Don Primo Mazzolari ha raccolto in questo volume i commenti ai Vangeli domenicali di un intero anno liturgico. Si tratta di sapide omelie scritte nelle giornate turbinose della seconda guerra mondiale dal parroco di Bozzolo, una delle figure più limpide del clero italiano nella prima metà del '900. Le parole incandescenti dei commenti, sempre rigorosamente centrati sul Vangelo, pur «senza preoccupazioni esegetiche», rivelano una coscienza umana e cristiana che si espone, gravida di situazioni vissute e di possibilità aperte: l'angoscia e le tristezze del periodo, il crollo dei miti effimeri, la tiepidezza di tanti cristiani e insieme la speranza, la passione per l'uomo e l'intelligenza pastorale. Due parrocchie della bassa Lombardia, Cicognara, che lo ebbe parroco dal 1922 al 1932, e Bozzolo, dove don Primo completò e concluse nel 1959 la sua vicenda di prete e di uomo, costituirono il piccolo mondo nel quale egli visse la sua esperienza ecclesiale. Tuttavia le omelie attestano una straordinaria apertura verso orizzonti più ampi, nella convinzione che la parrocchia sia una piccola cellula che si inserisce nella grande famiglia della Chiesa universale, capace di abbracciare credenti e non credenti.
Il ciclo liturgico domenicale dell'anno B è posto sotto la guida del vangelo più antico, quello di Marco. È un testo scarno, spesso sorprendente. Suggerisce invece di spiegare, lascia spazio all'immaginazione del lettore, lo stimola con una messe di dettagli apparentemente insignificanti, in realtà altamente simbolici. Ci presenta un Gesù di poche parole che si svela solo a chi lo segue e si lascia costantemente interpellare, spesso rimproverare. Marco non edulcora la precarietà della vita di fede; anche quando il vento è contrario e siamo tentati di avere paura, il Gesù di cui narra nel suo vangelo ci educa pazientemente alla difficile arte della fiducia.
L'omelia "Sul Natale del salvatore nostro Gesù Cristo", censita anche con il titolo "Sul Natale di Cristo", è un testo molto conosciuto nell'antichità, tanto che se ne conserva una versione in armeno e altre in arabo, siriaco, georgiano e paleoslavo. Fin dalle prime parole, il testo mette al centro il tema che l'attraversa per intero: il mistero che avvolge la nascita divino-umana di Gesù in relazione al cosa, al come e al perché. «Osservo un mistero strano e paradossale: le mie orecchie risuonano del canto dei pastori che con la zampogna non modulano una melodia solitaria ma intonano un inno celeste. Gli angeli cantano, gli arcangeli celebrano, i cherubini inneggiano, i serafini rendono gloria, tutti fanno festa vedendo Dio in terra e l'uomo nei cieli». Dio che si fa uomo e il parto della Vergine aprono conflitti nella mente umana, suscitano aporie, possono condurre allo scetticismo e al rifiuto. Un conflitto tra ragione e fede che richiede di «non indagare con discorsi» quella nascita, quanto piuttosto di venerarla in silenzio.
Nel luglio 2013, a poco più di tre mesi dall'elezione, un sobrio comunicato della Santa Sede annuncia la prima visita di papa Francesco fuori Roma. Il pontefice, «profondamente toccato» dal naufragio di un'imbarcazione che trasportava migranti provenienti dall'Africa, ultimo di una serie di analoghe tragedie, si reca a Lampedusa. Il significato e l'impatto simbolico dell'evento sono inequivocabili: Bergoglio si lascia interrogare e provocare in prima persona dal dramma dei migranti, che spesso diventa tragedia della «globalizzazione dell'indifferenza». Francesco indica con forza la necessità di una presa di coscienza e di una presa di posizione di fronte a un «segno dei tempi» che interpella con urgenza la Chiesa e la società. Questo fenomeno di portata e connessione mondiale, che prende forma nei distinti teatri principali del Mediterraneo, del confine tra Messico e Stati Uniti, della regione dei Grandi Laghi africani e del sud-est asiatico, viene richiamato insistentemente da Bergoglio. Nel suo insegnamento egli non distingue tra i migranti che sfuggono alla guerra e quelli che cercano di allontanarsi dalla povertà, ma ribadisce la connessione tra i grandi flussi migratori e quella che denuncia come «terza guerra mondiale a pezzi».
L'omelia è il tipo di comunicazione pastorale più praticato e con un numero di interlocutori di gran lunga maggiore rispetto a qualunque catechesi o incontro biblico.Eppure l'esito della predicazione non è scontato: se ne ipotizza la crisi fin dai tempi di Benedetto XV. La sua enciclica Humani generis redemptionem (1917) apre questa raccolta di interventi che giunge a papa Francesco passando per la svolta decisiva del Concilio Vaticano II.Questo volume propone una selezione dei principali documenti che negli ultimi cento anni sono stati dedicati all'omelia offrendo una riflessione che è al tempo stesso una sfida per i predicatori e un'apertura di orizzonti per chi partecipa alle liturgie. Domenica dopo domenica.
