"È sempre sbagliato, ovunque e per chiunque, credere a qualcosa in base a evidenze insufficienti". Queste parole riassumono il progetto filosofico di William K. Clifford e la sua critica radicale verso ogni credenza religiosa. Inserendosi da protagonista nell'infuocato dibattito tra scienza e religione dell'Inghilterra vittoriana, il giovane filosofo e matematico articolava con grande finezza e ironia il suo pensiero. Il "dovere della ricerca", nemico di ogni principio di autorità, era per Clifford una condizione necessaria, tanto che per lui esisteva "soltanto una cosa più perversa del desiderio di comandare: la volontà di ubbidire". Claudio Bartocci e Giulio Giorello presentano qui, per la prima volta in italiano, i tre saggi più importanti e affilati del filosofo-matematico inglese, tanto attuali quanto sorprendenti nella loro chiarezza.
Oggi, più che del declino dei valori, forse occorrerebbe parlare della pericolosa incertezza in cui versano i discorsi. Il dibattito pubblico deraglia anche per la profonda confusione che riguarda certe parole-cardine della vita associata, come appunto "verità". La filosofia contemporanea ha riflettuto a lungo sulla nozione di verità, ma se poco o nulla è trapelato nella sfera pubblica, la mancata comunicazione va imputata ai filosofi stessi, troppo chiusi in ambiti di ricerca non dialoganti, innanzitutto, tra loro. Finalmente una delle filosofe italiane più lette crea il ponte di cui c'era bisogno, trattando la verità come un concetto "speciale", ossia fondamentale e trasversale, che va chiarito preliminarmente per non incorrere in abusi e fraintendimenti. Franca D'Agostini ci spiega in che cosa consiste la straordinarietà di questa parola, ne precisa significato e uso e ne discute la legittimità. A scettici e nichilisti raccomanda: rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità. Se infatti scienza, cultura, politica, religione si avvalessero di logiche più duttili e metafisiche più permissive, è probabile che molte difficoltà a discriminare il vero dal falso verrebbero meno.
Negli ultimi vent'anni del Novecento una revisione radicale e destabilizzante ha coinvolto i presupposti etnocentrici del pensiero antropologico, filosofico e politico dell'Occidente. Stava cambiando la geopolitica del pianeta e cominciava a vacillare la proiezione sulle altre culture delle nostre categorie di soggettività, storia, sovranità, cittadinanza, universalità, emancipazione. Il nuovo assetto ha sollecitato il fiorire di studi cosiddetti «postcoloniali», accomunati dalla pratica del contagio. Da allora la contaminazione fra concezioni a prima vista inconciliabili della vita associata appare più proficua dell'arroccamento difensivo, mentre il migrare di concetti e principi segue la diaspora dei corpi in carne e ossa: perde il suo connotato privativo per trasformarsi in uno stato d'elezione. Essere sempre «fuori posto» aiuta infatti a guardare il mondo e se stessi con occhi diversi. Di questo «contrabbando incontrollato di idee al di là delle linee» – secondo il motto fulminante di Edward Said – il saggio di Emanuela Fornari costituisce la prima, completa ricognizione in chiave filosofica. Non c'è linea di frattura o spostamento di confine disciplinare che sfugga alla sua indagine ricostruttiva. Nella consapevolezza che non tutto è trasferibile da una cultura a un'altra, e che va salvaguardato quel coefficiente di intraducibilità di fronte al quale è possibile solo un silenzio a più voci.
Emanuela Fornari è ricercatrice presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, dove insegna Ermeneutica filosofica e Filosofia sociale. Ha pubblicato, oltre a diversi saggi in volumi collettanei in riviste italiane e straniere, Modernità fuori luogo. Democrazia globale e «valori asiatici» in Jürgen Habermas e Amartya Sen (2005), di cui è apparsa l'edizione inglese nel 2007.
Dai lavori dei tardi anni sessanta all’ultimo, decisivo contributo sulla biolinguistica, qui sono presenti tutti i capisaldi del Chomsky teorico. «Il contributo maggiore allo studio del linguaggio risiederà nella conoscenza che esso può fornire quanto al carattere dei processi mentali e alle strutture che essi formano e manipolano»: la sua affermazione, datata 1967, si è rivelata profetica. Partendo dal presupposto che compito di una teoria generale della struttura linguistica sia esplicitare le regole grammaticali che consentono di generare infinite frasi, Chomsky ha indagato i princìpi di una «grammatica universale» anche alla luce di una prospettiva biolinguistica che si misura con le nuove acquisizioni del cognitivismo e delle neuroscienze, e affronta inediti, radicali interrogativi.
il contenuto
Costa Azzurra, autunno 1932. Una filosofa di trentasette anni, priva di status accademico e di notorietà, scrive a Daniel Halévy per raccontargli il suo incontro con un libro tedesco uscito nel 1927 e destinato a segnare il pensiero del Novecento: Essere e tempo. L’autore, Martin Heidegger, all’epoca è pressoché sconosciuto in Francia. La giovane lettrice va subito al cuore di quel testo denso, quasi intraducibile, e sa spiegarlo al suo interlocutore con una limpidezza che ancora oggi lascia stupefatti. Le bastano poche pagine per toccarne i punti salienti, che «rendono palpabile la presenza del nulla», e per intuire come perfino i passi più ardui non siano frutto di pura «ingegnosità verbale», bensì rispondano al bisogno di «vincere in noi l’opacità e l’impermeabilità che si oppongono alla nostra chiaroveggenza». Legge Essere e tempo anche da musicista, come se si trattasse di una partitura di Bach: un’Arte della fuga sul tema dell’Essere.
