue abbaglianti intuizioni.
Il Diario di Etty Hillesum ha commosso i lettori di tutto il mondo, ed è ormai considerato fra le testimonianze più alte delle vittime della persecuzione nazista. Ora la versione integrale delle Lettere, scritte in gran parte dal lager di Westerbork – dove Etty andò di sua spontanea volontà, per portare soccorso e amore agli internati, e per "aiutare Dio» a non morire in loro –, ci permette di udire la sua voce fino all'ul­timo, fino alla cartolina gettata dal vagone merci che la conduce ad Auschwitz: "Ab­biamo lasciato il campo cantando». A Wes­terbork Etty vive «l'inferno degli altri», senza «illusioni eroiche», recando parole vere là dove il linguaggio è degradato a gergo, là dove i fossati del rancore dividono gli stessi prigionieri, contrapponendo ebrei o­landesi a ebrei tedeschi. La resistenza al male si compie in lei attraverso l'amicizia – nata nel campo o mantenuta viva con chi è rimasto libero e manda viveri e lettere –, attraverso la fede e grazie ai libri (come le poesie di Rilke) e alla natura: anche sopra le baracche corrono le nuvole e volano i gabbiani e brilla l'Orsa Maggiore. Per scrivere la storia del lager ci sarebbe voluto un poeta, non bastava la nuda cronaca, aveva detto un giorno un internato a Etty. Non sapeva che quel poema stava già prendendo forma, lettera dopo lettera. E che, da quel fazzoletto di brughiera recintata e battuta da turbini di sabbia, sarebbe giunto fi­no a noi rompendo un silenzio di decenni.