«Oggi soltanto una parola profetica può aver presa sul nostro tempo, cioè arrivare alle nostre anime».
Il volume presenta un testo di commento alle letture festive dei cicli A B C. Lo stile è aderente al testo biblico, di cui ben presenta il contesto e il messaggio.
Uno strumento utile e accurato per la preparazione delle omelie domenicali.
Il ciclo liturgico dell’anno A segue il racconto dell’evangelista Matteo, testimone privilegiato della volontà del Padre di rivelarsi ai poveri e ai piccoli, di consolare coloro che sono nel pianto e di far splendere la sua misericordia sui giusti e sugli ingiusti.
Le omelie contenute nel volume affondano le radici nella lettura pregata della Parola, la lectio divina, maturata nel silenzio e nel raccoglimento della vita monastica e ancorata al testo biblico assiduamente meditato.
Le riflessioni sono state concepite come accompagnamento mistagogico per chi vuole comprendere la celebrazione liturgica dell’eucaristia sull’onda dell’intelligenza della Parola proclamata.
Nell’ascoltarla, non abbiamo bisogno semplicemente di sapere come sono andate le cose o come si sia costituita la memoria degli eventi codificata negli scritti, ma di ritrovarci implicati personalmente in ciò che viene annunciato per trovare la verità del vivere e il radicamento nell’alleanza con Dio.
La liturgia ha un vantaggio su ogni altro tipo di approccio rispetto alle Scritture: le proclama come un tutto, ne onora l’unità come avviene con un corpo vivente, senza considerare la genesi e la differenza dei testi dal punto di vista della loro formazione e della loro redazione.
"Io amo la scuola, l'ho amata da alunno, da studente e da insegnante. E poi da vescovo."
In diverse circostanza papa Francesco si è rivolto a insegnanti e studenti ricordando la prima maestra avuta a sei anni e gli incontri con la realtà scolastica a Buenos Aires, l'esperienza di don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana e il proverbio africano secondo cui "per educare un figlio ci vuole un villaggio".
Occasione di apertura alla realtà, luogo di incontro e non parcheggio, tappa fondamentale nell'età della crescita come complemento alla famiglia, la scuola deve educare al vero, al bene e al bello. L'educazione, secondo il papa, non può essere neutra e non deve mai separare le tre lingue che vanno usate insieme: quella della mente, quella del cuore e quella delle mani. Perché a scuola si possono e si devono imparare contenuti e assumere valori.
Questo curioso sermone è stato pronunciato in data imprecisata e pubblicato nel 1776 dallo scrittore e poeta irlandese Jonathan Swift (1667-1745), che fu anche pastore anglicano e decano della cattedrale di St. Patrick a Dublino, universalmente noto per i Viaggi di Gulliver, il suo capolavoro.
Si tratta di un insolito testo in cui l'autore affronta il tema della predicazione lanciando, in primo luogo, un aspro e polemico atto d'accusa nei confronti della diffusa indifferenza per il culto e la religiosità del suo tempo.
Swift se la prende con quanti accampano ogni genere di scuse - dai malanni immaginari all'aria malsana delle chiese - per non andare a messa, o antepongono la cura degli affari a quella dell'anima; e con quanti preferiscono restare a casa la domenica, non solo per pigrizia o per abbandonarsi all'ingordigia e all'ozio, ma per un radicale disprezzo nei confronti della religione. Siamo di fronte allo sfogo di un prete anglicano evidentemente deluso per la vita del suo tempo e deciso a rivolgere un attacco diretto alle prediche soporifere.
«Ma lei non ha mai ascoltato una delle sue omelie? Ha mai avuto qualche dubbio sulla loro qualità, formale e sostanziale? Sulla loro reale capacità di "comunicare", di entrare in relazione con quanti le stanno davanti, di raggiungere, insieme, la loro intelligenza e il loro cuore?». Sono le domande che un esperto di comunicazione potrebbe rivolgere a un predicatore e che, anche alla luce dei recenti documenti del magistero, non si possono archiviare come quesiti pedanti e accademici. Tuttavia, secondo l'autore, le antiche regole della retorica o le più moderne tecniche di public speaking possono essere utili, ma non risolutive, e il predicatore non può essere considerato un «professionista» che eroga il «servizio della Parola» in modo efficace ed efficiente in virtù delle sue competenze tecniche. L'omelia, infatti, è un'esperienza nella quale, chi parla, entra quasi in punta di piedi in un dialogo già in corso tra Dio e i fedeli. Ciò richiede una predicazione «simbolica», che cioè sappia propiziare un incontro capace di coinvolgere e ricondurre a unità le dimensioni della persona, all'interno di un'esperienza di trascendenza.