l'autore
Rachel Bespaloff (1895-1949), ebrea di origini ucraine, visse in Svizzera e in Francia, riparando negli Stati Uniti nel 1942, dove insegnò Letteratura francese presso il College di Mount Holyoke, nel Massachusetts. Morì suicida. Aveva una formazione musicale: alla filosofia arrivò solo a metà degli anni venti, quando conobbe il conterraneo Lev Šestov. In seguito fu l’interlocutrice di intellettuali francesi di spicco, tra cui Jean Wahl e Gabriel Marcel. Raccolse i suoi saggi in Cheminements et Carrefours (1938, n. ed. 2004). Di recente sono apparse le Lettres à Jean Wahl 1937-1947 (2003). In italiano è disponibile Dell’«Iliade» (2004).
il contenuto
Se il mondo è un insieme plurale di esseri singolari – come scandisce una nota formula filosofica –, un’etica all’altezza del fenomeno che chiamiamo «globalizzazione» non potrà che far valere sino in fondo le buone ragioni di questa coappartenenza, intervenendo sugli sviluppi disturbati, tipici della modernità e dei suoi esiti ultimi, e caratterizzati dalla cattiva polarità tra ossessione dell’io e ossessione del noi: individualismo illimitato nella sua versione tarda, narcisistica, e comunitarismo immunitario, che trova difensivamente alimento nel bisogno di un legame sociale ormai eroso. Entrambi configurano una patologia del sentire, l’uno per assenza, il secondo per eccesso di pathos. Secondo Elena Pulcini è appunto dalle passioni, dalla loro funzione cognitiva e comunicativa, che occorre ripartire. Si rivelerà decisivo riuscire a governare la paura, fondamentale passione della vita associata da riattivare attraverso una metamorfosi virtuosa, che al tempo stesso ne costituisca il risveglio emotivo e la ponga come precondizione dell’agire morale.
Essere consapevoli della propria vulnerabilità di soggetti non sovrani e prendere atto della realtà della contaminazione sono i presupposti che insegnano, al di là di un astratto doverismo e di malinteso alturismo, ad avere paura per, invece che ad avere paura di. E paura per il mondo significa cura del mondo. Con l’idea di cura, intesa nell’accezione classica di preoccupazione e sollecitudine, si affaccia una nuova nozione, emancipativa, di responsabilità, dove l’accento è spostato sul rispondere a, sul venir meno della rigidità identitaria.
l'autore
Elena Pulcini insegna Filosofia sociale all’Università di Firenze. A partire da Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e l’origine di un conflitto moderno (Marsilio, 1990), i suoi numerosi saggi riflettono, all’interno di una teoria della modernità, su individualismo, passioni, soggettività femminile e legame sociale. Ha curato con Dimitri D’Andrea Filosofie della globalizzazione (ETS, 2001) e con Mariapaola Fimiani e Vanna Gessa Kurotschka Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale (Editori Riuniti, 2004). Ha collaborato al libro collettivo Common Passion, Different Voices. Reflections on Citizenship and Intersubjectivity (Raw Nerve, 2006). Per Bollati Boringhieri ha pubblicato: L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale (2001) e Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura (2003).
il contenuto
Nel presentare la storia della fisica dello spazio-tempo da Newton a Einstein, come un processo filosofico in costante evoluzione, Robert DiSalle offre un punto di vista nuovo sulle relazioni tra i concetti di spazio e di tempo e la nostra conoscenza fisica. Egli muove dal presupposto che l’influenza della filosofia sulla fisica si sia manifestata in primo luogo sul piano dell’analisi filosofica dei concetti di spazio, tempo e movimento, e sul ruolo svolto da questi ultimi nella formulazione di ipotesi sulla realtà fisica. Alla luce di questa premessa, diventa possibile interpretare in una chiave originale l’opera di Newton e di Einstein e i loro punti di contatto, mettendo da parte la tradizionale controversia metafisica sulla natura assoluta o relazionale dello spazio-tempo.
In questo modo, DiSalle apre una prospettiva nuova su domande antiche che riguardano la conoscenza a priori, l’interpretazione fisica della matematica e la natura del mutamento concettuale.
l'autore
Robert DiSalle insegna presso il Dipartimento di Filosofia della University of Western Ontario è attualmente visiting professor alla Princeton University. Le sue ricerche riguardano la storia e la filosofia della scienza, con particolare attenzione per la storia e la filosofia della fisica da Newton ai giorni nostri.
