Il De Ente et Uno, qui presentato in nuova edizione critica e traduzione, costituisce uno dei vertici della filosofia dell’Umanesimo italiano. In quest’opera, frutto del più “maturo” pensiero di Giovanni Pico della Mirandola, l’enfant prodige del Rinascimento in brevi capitoli di approfondita riflessione teoretica, cesellati con passaggi degni della prosa dei più ispirati mistici, tenta di gettare le basi della conciliazione tra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, momento aurorale del suo vagheggiato progetto di riunificazione del sapere universale. Il testo è accompagnato dalla prima traduzione italiana delle obiezioni del filosofo faentino Antonio Cittadini al De Ente et Uno e dalle risposte di Giovanni Pico. Il volume è curato da Raphael Ebgi (dottorando in “Metafisica” presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano) e, per la parte filologica, da Franco Bacchelli. Completano l’opera una prefazione di Marco Bertozzi e una postfazione di Massimo Cacciari.
Il volume raccoglie i due scritti più importanti e corposi appartenenti alla prima fase di attività intellettuale del pensatore russo, quando – stando al suo stesso giudizio – “riteneva” ancora di essere un critico letterario. Si tratta peraltro di due testi assai eterogenei, di diversa natura e anche di diversa importanza. Shakespeare e il suo critico Brandes è la prima opera pubblicata da Sv estov in volume autonomo, nel 1898, e la traduzione qui proposta è la prima edizione a livello mondiale in una lingua che non sia l’originale russo. La lettura di Shakespeare risente della recente “scoperta” da parte di Sv estov dell’opera filosofica di Nietzsche, e manifesta un’importante impronta interpretativa tragica, contrastante quando non apertamente polemizzante con la visione del critico danese Brandes. Il valore positivo dell’idea di tragico, incarnato dalla grandezza e dalla dignità morale dei Bruto e dei Coriolano, sarà ben presto soppiantato da una tragicità – sempre su orme nietzschiane – progressivamente più disperata. Una delle prime testimonianze dell’involuzione disperata del tragico è allora proprio l’inedito e incompiuto scritto su Turgenev, abbozzo di testo critico dedicato a Turgenev e Cv echov, il cui contenuto sarebbe confluito in buona parte nella Apoteosi dell’infondatezza di poco posteriore, dove per la prima volta lo shakespeariano “tempo” che è “uscito dai cardini” giunge fino in fondo al suo cammino lasciando il pensiero a una altezza intollerabile per la ragione e per le costruzioni pacificate e onnicomprensive dell’intelletto. Qui nemmeno il riscatto morale troverà più luogo, e come unica via d’uscita rimarrà da quel momento in poi l’invocazione all’Assurdo di Dio e alla contrapposizione Atene-Gerusalemme.
Vladimir Sergeevicv Solov’ëv (1853-1900),visionario profeta del dialogo e tenero amante della Sapienza Divina, scrisse “Il dramma della vita di Platone”nel 1898, lo stesso anno del secondo viaggio in Egitto allorquando cominciarono i primi segni di cedimento fisico dovuti al troppo lavoro. In XXX paragrafi Solov’ëv analizza –facendo precedere il tutto da una lunga introduzione su come intendere il concetto di “dramma” nel pensiero greco a partire dai pre-socratici– il legame tra la teoria dell’amore di Platone (o meglio: la sua “crisi erotica”, proprio per come la definisce Solov’ëv) e il consequenziale mutamento della sua visione del mondo. L’autore si chiede quale sia la svolta (e ‘quando’, oltre al ‘come’, precisamente, si sia consumata) che induce Platone –fino a quel momento pensatore del “non essente”, fondatore del ‘pensare’ metafisico e delle questioni gnoseologiche astrattamente interpretate– a dedicare le sue migliori opere all’amore. Un argomento fino ad allora non specificatamente rientrato nell’ordinarietà della sua sfera filosofica che lo porta alla proposizione di una teoria che non trova punti di appoggio nelle sue ‘visioni’ precedenti e che ha lasciato, in tutto il successivo corso del suo pensiero, un’impronta profonda, determinante. Ancor prima della contrapposizione tra il “vero essere” e l’umbratile “divenire”, l’apparente o il fenomeno, Platone, sotto l’influsso della dottrina e della morte di Socrate, presentì la contrapposizione etica tra ciò che deve essere e ciò che effettivamente è, tra l’autentico ordine morale e l’ordinamento della società data. Questo fu il ‘dramma’ vissuto da Platone e dalla risposta di Solov’ëv alla domanda precedente concludiamo che la revisione del pensiero filosofico platonico fu determinata proprio da tale ‘crisi’ (da cui scaturisce, appunto, la sua teoria dell’amore) che è concepibile solo come progresso del suo idealismo letteralmente imposto dalle esigenze di una nuova esperienza esistenziale.
