Si parla molto di amore nelle poesie di Wislawa Szymborska: ma se ne parla con una così impavida sicurezza di tocco e tonalità così sorprendenti che anche un tema sin troppo frequentato ci appare miracolosamente nuovo. «Sentite come ridono – è un insulto» scrive di due amanti felici. «È difficile immaginare dove si finirebbe / se il loro esempio fosse imitabile» – e ad ogni modo «Il tatto e la ragione impongono di tacerne / come d'uno scandalo nelle alte sfere della Vita». Anche parlando d'amore la voce della Szymborska sa dunque essere irresistibilmente ironica: non a caso Adam Zagajewski diceva di lei che «sembrava appena uscita da uno dei salotti parigini del Settecento». Ma sa anche essere, dietro lo schermo della colloquiale naturalezza e dell'ingannevole semplicità, grave e trafiggente, come quando affida a un panorama divenuto ormai intollerabile il compito di proclamare l'assenza («Non mi fa soffrire / che gli isolotti di ontani sull'acqua / abbiano di nuovo con che stormire») o all'amore a prima vista quello, ancor più temerario, di smascherare il caso-destino che ci governa: «Vorrei chiedere loro / se non ricordano – / una volta un faccia a faccia / in qualche porta girevole? / uno “scusi” nella ressa? / un “ha sbagliato numero” nella cornetta? / – ma conosco la risposta. / No, non ricordano».
L'amore per Orazio e il desiderio di tradurlo accompagnano Guido Ceronetti sin da quando, diciottenne, si cimentava in versioni oggi «ripudiatissime». L'Orazio interruptus viene poi ripreso al principio degli anni Ottanta col progetto, mai realizzato, di una piccola edizione concepita come prima tappa di un «viaggio ascetico verso il puro non-essere, lo spogliarsi d'ogni illusione e farsi 'jivanmukta' in compagnia di Orazio». Per Ceronetti, infatti, Orazio è lontano mille miglia dal poeta sondato e scrutato dalla filologia classica: il suo stile non è fredda accademia augustea, semmai «contrazione della vita, mediante l'impegno della parola», il che esige «tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria» - fuoco contratto, dunque. E a lui ancor meglio che a Kavafis si attaglia quel che diceva la Yourcenar: «Siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell'Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere». Dopo più di trent'anni il viaggio attraverso il «deserto fiorito» di Orazio ha preso la forma di ventotto traduzioni, che bastano a metterci di fronte a qualcosa di totalmente imprevisto: malgrado la sua fama ininterrotta, del più classico dei classici ci era sinora sfuggita l'anima segreta.
Pubblicato nel 1728 all'interno del terzo volume di Miscellanee di Jonathan Swift e Alexander Pope, il Perì Bathous, o L'arte di toccare il fondo in poesia è una divertita esplorazione dei bassifondi del Parnaso, una velenosa spigolatura di assurdità estetiche, un prontuario di sovversione poetica ad uso delle teste di legno erudite - il tutto addobbato nelle contegnose vesti della trattatistica classica sul sublime. Questa spietata disamina delle cause e delle manifestazioni del cattivo gusto in poesia nasce come esercizio collettivo dello Scriblerus Club, il circolo informale di letterati e politici Tory che, a partire dal 1714, furono di fatto proscritti dall'attività pubblica sotto l'incontrastata supremazia Whig. A perfezionare l'opera sarà il solo Pope: la sua condizione di outsider, oltre alla fama e agli anticipi per le sue traduzioni omeriche, faranno di lui il primo poeta inglese capace di fondare il proprio successo soltanto sul pubblico, senza le ingerenze del mecenatismo. Fu una carriera che improntò un'epoca e raggiunse l'apice nelle Imitazioni di Orazio, una serie di satire, odi ed epistole in distici eroici sull'arte e la letteratura. Fra queste, l'Epistola al dottor Arbuthnot - qui pubblicata con testo a fronte - è il coronamento del «lungo malanno» che fu la vita di Pope: un capolavoro che fonde autobiografia intima, struggente elegia dell'amicizia e satira abrasiva in una deflagrante miscela di furia, decorum, malizia, malinconia e felicità espressiva.
In questa raccolta, che copre l'intero arco dell'opera di Auden, il lettore non solo troverà tutte le sue poesie più celebri - riproposte in nuove o rinnovate traduzioni di Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica -, ma scoprirà un giacimento di tesori, quali si possono celare in un corpus di testi capace di ravvivare o reinventare all'occorrenza ogni forma della tradizione: dall'apocalittico all'arcadico, dal propagandistico al meditativo, dall'ironico al sentimentale, passando dalle antiche saghe islandesi a Dante, a Shakespeare, per approdare infine a Goethe. Con un saggio di Iosif Brodskij.