Secondo Giacomo Marramao, che affronta in questo libro lo straordinario "mutamento di scala" che accompagna i fenomeni politici della nostra epoca, il ricorso alle categorie di "mondializzazione" o "globalizzazione" non ha solo un significato tecno-economico. Siamo di fronte a un passaggio destinato a trasformare tutte le culture, che chiama in causa una riconversione di concetti fondamentali come identità e differenza, contingenza e necessità, nonché, per cominciare, locale e globale. Rispetto a diagnosi apparentemente antitetiche come quelle di Fukuyama (omologazione universale) e Huntington (conflitto delle civiltà), per Marramao è necessario demistificare due false opposizioni: Stato-mercato e Oriente-Occidente. A tale scopo, il libro, tenendo costantemente sullo sfondo la grande discussione sull'"èra globale" avviata fra le due guerre da autori come Spengler, Jünger, Schmitt e Heidegger, sviluppa la sua proposta muovendo dal disincanto della categoria di mercato operato da Polanyi e da una profonda revisione della comparatistica i delle civiltà operata da Weber. L'esigenza - avanzata in conclusione attraverso un serrato confronto con le posizioni di Habermas e di Derrida - di una "politica universalista della differenza" viene formulata in base a un radicale riesame critico delle pretese di universalità delle stesse categorie, tipicamente occidentali, di democrazia e filosofia.
In questo libro, Luce Irigaray, uno dei più innovativi pensatori del nostro tempo, torna a interrogare il rapporto con l'alterità. Siamo infatti abituati a considerare l'altro come un individuo tra tanti senza dedicare abbastanza attenzione al mondo e alla cultura a cui appartiene. La nostra maniera di vivere l'alterità risulta quindi sottoposta ai nostri propri valori e l'altro, sia esso il nostro compagno o la nostra compagna, un figlio, un amico, un'amica, oppure uno straniero, è avvicinato come un simile. La differenza tra noi è allora percepita in modo esclusivamente quantitativo, non qualitativamente, e questo non favorisce la coesistenza, la pace, l'amore. Dopo la critica nietzcheana alla tradizione culturale dell'Occidente e la decostruzione heideggeriana della nostra concezione della verità, Luce Irigaray, in quanto donna, chiama in causa la validità dei concetti di similitudine, similarità, identità e, perfino, uguaglianza, che stanno alla base della logica occidentale. L'autrice spiega come, prima di cercare la trascendenza in qualche ideale soprasensibile, che non corrisponde alla nostra totale e universale umanità, sia necessario rispettare la trascendenza dell'altro, qui e vicino a noi, cioè la sua irriducibile alterità.
L'uomo tende a interpretare tutto quanto non rientra nella propria esperienza diretta o nel cerchio rassicurante della tribù come un pericolo, una minaccia anche mortale. Di qui i suoi atteggiamenti aggressivi, per cui il diverso e l'altro vengono intesi come un nemico potenziale o reale. Un pregiudizio che continua ad alimentare i tanti conflitti che squassano le società contemporanee. (Introduzione di Ernesto Ferrero)
"Dalla teologia cristiana derivano due paradigmi politici in senso lato, antinomici ma funzionalmente connessi: la teologia politica, che fonda nell'unico Dio la trascendenza del potere sovrano, e la teologia economica, che sostituisce a questa l'idea di una "oikonomia" concepita come un ordine immanente - domestico e non politico in senso stretto - tanto della vita divina quanto di quella umana. Dal primo, derivano la filosofia politica e la teoria moderna della sovranità; dal secondo, la biopolitica moderna fino all'attuale trionfo dell'economia e del governo su ogni altro aspetto della vita sociale". Con quest'opera, qui riproposta con un inedito apparato iconografico, l'indagine sulla genealogia del potere iniziata da Agamben con "Homo sacer" giunge a uno snodo decisivo. Il potere moderno - mostra Agamben non è soltanto "governo", ma anche "gloria" e gli aspetti cerimoniali, liturgici e acclamatorii che siamo abituati a considerare come un residuo del passato costituiscono invece tuttora la base del potere occidentale. Attraverso un'analisi affascinante delle acclamazioni liturgiche e dei simboli cerimoniali del potere, dal trono alla corona, dalla porpora ai fasci littori, lo studioso getta una luce nuova sulla funzione del consenso e dei media nelle democrazie moderne. Un libro che rinnova profondamente tutta la nostra visione della politica.
Le lezioni di "Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale" furono tenute da Ludovico Geymonat dal 1946 al 1949 per il corso di Storia delle matematiche all'Università di Torino e non sono mai state ristampate. Sono invece un documento importante per la valutazione dello sviluppo del pensiero di Geymonat: rappresentano il momento in cui - dopo il soggiorno in Germania prima della guerra, e dopo la guerra e la resistenza - Geymonat, nel tornare agli studi, si orienta decisamente alla matematica. Nell'esposizione si riconosce in atto il principio ispiratore del successivo percorso di riflessione di Geymonat, convinto che la disposizione della filosofia nei confronti della scienza debba essere quella di cogliere dall'interno del suo sviluppo effettivo gli aspetti di significato filosofico. Il testo di Geymonat, per quel che riguarda il periodo dell'Ottocento, riserva una rara e competente attenzione al movimento del rigore e alla nascita della teoria degli insiemi nell'alveo dell'analisi.