La dialettica della durata è stata pubblicata nel 1936, nel pieno del surrazionalismo di Gaston Bachelard (1884-1962), ossia della dottrina epistemologica più spregiudicata e provocatoria del secolo scorso, pure in così piena sintonia con le rivoluzioni relativistica e quantistica della scienza fisica. Lo scritto critica in maniera costruttiva la nozione tradizionale di durata e propone l’originalissima nozione del tempo come scintillanza quantica. Oltre che per la profonda opera di scavo del concetto di durata, per il superamento netto del bergsonismo e per le proposte innovative nella riflessione sulla temporalità, il testo si caratterizza per la lucida prospettazione di una futura disciplina epistemologica: la ritmologia. Uno dei pochi libri filosoficamente decisivi sul problema del tempo. L’edizione è stata curata da Domenica Mollica, studiosa del pensiero epistemologico francese del XX secolo. Questa sua traduzione restituisce con grande sapienza lo stile immaginifico ma al contempo scientificamente sorvegliato dell’originale francese.
Vi sono poi altre azioni le quali, sia che derivino dalla natura, sia da disposizioni dell’animo, possono essere buone e cattive: buone, se vengono ricondotte alla giusta misura da alcune circostanze, cattive, invece, se vengono spinte ad un estremo. Ora, le azioni dei Cortigiani sono di questo genere, sia che consistano in parole, sia in impulsi dell’animo, sia in gesti. Le circostanze – come spiegò Aristotele, il principe dei filosofi – sono: il “chi”, che si riferisce alla persona che è l’agente principale. Non è infatti di poca importanza se Platone ami sua moglie o se Socrate sia adultero. Il “che cosa”, cioè che cosa la persona fa, che riguarda la specie dell’atto. C’è molta differenza, infatti, se uno mangia per sfamarsi o se è spinto a soddisfare la libidine con atto venereo. “Riguardo cosa” che considera la materia ossia l’oggetto. “In quale tempo” o “in quale luogo”, naturalmente. “Con quale mezzo” e “a causa di che cosa”: per salvarsi oppure per voluttà. E “in che modo” cioè intensamente o con calma, con delicatezza o con veemenza.
L'Io impara a parlare sempre più onestamente:
e quanto più impara, tanto più trova parole per onorare
il corpo e la terra. Un nuovo orgoglio mi insegnò
il mio Io, ed io lo insegno agli uomini: di non ficcare
più il capo nella sabbia delle cose celesti, ma di portarlo
libero, un capo terreno che dà senso alla terra!
Una nuova volontà insegno io agli uomini: volere questa
via che l'uomo ha finora percorso alla cieca, e approvarla
e non discostarsene più furtivamente come fanno
gli ammalati e i moribondi!
Così parlò Zarathustra (1883-1885), uno dei cinque libri titanici dell’umanità secondo T.E. Lawrence, è, nel “sistema Nietzsche”, l’esplosione del suo genio linguistico e un’opera misteriosa, nella sua abbagliante chiarezza, che illumina le opere precedenti e susseguenti come il sole i suoi pianeti. È, in una corona di tutte opere scettiche, un’opera affermativa, in cui Nietzsche raggiunge le sue dimensioni ottime e massime, facendo rifulgere le sue grandissime doti di moralista, poeta, psicologo e profeta. È il vangelo della purezza, che si contrappone al vangelo della carità, l’esaltazione della vita nella sua tragica caducità contro ogni trascendenza, un inno alla grandezza con radici terrestri e la sua fenomenologia nel mondo, la sua “storia ideale eterna” iscritta nell’accidentato cammino del suo divenire terreno e del martirio che incombe a chi si mette sul suo sentiero solitario. È il vero Ecce homo, non sbandierato al pubblico, ma sussurrato a se stesso in timore e tremore. La classica traduzione di Sossio Giametta, uno dei più rinomati interpreti italiani di Nietzsche, viene presentata per la prima volta con il testo tedesco a fronte dell’edizione Colli-Montinari, con un ampio saggio introduttivo, un commento analitico e una bibliografia nietzschiana aggiornata al 2010.