«Scrivevo poesie serie, tragiche» ha detto nel 1991 Zbigniew Herbert in un'intervista, paradossalmente deplorando l'abolizione della censura seguita alla caduta del Muro. «Adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore». In questa nuova atmosfera lirica, infatti, il poeta i cui versi Iosif Brodskij aveva definito come «una nitida figura geometrica ... incuneata a forza nella gelatina della mia materia cerebrale» (versi, aggiungeva, che il lettore si ritrova «marchiati a fuoco nella mente con la loro glaciale lucidità») – ebbene, quello stesso poeta che era stato così discreto, così poco incline a parlare di sé, lascia spazio alle confessioni intime di un io che abita ormai «sull'orlo del nulla» e ci consegna una sorta di testamento spirituale. Rimane, certo, il suo tono, quella «miscela di ironia, disperazione ed equilibrio» che già incantava Brodskij; e rimangono i temi che sempre sono stati al centro della sua ricerca espressiva: la memoria come vicinanza al passato e alla tradizione, l'azione corrosiva del tempo, il viaggio come fonte di ispirazione: ma accanto a questi c'è ora la stoica accettazione della sofferenza fisica e psicologica, accompagnata dalla gratitudine (così si legge nelle estreme composizioni di Breviario) per tutta «questa cianfrusaglia della vita» (e soprattutto, scrive, «per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane») – una vita che si lascia, tuttavia, con il «cuore pieno di rimpianto».
Egrette bianche, la quattordicesima raccolta di poesie di Derek Walcott, fonde elegia e rapsodia, sul ritmo di temi ricorrenti come l'eredità coloniale e lo spettro dell'impero, l'approssimarsi della morte e la scomparsa degli affetti, l'insofferenza per il turismo («una schiavitù senza catene, senza sangue sparso») e un amore per il viaggio vissuto nella consapevolezza – per citare Orazio – che «chi va per mare cambia cielo, non animo». Iosif Brodskij ha paragonato la poesia di Walcott alle onde di marea, a frangenti che montano, si ritirano e tornano a lambire la costa, mentre la magnificenza del suo linguaggio e la profusione di immagini evocano la lussureggiante natura delle Indie Occidentali. E il lettore non potrà che restare abbacinato a osservare «queste egrette / che incedono sul prato in truppe scomposte, bianche insegne / che arrancano derelitte; sono i rimpianti / scoloriti delle memorie di un vecchio, le loro strofe mai scritte. / Pagine che svolazzano come ali sul prato, segreti svelati».
Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divide in due la storia del XX secolo: l’at­tentato in cui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando. Prima di quel giorno, esisteva un mondo che presto sem­brò remoto. Dopo quel giorno, è già il nostro presente. Se le guardiamo da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine appaiono gremite, come tutte le altre, di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri fortuiti. Gilberto Forti ha avvicinato ad esse la lente della poe­sia e ne ha estratto undici «storie in versi» che si presentano con quella felice sobrietà narrativa di cui l’autore aveva già dato prova nel Piccolo almanacco di Radetzky. A parlare sono, ogni volta, personaggi immaginari che raccontano la real­tà. E subito ci vengono incontro voci e figure, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe, che «si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse», all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte all’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono tutti intorno a un centro: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi possiamo vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Im­ponente è la catena dei casi, delle inconsce volontà, dei consapevoli disegni che portarono a quei colpi di pistola, come se gli eventi fossero calamitati. E quasi come se la vittima li avesse cercati. Francesco Ferdinando qui non parla, ma altri parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Forti è riuscito a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: sterminatore di animali (più di trecentomila furono da lui uccisi cacciando), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico, finirà dissanguato sotto i colpi di Gavrilo Princip anche perché nessuno saprà aprirgli subito l’uni­forme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità.
"Aurore d'autunno" - tra le più alte espressioni poetiche del Novecento - è un libro semplice: giunto alla soglia dei settant'anni, Stevens medita in pentametri giambici sulla propria vita, sulla poesia e, di fronte allo spettacolo incandescente della natura, accusa il fallimento dell'immaginazione. "Le aurore d'autunno" scrive nel novembre 1950 al suo agente letterario parigino "sono le notti di primo autunno, che a volte a Hartford hanno lo stesso riverbero dell'aurora boreale". E la loro "effulgescenza artica" impone un nuovo registro linguistico: abbandonato il tono sublime, il vecchio poeta lascia che affiorino parole semplici, piane. È una vera e propria svolta mistica, che ci rivela uno Stevens insolito, fortemente antiapocalittico, incline piuttosto all'immanenza, a un appassionato rapporto con la terra: l'uomo è colto nel suo habitat naturale che è fatto di tempo atmosferico, e se alza gli occhi al cielo non vi vede nessun dio, nessuna traccia. Piuttosto, nel riverbero della luce boreale, le cose appaiono di una solitudine cosmica, e lo sguardo si abitua a un'assenza di rivelazione. È qui il punto di svolta antiromantica, antimetafisica delle Aurore. L'autunno non è la stagione keatsiana della bellezza e della ricchezza dolce e matura: verso la fine della vita, la realtà appare più povera di desiderio, più priva di speranza - e perciò più vera. In questo senso Stevens è, più di Eliot e di Pound, il poeta dell'epoca moderna.
