Nella tradizione culturale europea, la pazienza è una virtù fondamentale, anche se minore, che i Greci accostavano al coraggio e il pensiero cristiano alla speranza e alla carità. Oggi, quello che già Georg Simmel chiamava il «ritmo impaziente della vita moderna» sembra farne una nozione del tutto inattuale. Tuttavia, essa può rivelarsi una risorsa quanto mai preziosa, come emerge dalla riflessione sul rapporto dell'essere umano con il tempo e con l'attesa che Andrea Tagliapietra conduce in queste pagine. La pazienza s'inscrive nel tempo del corpo, fatto di lentezza, vulnerabilità e mortalità. Essa fa emergere il significato del corpo come fondo biologico dell'uomo nel suo essere animale. Allora, accanto al discorso «umano, troppo umano» della filosofia, ecco l'urgenza di guardare allo specchio del mondo animale e di prendere in considerazione quelle «icone del pensiero» che, nell'arte, esprimono la metafora animale in continuità con il genere umano. Si scopre così che, nella pittura europea, l'immagine della pazienza è stata spesso affidata a una specie animale che da sempre accorda i propri passi a quelli dell'uomo. Nell'arte i cani fanno la loro comparsa come silenziosi dettagli. Di essi quasi non ci si accorge, tanto la loro presenza risulta consueta e comune. Eppure spesso sono proprio loro a scandire il tempo della scena. Fondendo l'analisi filosofica e l'osservazione di oltre cento opere d'arte, l'autore rivela l'attualità non antropocentrica della pazienza, intesa come strada per giungere a una piena responsabilità nei confronti del tempo vissuto, fondamento della relazione ospitale con gli altri esseri e presupposto indispensabile per abitare il mondo avendone finalmente cura. Da Dürer a Goya, da Bassano a Leonardo fino a Marc, Balla e Warhol, i cani del tempo ci conducono all'antidoto della più pura forma di pazienza, quella dell'attenzione per ciò che semplicemente accade, che è anche la più difficile da conservare nell'epoca impaziente e distratta in cui viviamo.
Questo corso, che esce a distanza di più di quarant'anni dal tempo in cui fu svolto, costituisce il coronamento del progetto di studio concepito da Norberto Bobbio nell'ultima fase della sua carriera accademica. L'argomento affrontato nelle 54 lezioni completa il trittico dei temi fondamentali indicati da Bobbio alla riflessione filosofica sulla politica: la definizione della stessa «categoria politica» e la determinazione del posto che la politica occupa nell'esperienza umana; la pluralità delle forme di organizzazione politica della convivenza; e finalmente, la molteplicità dei tipi e dei modi delle trasformazioni da una realtà politica all'altra. In questo suo ultimo corso Bobbio attraversa l'intera storia della cultura occidentale, ricostruendo i modelli concettuali entro cui sono state pensate, comparate, giudicate le forme del mutamento politico. Individua l'emergere di temi ricorrenti nella riflessione politica: le cause oggettive e i moventi soggettivi delle trasformazioni, le divergenti rivendicazioni di giustizia, la formazione di fazioni contrapposte, le lotte civili, l'avvento dei demagoghi, dei capi carismatici.
Quando si parla di «responsabilità pubblica» o «dovere istituzionale», di «burocrazia» o «corruzione», ci si imbatte in una serie di parole certo largamente utilizzate, ma secondo un significato spesso troppo semplificato, non di rado mal compreso, in alcuni casi stravolto. In un'epoca di grandi mutamenti quale quella che stiamo affrontando, il rischio di una svalutazione della dimensione etica che deve guidare a ogni livello l'azione delle istituzioni e la condotta di ciascuno di noi è certo molto concreto. Nasce da qui l'esigenza di un ideale lessico per le istituzioni, che illustri agli specialisti, al mondo dei funzionari pubblici e a ogni cittadino quanto ampio e profondo sia il messaggio etico racchiuso in alcune parole «antiche», come queste ultime si siano arricchite di contenuti nuovi - grazie anche all'impulso offerto dall'Autorità nazionale anticorruzione - e come, per il loro tramite, possano inquadrarsi alcune sfide cruciali per il futuro del nostro vivere democratico. Prefazione di Raffaele Cantone.
Le nozioni di bene e male sono indispensabili per vivere e, al tempo stesso, sempre insidiate da fraintendimenti e pregiudizi. Orlando Franceschelli - filosofo, impegnato da anni nella definizione di un'etica laica fondata sul radicamento dell'uomo nella natura - non si sottrae alla sfida di trovare risposta a una domanda radicale: in nome di quale bene e di quale male sarebbe auspicabile agire come singole persone e come gruppi sociali? In società come le nostre, investite da trasformazioni epocali, dal fanatismo terrorista, da nuove sfide poste dai dilemmi bioetici e dai progressi della ricerca scientifica, eludere questo interrogativo equivale a incamminarsi sul sentiero pericoloso dell'indifferenza e della deresponsabilizzazione. L'autore sceglie la via opposta a ogni disimpegno e chiarisce fin da subito la propria visione: l'identificazione del bene con la tensione verso la possibile felicità terrena - la propria e quella degli altri esseri senzienti umani e non umani - e del male morale con l'indifferenza egoistica verso la sofferenza. Una visione non condizionata da prospettive soprannaturali, in sintonia con una tradizione di pensiero che da Democrito arriva fino a Spinoza, Hume, Darwin, Leopardi, e si scontra con l'esaltazione della volontà di potenza proposta da Nietzsche. Nel ripercorrere il cammino dei grandi teorici del pensiero naturalista, Franceschelli mostra come dalla definizione di nozioni quali natura, male fisico o morale, bene individuale e beni comuni (inclusa la bellezza), felicità e sofferenza, si possa approdare a una concezione di bene e male condivisibile e compatibile con il rispetto del mondo naturale, sempre più minacciato, con la convivenza civile nelle società multiculturali e con i principi delle nostre Costituzioni liberali e solidali. La conclusione dell'autore è che la virtù della laicità - la sola che può garantire un dialogo alto tra credenti e non credenti - ci educa a praticare anche la più efficace solidarietà samaritana, ossia a soccorrere chi ne ha bisogno non solo per umana pietà, ma perché anch'egli aspira alla propria felicità e ha diritto a cercarla.
Lazzaro, l'amico di Gesù, è malato. Marta e Maria, le sorelle, lo mandano a dire a Gesù. "Signore, ecco, il tuo amico è malato". Udendo quelle parole, Gesù dice: "Questa malattia non è per la mor-te, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato" (Giovanni 11,4). Lazzaro però morì, dunque la sua malattia era mortale. Eppure quella malattia non fu per la morte, non fece il gioco della morte, perché divenne fonte di fede. Se quella malattia non è per la morte, c'è nella nostra epoca una malattia che sia per la morte? C'è, risponde Kierkegaard, ed è la disperazione. La disperazione è il peccato dell'uomo contro il mondo, contro gli altri, contro Dio. E la malattia dello spirito, del sé, la malattia che fa desiderare la morte pur tenendo sempre in vita, pur condannando sempre alla vita. Per questo la disperazione è per la morte, è a servizio della morte senza essere mortale, fa vivere la morte senza concedere la morte. La malattia per la morte, pubblicata nel 1849, è una fenomenologia della disperazione, e descrive una parabola che va dalla disperazione che non sa di essere tale alla disperazione che sa se stessa e sfida il mondo e Dio. È il capolavoro di Kierkegaard, in cui i fili della sua riflessione psicologica, teologica e filosofica trovano la più alta e compiuta formulazione.