Pubblicato a Parigi per la prima volta nel 1939, Schiavitù e libertà dell’uomo è l’opera fondamentale che attesta l’interesse acquisito dall’autore nel corso degli anni ’30 per la tematica della persona. In questo senso costituisce anche uno dei momenti più elevati dell’itinerario speculativo del filosofo Berdjaev, che dopo il suo trasferimento in Occidente prese parte attiva nel dibattito filosofico, soprattutto francese, entrando in contatto con gli ambienti della filosofia dell'esistenza e fondando insieme a E. Mounier la rivista Esprit. Composto secondo una struttura non nuova a Berdjaev, il testo sviluppa gli elementi di specificità teorica nella concezione filosofica della persona e della trascendenza cui essa inevitabilmente rimanda, passando quindi in rassegna – successivamente – le diverse possibilità di “oggettivazione”, in cui la libertà della persona stessa può trovare fonti di seduzione e di asservimento. Si tratta di un testo che combina in maniera penetrante speculazione teorica e filosofia sociale (nei suoi attacchi al collettivismo socialista, al capitalismo, al nazionalismo) e che, pubblicato alla vigilia della tragedia della Seconda Guerra Mondiale, si presenta al lettore quasi come la voce di una profezia.
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“Legga la Logica di Lotze”. L’invito perentorio di Martin Heidegger a colloquio con un suo allievo, Georg Picht, è forse la miglior esortazione a fare propria quella selva di argomentazioni logiche attraverso le quali il maestro di Messkirch si è “dovuto fare largo”. Un’opera, quella di Lotze, che ha riscosso l’ammirazione di Husserl, il quale ne esaltava in specie “la geniale interpretazione della dottrina platonica delle idee”, ma anche del ‘primo’ Heidegger che ne aveva avuto contezza grazie alla pregevole cura e introduzione di Georg Misch (1912), sulla quale è stata condotta la presente traduzione. Misch riproduce la seconda edizione, quella del 1880, che contiene, tra l’altro, la ‘nota sul calcolo logico’, ovvero un confronto serrato con l’algebra della logica di Georg Boole, ma anche di Jevons e Schröder. La “più difficile” opera di Lotze, per sua stessa ammissione, si staglia come un ‘unicum’ nella sua produzione e rappresenta una tappa imprescindibile per chi voglia accostarsi a quello snodo del pensiero in cui confluiscono neokantismo, filosofia dei valori, fenomenologia, psicologia fisiologica e descrittiva, nonché proto- esistenzialismo. È stata altresì riscoperta nel dibattito analitico degli anni ’80 del secolo scorso, grazie agli interventi di Sluga, Dummett e Gabriel che ne hanno messo in luce la prossimità con la successiva opera di Frege (allievo di Lotze a Göttingen). Sarebbe, ad avviso di Sluga e Gabriel, anticipatrice del cosiddetto ‘terzo regno’ fregeano, quello dei pensieri. Meno fortunata e meno tradotta del Mikrokosmus, la Logik, prima parte di un System der Philosophie rimasto incompiuto, raccoglie nel I libro le riflessioni della ‘piccola logica’ del 1843, sostanzialmente immodificata, e vi affianca una ‘logica applicata’ (II libro) nonché una ‘teoria della conoscenza’ (III libro) denominata ‘metodologia’ con un significato del tutto peculiare. La chiusa dell’opera, diventata celebre perché citata da Husserl ne La filosofia come scienza rigorosa, sintetizza da un lato l’istanza di recuperare l’intuizione speculativa a fronte dell’idolatria universale dell’esperienza, e dall’altro auspica per la filosofia tedesca – e per la filosofia tout court – una ‘rinascita’ “nel tentativo non solo di calcolare bensì di comprendere il corso del mondo”.
