A volte a piedi, a volte in treno, a volte in corriera, sempre con gli scrittori amati nella valigia: cosi Ceronetti viaggiò per l'Italia in un periodo di circa due anni, fra il 1981 e il 1983, ispirato da Giulio Einaudi che aveva intuito sposarsi molto bene la sua indignazione satirica con il resoconto di viaggio. Ceronetti attraversa grandi città e piccole località di provincia, visita piazze, monumenti, musei, ma anche carceri, cimiteri, distretti di polizia, manicomi. Annota i manifesti affissi sui muri, le insegne dei negozi, e denuncia le volgarità che lo feriscono. Ma il libro non è solo un reportage splendidamente fazioso. E anche un taccuino affollato di pensieri, di citazioni, di idiosincrasie. Un'enciclopedia caotica da cui attingere il pensiero di Ceronetti: sempre spiazzante, apocalittico, divertente. Con un'appendice di testi inediti e una nuova prefazione dell'autore.
"Gli uomini sono animali, e come tutti gli animali anche noi quando ci spostiamo lasciamo impronte: segni di passaggio impressi nella neve, nella sabbia, nel fango, nell'erba, nella rugiada, nella terra, nel muschio. È facile tuttavia dimenticare questa nostra predisposizione naturale, dal momento che oggi i nostri viaggi si svolgono per lo più sull'asfalto e sul cemento, sostanze su cui è difficile imprimere una traccia. Molte regioni hanno ancora le loro antiche vie, che collegano luogo a luogo, che salgono ai valichi o aggirano i monti, che portano alla chiesa o alla cappella, al fiume o al mare". Robert Macfarlane è l'ultimo, celebrato poeta della natura, erede di una tradizione che da Chaucer fino a Chatwin e Sebald è capace di trasformare una strada in una storia, un sentiero su un altopiano in un viaggio nella memoria. Riallacciando l'ancestrale legame tra narratore e camminatore, Macfarlane compie il gesto più semplice, eppure oggi anche il più radicale: quello di uscire dalla sua casa di Cambridge e iniziare a camminare, a camminare e osservare, a osservare e raccontare. Battendo i sentieri dimenticati di Inghilterra e Scozia, l'antico "Camino" di Santiago, le strade della Palestina costellate di checkpoint e muri di contenimento, gli esoterici tracciati tibetani, Macfarlane riesce, come un autentico sciamano, a far parlare paesaggi resi muti dall'abitudine, a dare voce ai fantasmi che li abitano, a leggere i racconti con cui gli uomini hanno abitato il mondo.
Esiste un'"altra Germania" lontana dalla nazione di ferro capace di risorgere dopo la Seconda guerra mondiale e diventare la potenza egemone in Europa. Comprende le cinque province della ex DDR e si estende dalla Pomerania-Meclemburgo, sul Mar Baltico, fino alla Sassonia sita nella parte più a sud. Dopo la caduta del regime comunista "nessuno aveva chiesto alle popolazioni che abitano nella parte geograficamente più ad Est, se volevano appartenere a una qualche specifica nazione, o se preferivano costituirsi in stato autonomo", e cosi la "Germania numero due" venne integrata a quella ufficiale. Se questo ha dato vita a una nazione unica, le Heimaten ("patrie") sono rimaste sempre due. Come poteva essere altrimenti, dato che, per buona parte delle terre dell'Est, Berlino era soltanto un luogo lontano, visto a malapena in televisione? Attraversando "paesaggi naturali grandiosi", incontrando cittadini nostalgici e riscoprendo i solchi che la storia ha lasciato su quelle terre, Tilde Giani Gallino ci mostra una nazione "fastosa e inattesa" ma che è ancora costretta a vivere all'ombra di quella che sta dominando l'Europa.