Nell'ottobre del 1973, per esprimere il suo dissenso nei confronti di Perón, appena tornato al potere, Borges abbandona l'incarico di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires; contemporaneamente le condizioni di salute di sua madre, Leonor, cominciano a declinare in maniera inesorabile: morirà nel 1975, dopo una lunga agonia. Precisamente a questo arco temporale appartengono i testi poetici radunati in "La rosa profonda", sui quali, non a caso, il senso della fatalità e di un destino "di brevi gioie e lunghe sofferenze" - strumento di un Altro imperscrutabile - sembra gettare un'ombra lunga.
Ultima figura emblematica di una ormai classica tradizione modernista, erede e testimone di quel fecondo ambiente romeno di cui facevano parte Brancusi e Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, e come loro inevitabilmente esule, Nina Cassian ha percorso un tragitto artistico e umano singolare come la sua persona. Nel 1985, già titolare di una lunga carriera di successo (con qualche strappo al morso del regime), durante un soggiorno negli Stati Uniti finisce nel mirino della polizia, che ha scoperto certi suoi testi a dir poco caustici contro la politica e i politicanti del Paese: decide allora di non tornare in patria e chiede asilo politico. Qui, sostenuta e tradotta da vari poeti americani, rinasce a nuova vita. E la scelta, la riproposta, la traduzione, a volte la vera e propria ricreazione delle poesie romene precedenti l'esilio, nonché la stesura di nuovi componimenti - in romeno prima, e dopo qualche anno anche in inglese -, alimenteranno un corpus che non ha riscontri, né rivali, nell'odierno panorama poetico internazionale. Si avvertono, nella voce della Cassian, echi ravvicinati di tutta la più nobile stagione del Novecento: da Mandel'stam a Cvetaeva, da Apollinaire a Brecht a Celan, e si potrebbe risalire fino a Emily Dickinson, "sublime sorella", o anche più indietro, all'amoroso "furor" saffico.
Queste "opere in raccolta" segnano un punto di svolta nelle nostre conoscenze dell'autore. Questa nuova edizione non solo integra significativamente, attingendo a una vastissima e pressoché ignota produzione dispersa, il cosiddetto "canone Ambroise" (cioè il gruppo di opere che Sciascia stesso volle includere nei due volumi apparsi fra il 1987 e il 1991 a cura di Claude Ambroise), ma soprattutto mira a ricostruire, sulla base di un rigoroso studio di manoscritti e dattiloscritti, la genesi e la storia dei testi. I due volumi saranno organizzati per tipologie testuali: narrativa, testi teatrali, poesie e traduzioni poetiche (vol. I); racconti-inchiesta, "inquisizioni", cronachette e memorie (vol. II, tomo I); saggi letterari, storici, d'arte e civili (vol. II, tomo II). Li correderanno rigorose note ai testi, una bibliografia esaustiva degli scritti di Sciascia e un indice dei nomi (autori e opere citati, personaggi letterari).
Per i moltissimi, appassionati lettori di Wislawa Szymborska, scomparsa nel febbraio 2012, questa raccolta postuma sarà come un emozionante commiato, in cui sentir vibrare per l'ultima volta le note inconfondibili della sua poesia: in Un tale che osservo da un po' di tempo l'anonimo protagonista è un netturbino che conduce una silenziosa battaglia contro l'entropia raccogliendo una gabbietta abbandonata fra i cespugli e portandola via con sé, "perché resti vuota"; in Coercizione la Szymborska incrina le certezze dei vegetariani evocando le sofferenze di una foglia di insalata: "Anche l'uomo più buono / addenta e digerisce qualcosa di ammazzato / perché il suo cuore tenero / non cessi di pompare". Altrove ecco affiorare un quadro metafisico in cui gli oggetti continuano a compiere imperturbabili il proprio dovere, anche quando intorno a loro tutto è morte e desolazione: così uno specchio, in una casa distrutta da un bombardamento, "Non rifletteva più nessuna faccia", eppure "funzionava in modo inappuntabile, / con professionale assenza di stupore". Ma c'è anche una lirica d'amore, lievissima come l'abbraccio all'aeroporto di due amanti che si rivedono dopò una lunga assenza, intabarrati in abiti invernali, sciarpe, cappelli, guanti e stivali, "ma solo ai nostri occhi. / Ai loro sono nudi". Infine, in A una mia poesia, la Szymborska ci lascia con l'immagine ironica di una poesia che scompare nel nulla, senza essere mai stata messa per iscritto, borbottando soddisfatta qualcosa tra sé e sé.