Rudolf Hermann Lotze
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I Mechanica appartenenti al Corpus Aristotelicum costituiscono il più antico trattato greco di meccanica che ci sia pervenuto. Essi hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo della scienza antica e moderna, almeno fino a Galileo, che ben conosceva questa opera. Il testo greco è riprodotto secondo l’edizione di Immanuel Bekker, tranne in alcuni punti in cui la curatrice se ne discosta.
“Dopo che l’esperienza
mi ebbe insegnato come fossero vane
e futili tutte quelle cose
che capitano così frequentemente
nella vita quotidiana, decisi infine
di cercare se ci fosse qualcosa
che mi facesse godere in eterno
di una continua e somma letizia.”
Il volume offre al lettore italiano le opere complete di Baruch Spinoza, per la prima volta presentate con testo a fronte, secondo l’ormai storica edizione critica di Carl Gebhardt, opportunamente adattata. Vissuto nel pieno della rivoluzione scientifica e nel clima di fervore religioso e politico dell’Olanda del Seicento, Spinoza rappresenta uno dei pensatori più importanti della storia del pensiero Occidentale. La sua riflessione si forgia alla confluenza di molteplici tradizioni, unificando in una sintesi di straordinaria ricchezza tanto suggestioni tipicamente ebraiche quanto i risultati più avanzati della nuova filosofia cartesiana. Destinato dapprima a un’unanime condanna dai suoi contemporanei, immortalato poi nell’immagine dell’“ateo virtuoso”, Spinoza è oggi al centro del dibattito filosofico internazionale, per l’estrema rilevanza sia storiografica che intellettuale ricoperta dai suoi scritti. Se il Trattato teologico-politico può ben dirsi uno dei manifesti del liberalismo seicentesco, i cui valori di tutela della libertà di pensiero e di culto costituiscono senz’altro uno dei fondamenti della nostra civiltà, dalle pagine dell’Etica emerge un sistema metafisico, epistemologico e morale con cui i grandissimi nomi della filosofia successiva – da Leibniz a Hegel, da Marx a Nietzsche – hanno sempre avvertito l’esigenza di confrontarsi. Ma il lettore potrà meglio destreggiarsi tra le pagine dei due sommi capolavori spinoziani grazie alle altre opere qui pubblicate, di non certo minor rilievo: il Trattato sull’emendazione dell’intelletto e il Breve trattato costituiscono infatti i prodromi essenziali per comprendere le linee guida dell’Etica, così come i Principi della filosofia di Cartesio e Pensieri Metafisici offrono un materiale prezioso per valutare il rapporto di Spinoza con il suo grande maestro Cartesio. Ma è altresì dal Trattato politico che emerge più compiutamente l’idea spinoziana della scienza politica intesa come architettura delle istituzioni, così come è dal Compendio di grammatica ebraica – qui per la prima volta offerto in traduzione italiana – che si rileva la straordinaria attenzione dedicata dal filosofo alla lingua santa. L’Epistolario costituisce invece il luogo privilegiato non solo per seguire gli importanti rapporti di amicizia e scambio culturale con i suoi contemporanei (tra cui Leibniz), ma anche per vedere discusse le principali difficoltà sorte intorno alle opere che il filosofo andava elaborando. Il volume è infine corredato dai due brevi trattatelli Sull’arcobaleno e Sul calcolo delle probabilità – anch’essi per la prima volta tradotti in italiano – che danno un’idea dell’attenzione di Spinoza per le conquiste più avanzate della scienza moderna. La Prefazione, tratta dagli Opera Posthuma, conclude quindi offrendo una testimonianza del modo in cui le opere del pensatore olandese erano state offerte per la prima volta al pubblico nel 1677. L’ampio saggio introduttivo, le note esplicative, gli indici, nonché l’amplissima bibliografia ragionata, che dà conto in modo esaustivo degli studi apparsi su Spinoza tra il 1978 e il 2008, offrono al lettore altrettanti strumenti per agevolarlo nello studio di un corpus di opere tanto complesso quanto affascinante.
“‘Gnosi’ è ‘conoscenza di chi eravamo,
di ciò che siamo diventati; da dove eravamo,
dove siamo stati gettati; dove ci affrettiamo,
da dove siamo redenti; che cosa è nascita
e che cosa è rinascita’ (Excerp. ex Theod. 78, 1).
Qui si trova [...] una completa
schematizzazione del mito gnostico.