Mister Piccolo è uno scrittore al quale viene fatta una proposta: girare il mondo insieme ad altri sei colleghi. Così comincia per lui un'avventura all'insegna della diversità: quella di popolazioni lontane, ma soprattutto della sua. Sì, perché Mister Piccolo, con il bagaglio di Occidente che si porta dietro, capisce ben presto che il vero diverso è lui, segnato dal marchio del privilegio che azzera le distanze geografiche e amplifica le differenze sociali. Eppure, a poco a poco, si lascia permeare dall'imprevedibilità del viaggio, perdendosi nella mesta allegria di sapersi altro da ciò che è. E scopre che i cinesi vedono gli occidentali tutti allo stesso modo (tanto che lui viene scambiato per Nicolas Cage), che a Hong Kong non si è nessuno se non si possiede un biglietto da visita, e che l'avventura più inquietante, in realtà, l'ha vissuta a Roma, una notte che non aveva i soldi per rientrare a casa in taxi...
La più classica avventura americana, il coast to coast, nel più inedito dei modi: per via d'acqua, con una piccola barca da pesca, la Nikawa, in una vera e propria traversata del continente lungo fiumi e canali. Il resoconto del viaggio dal brulicante porto di New York alle tranquille spiagge dell'Oregon in una narrazione avvincente che disegna un'originale "mappa fluviale" degli Stati Uniti: il fiume Hudson, l'Erie Canal, i laghi, il fiume Allegheny, l'Ohio, il Mississippi, il Missouri, i torrenti di montagna, il Salmon River, lo Snake River, il Columbia River, l'Oceano Pacifico. Un affascinante affresco dell'America "vera".
"Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai, truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare, porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi, e mari di grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le promesse spose strusciano impudicamente il ventre nel segreto della notte, vegliate da madri e nonne. C'è una Sardegna come questa, o davanti ai camini si racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi. Un'isola delle storie che va visitata così: attraverso percorsi di parole che disegnino i profili dei luoghi, diano loro una forma al di là delle pietre lise, li rendano ricordo condiviso e infine aiutino a dimenticarli, perché non corrano il rischio di restare dentro e prenderne il posto. Questa storia è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci concetti alla ricerca di altrettanti luoghi, più uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente. Non è così la Sardegna, dove ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate."
Istanbul, Damasco, Teheran, Delhi, La Mecca, Medina. Ma anche Venezia e Londra.
Un giovane e brillante reporter, figlio di un uomo politico pakistano e di una giornalista indiana, viaggia nelle terre dell'Islam dalla Turchia fino alla casa del padre a Lahore. Quello che cerca, nelle terre che attraversa e negli uomini che incontra, è un'identità che gli è estranea ma che, nello stesso tempo, scorre nelle sue vene. Un'identità che non può che ruotare intorno all'assenza del padre, e che ben presto da questione privata si rivela intrisa di complessi fattori storici e religiosi.
«Sottile e intenso. Un giovane scrittore da non perdere di vista».
V. S. Naipaul
"Straniero alla mia storia. Viaggio di un figlio nelle terre dell'Islam", è il racconto di un doppio viaggio, quello che l'autore, l'indopakistano Aatish Taseer, intraprende attraverso diversi paesi del Vicino Oriente fino al Pakistan, per conoscere e capire l'Islam; e quello interiore per arrivare a conoscere il padre, un importante uomo politico del quale serba due oggetti - la copia di un suo libro e una vecchia cornice d'argento con una fotografia che lo ritrae piccolissimo in braccio a lui - e il ricordo di un incontro traumatico quattro anni prima.
Il doppio viaggio di Taseer prende le mosse da Beeston, un sobborgo di Leeds, dove si reca come inviato di «Time Magazine». Siamo nel luglio 2005, e pochi giorni prima un gruppo di pakistani britannici, per la maggior parte di Beeston, ha fatto esplodere autobus e treni a Londra. Oltre ai poliziotti, nelle strade di quel quieto sobborgo inglese si aggirano giornalisti di tutto il mondo. I residenti, «in maggioranza punjabi, musulmani e sikh, sia pakistani che indiani, ricreavano la mescolanza precedente alla Partizione, un'India indivisa che non esisteva più». Questa immagine suggestiva, che allude sia al passato storico del subcontinente sia alla sua storia, ha per lui qualcosa di famigliare, ma mentre le vecchie generazioni hanno un umorismo e un'apertura mentale che sembrano arrivate dai bazar di Lahore, i figli o nipoti, suoi coetanei, con le lunghe vesti arabe e la barba tagliata secondo il canone islamico, gli appaiono irriconoscibili. Figure viste al cinema, repliche inquietanti di quel Farid che in Mio figlio il fanatico condannava con violenza la tolleranza del padre e la sua «oscena» passione per il jazz. Il profondo divario generazionale tra i musulmani britannici alimenta in Taseer un'inedita curiosità per se stesso, un desiderio di capire, di indagare una storia e una cultura religiosa che non conosce e non gli appartiene, e tuttavia costituisce un legame con il padre.
La sua ricerca, mettendo nero su bianco, riflettendo per la prima volta sul peso delle proprie affermazioni, lo porta da Venezia, attraverso le terre spettrali dell'antico impero ottomano fino a Istanbul, poi a Damasco, alla Mecca, a una Teheran attualissima nel suo livore e vitalità, e infine in Pakistan sulle soglie della casa paterna. Un antico viaggio islamico, quasi un pellegrinaggio, e un ritorno al paese del padre, per vederlo meditare sulla storia crudele del paese e ritrovarsi con lui la sera in cui fu uccisa Benazir Bhutto.
Ushuaia, ultimo confine del mondo. Il 27 settembre 1871, nel tardo pomeriggio, un uomo e una donna di circa vent'anni escono sul ponte della nave e si fermano immobili, uno accanto all'altra, a scrutare l'orizzonte. Quella che guardano è la loro nuova terra e futura dimora. Intanto, sotto coperta, dorme pacificamente la figlioletta di nove mesi. Da tempo hanno lasciato l'Inghilterra e tra ondate gigantesche e stridore di pennoni, sono approdati in una regione desolata e selvaggia in cui vivono tribù senza legge, senza regole e senza dio. La Terra del Fuoco è ancora tutta dei fuegini. Appartiene alle loro usanze e credenze, alla loro intelligenza e ingenuità. Con il compito di portare il cristianesimo, Thomas e Mary Bridges vivono insieme alle popolazioni indigene, fianco a fianco. Con loro creano accampamenti e fattorie, costruiscono case in legno e lamiera smontabili pezzo a pezzo, tracciano le prime strade e allevano animali. Lì nascono e crescono i figli, tra cui Lucas autore di questo libro scritto nel 1947 che racconta la storia dei Bridges.
Dalla fine dell'Ottocento alla metà del secolo successivo, la vita della famiglia Bridges incrocia e accompagna la trasformazione e il viaggio della Terra del Fuoco, una terra mutevole e affascinante, tanto reale da sembrare finta. Uno scenario naturalmente perfetto per qualsiasi libro di avventura. Primavera dopo primavera, l'insediamento dei Bridges è attraversato dai personaggi più diversi: intere famiglie di indigeni, scaltri uomini di medicina, avventurieri privi di scrupoli, cercatori d'oro, scienziati, botanici. Ex galeotti, diventati gauchos, capaci di rovesciare a terra una mucca di qualche quintale senza alcuno sforzo, marinai zoppi o guerci ma che in realtà ci vedono benissimo. Tutti uomini in cerca di fortuna o in fuga da qualcosa. Personaggi ricchi di storie, fortemente romanzeschi nella loro spericolata e concretissima realtà.
Nessuno di questi uomini sfugge alla curiosa abilità di narratore del giovane Lucas. E nulla resta nella sua penna. Gli episodi sono centinaia, e l'autore passa dall'uno all'altro sospinto da una memoria prodigiosa e da una passione profonda per luoghi, tempi e persone che non ci sono più ma che in queste pagine riprendono vita sotto ai nostri occhi. Quasi palpabili.