Dobbiamo solo attenerci a essa per ricevere
una guida sicura nell’intera molteplicità
della mitologia e della speculazione gnostica.”
Che la tarda antichità possieda una propria unità intrinseca, che sia guidata da un principio spirituale originale e che questo coincida con lo spirito gnostico, sorto in Oriente intorno alla nascita di Cristo e diffuso poi in tutto l’Occidente greco-romano, questa è la tesi di fondo che anima Gnosi e spirito tardoantico e che l’Autore si sforza di dimostrare con puntuali analisi contro ogni giudizio di decadenza, di mero sincretismo su quest’epoca o ogni tentativo di ricondurla a tradizioni passate. Miti gnostici, culti misterici, apocalittica giudaica, primo cristianesimo, letteratura ermetica, filosofia neoplatonica e mistica monastica: tutte mostrano di condividere una stessa cornice storico-spirituale che articola un senso assolutamente nuovo del sé, del mondo e di Dio e della loro relazione: questa è “gnosi”, conoscenza della verità sulla condizione umana, rivelazione di un radicale dualismo tra sé e mondo che orienta verso una dinamica di fuga demondizzante nell’aldilà, quale unica via di ritorno all’origine divina e dunque di salvezza. In questo quadro si sviluppa un’opera che è, da un lato, sintesi magistrale delle ricerche storico-religiose sul tema mediante l’uso dell’ermeneutica demitizzante di Bultmann e della fenomenologia esistenziale di Heidegger, entrambi maestri di Jonas, dall’altro tentativo fecondo di descrivere una forma di esistenza qualificata dal rifiuto del mondo e ricorrente variamente nella storia. Da qui Heidegger, l’esistenzialismo, che gli avevano permesso di interpretare la gnosi, sono ora essi stessi letti in senso gnostico: in un affascinante rispecchiamento tra passato e presente, la gnosi non è dunque chiusa in un tempo lontano, ma è una possibilità esistenziale tuttora viva – e per Jonas non priva di pericoli.
“Aristotele, quando seppe
che dall’inquisitore ateniese
gli era stata inferta la stessa morte
di Socrate, abbandonò Atene.
E a chi gliene chiese il motivo rispose:
‘Perché gli Ateniesi
non pecchino una seconda volta
contro la filosofia’.”
La filosofia di Giulio Cesare Vanini (Taurisano 1585 - Tolosa 1619) è probabilmente l’espressione più estrema del radicalismo della seconda decade del Seicento. Il pensatore pugliese, inizialmente frate carmelitano, rappresenta in qualche modo la coscienza filosofica in cui vengono alla luce tutti gli elementi di crisi dell’eredità umanisticorinascimentale: demolisce il mito dell’antropocentrismo, scardina i princìpi del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare i pilastri dell’aristotelismo concordistico, smantella la costruzione di un universo compatto, finito, armonizzato, avente al suo vertice Dio e la schiera delle intelligenze angeliche, stronca ogni forma di teleologismo, sfata il mito del primato dell’uomo nella scala degli esseri viventi, manda in frantumi i più consolidati princìpi dell’etica cristiana, smaschera le illusioni della magia e dell’astrologia. In positivo, teorizza un universo autonomo nella sua composizione materiale e nei suoi princìpi costitutivi di moto e di quiete e recide alla radice il rapporto della natura con Dio, poiché nega non solo l’atto creativo, ma anche l’attività assistenziale, provvidenzialistica e finalistica, di un’intelligenza sovraceleste. Gli sbocchi materialistici del pensiero di Vanini sono inevitabili: tutto si riduce a materia vivente e vivificatrice, senza gerarchizzazioni e gradi di realtà, poiché unica è la materia di cui sono composti i corpi celesti e quelli terreni fino ai più umili come lo scarabeo. La vita è l’effetto casuale della generazione spontanea e l’uomo non fa eccezione: rigorosamente radicato nel regno animale, è anch’esso una produzione spontanea della materia; il suo passato è a quattro zampe e nella sua anima non v’è traccia di un’impronta divina. Per queste idee, accusato di ateismo dal Parlamento di Tolosa, fu condannato a morte a soli 34 anni; pare che poco prima di essere giustiziato abbia esclamato: “Andiamo a morire allegramente da filosofo!”