Non è un caso che proprio la lettura di Ultimo confine del mondo abbia ispirato il viaggio di Bruce Chatwin e la scrittura del suo celebre In Patagonia. Questo è infatti un libro che aderisce con forza alla pelle del lettore e spinge - irresistibilmente - a ripercorrerne le tracce e i sentieri.
Il viaggio proposto in queste pagine dense di riflessioni e curiosità avviene nel cuore di un immaginario che sì è convertito nel tempo. Un viaggio illuminante dal quale si evince come ognuna delle montagne incontrate abbia assunto la propria attuale riconoscibilità. Come, ad esempio, il Cervino sia diventato il simbolo onnicomprensivo di un idealizzato eden alpino, di quel mito della Svizzera conosciuto come elvetismo. Oppure, come il Monte Bianco sia stato il laboratorio naturale per i viaggiatori-scienziati di fine Settecento. Un viaggio che si anima attraverso l'incontro con personaggi, storie, drammi, avventure. E che si rivela anche un percorso letterario tra i libri che hanno contribuito a formare una nuova mitologia delle montagne.
Nel 1325 Ibn Battuta, partito da Tangeri 28 anni prima, torna definitivamente in Marocco dopo ventotto anni di viaggi e centoventimila chilometri percorsi con tutti i mezzi di trasporto allora in uso, dal cavallo al dromedario, dal carro ai più svariati tipi di imbarcazione. Secondo un odierno atlante geografico, ha attraversato l'equivalente di quarantaquattro stati moderni dall'Africa a tutto il Medio Oriente, dalla pianura del Volga alle isole Maldive, dall'India alla Cina, incontrando migliaia di persone e prendendo nota dei loro usi e costumi. Tre anni dopo il suo ritorno, un giovane letterato di origine andalusa, Ibn Juzayy, inizia per ordine del sultano ad annotare i ricordi di Ibn Battuta e le sue osservazioni di viaggio, scrivendo cosi uno dei libri più famosi della letteratura araba medievale.
Parigi, Marsiglia, Weimar, Napoli, San Gimignano, Mosca. Negli anni venti Benjamin scrive per giornali e riviste una serie di articoli-reportage sulle città dove gli capita di soggiornare. Libro postumo, assemblato da Peter Szondi nel 1955, viene qui riproposto in un'edizione amplita di tre nuovi scritti. "Alla base delle descrizioni delle città straniere di Benjamin non troviamo motivi meno personali di quelli che ispirarono "Infanzia berlinese". Ma ciò non significa che egli non abbia saputo vedere quei luoghi nella loro realtà. Ché un paese straniero riesce a operare la magica trasformazione del visitatore in fanciullo solo se gli si mostra così pittoresco e così esotico come una volta era apparsa al bambino la propria città. Simile al fanciullo che sta con occhi attoniti nel labirinto inestricabile, Benjamin nei paesi stranieri si consegna con tutto il suo stupore e tutta la sua avidità alle impressioni che lo investono. A ciò deve il lettore quelle immagini che non potrebbero essere più ricche, più colorite, più precise. Il linguaggio metaforico aiuta Benjamin - analogamente alla struttura da lui preferita: l'articolazione in brevi periodi - a dipingere le immagini di città come miniature. Nella loro sintesi di lontananza e vicinanza, nella loro incantata realtà, esse assomigliano a quei globi di vetro in cui la neve cade su un paesaggio, che furono fra gli oggetti preferiti da Benjamin". (Dalla postfazione di Peter Szondi).
Questa narrazione si muove in lungo e in largo per le strade di Bombay, e ritrae la città attraverso le mille storie dei suoi abitanti, dai più famosi (compresi gangster e attori) alla gente comune. Metha ricerca nella brutale Bombay di oggi quella che ha abbandonato vent'anni prima e la ritrova moltiplicata e smembrata. E a poco a poco mette a nudo i fili tesi tra gli attici scintillanti affacciati sull'oceano e il mare di baracche dove milioni di persone vivono una vita durissima.