Le "Lettere a un giovane poeta" sono un manifesto della creazione artistica. Eppure pochi finora si sono interrogati sulla personalità del destinatario delle celebri missive di Rilke: Franz Xaver Kappus, uno studente ventenne che nelle pause tra le lezioni divora i libri di Rilke e un giorno decide di contattarlo. Il rapporto tra i due è al centro di questa edizione delle "Lettere a un giovane poeta", in cui, dopo anni di oblio, sono presentate al lettore le risposte di Kappus. L'aspirante poeta affida allo scrittore le prime prove poetiche e i segreti della sua anima, cui il maestro risponde con sincerità, talvolta fermezza, impegno e affetto. Per fare arte è necessario sentire un'urgenza assoluta, l'«ineludibile risposta a una chiamata», come la definisce Valerio Magrelli nella prefazione. Le "Lettere a un giovane poeta" si trasformano così in una conversazione a due, un dialogo, un botta e risposta tra mentore e allievo in cui si intrecciano arte e vita; perché, scrive Rilke, «l'arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo».
C'è un paese che non c'è. Al centro di una valle nebbiosa, circondato da un bosco dai cui rami scheletrici penzolano cadaveri di impiccati, il paese - un nucleo isolato di case in rovina, una locanda, un bagno pubblico - vive una non-vita immota e immutabile, congelata in un'eterna ripetizione di gesti, riti, culti. L'inverno è lungo, l'estate corta, le gravidanze durano due anni: nemmeno i bambini vogliono nascere, nella valle della Verhovina. Nulla turba questa quiete che non è un letargo; è un corna: gli abitanti - il capo della brigata per il controllo delle acque, Anatol Korkodus; il giovane Adam, uscito dal penitenziario di Monor Gledin per aiutare il brigadiere nelle sue mansioni; la curatrice Nika Karanika, che sa resuscitare i morti; la sarta Aliwanka, che predice il futuro nei fazzoletti inzuppati di lacrime - aspettano; aspettano che in paese arrivi qualcuno, ma non arriva mai nessuno, e quei pochi che arrivano se ne vanno, o scompaiono, o si gettano nelle acque della sorgente numero due, dove tutto ciò che cade «diventa blu, e dopo un po' di tempo vi si deposita sopra una specie di cristallo blu in aghi appuntiti». Anche gli uccelli sono spariti: sono volati via, un giorno, e non sono più tornati. Ultimo romanzo di Ádám Bodor, «l'autore più spietato, più crudele della letteratura contemporanea est-europea» nelle parole di László Krasznahorkai, "Boscomatto" è una successione di tavole bruegeliane in cui le situazioni si ripetono in modo ossessivo, come se i personaggi - lunga teoria di figure sole'e disperate, accomunate da un desiderio perennemente frustrato di contatto umano - fossero condannati a replicare senza sosta i gesti di una farsa insensata. Del resto, nella valle della Verhovina non esistono passato, presente e futuro; il filo del tempo è un cappio e ogni vita, congelata nel ghiaccio, è un fossile imperfetto che ci arriva dalla fine dei giorni, alla cui sorte siamo tutti fraterni.
Orbo, cinico, solitario e, talvolta, inspiegabilmente idealista, questo è Héctor Belascoaràn, il detective privato partorito dall'inventiva di Paco Ignacio Taibo II. Nella strade piovose di Città del Messico indaga su torbide storie di amore e morte che coinvolgono lottatori mascherati e giovani suicidi. A nord, nelle città di frontiera, insegue un'attrice in fuga sotto un sole cocente, accompagnato da ricordi e rimpianti. In uno stato del sudovest del Messico, percorso da fermenti di rivolta, cerca un morto che forse è fin troppo vivo. Questo volume raccoglie i romanzi "Fantasmi d'amore", "Sogni di frontiera" e "Svaniti nel nulla".
Cambridge, 1965. Due ragazzi si conoscono e si innamorano. Lei si chiama Sonia Maino, è italiana e proviene da una famiglia semplice. Lui è indiano e sì chiama Rajiv Gandhi: è figlio di Indira e nipote del Pandit Nehru, il fondatore, insieme al Mahatma Gandhi, dell'India indipendente. Superata l'opposizione iniziale del padre della ragazza, nel 1968 i due si sposano. Al matrimonio, lei indossa un sari rosso, il colore delle spose indiane. Nascono due figli, ma la tranquillità familiare non durerà a lungo. Presto Rajiv diventerà consigliere della madre e segretario generale del Partito del Congresso. Nel 1984 Indira Gandhi, al secondo mandato come primo ministro, perde la vita in un attentato e il figlio le succede. La tragedia incombe: nel maggio del 1991 Rajiv viene assassinato da un commando delle Tigri Tamil. Nel 1995 avviene l'incredibile: Sonia accetta il ruolo di leader offertole dal Partito del Congresso. Sarà proprio lei a portare alla vittoria il suo schieramento alle elezioni del maggio 2001, rinunciando poi al ruolo di primo ministro, pur rimanendo alla presidenza del Partito per perseguire il suo obiettivo iniziale, lo stesso del marito e della suocera: la lotta alla povertà. Con una scrittura epica e carica di sensualità, sulla scia di "Stanotte la libertà" di Dominique Lapierre e Larry Collins, Javier Moro ricostruisce nel suo "Sari rosso" la storia memorabile e appassionante dell'"italiana" diventata "figlia dell'India".
Lorenzo Teràn è un buon presidente ma abulico. Il capo di Gabinetto è servile, corrotto e sedizioso. Il ministro degli interni è un uomo il cui stile morigerato fa da contraltare a una grande ambizione. Il colto e severo generale Mondragon von Bertrab è il custode di quella fragile stabilità che impedisce al paese di precipitare in una guerra civile, e soprattutto è l'unica persona in grado di tenere a freno il capo della polizia. Il Vecchio dei portici, che dispensa saggezza, nasconde un prigioniero illustre che potrebbe ribaltare gli equilibri politici. Tutti diversi, ma tutti in lotta per lo stesso obiettivo: la successione alla presidenza, conquistare il trono dell'aquila. Solo una donna si ritrae da questa lotta, perché ne è lei stessa la burattinaia. In un paese rimasto all'improvviso senza telefoni, fax, e-mail, computer, rete, satelliti, l'élite politica è costretta a ricorrere alla comunicazione epistolare. Parole che non dovrebbero essere neanche pensate si riversano copiose nero su bianco. Ed è proprio in forma di romanzo epistolare che si snoda una vicenda di corruzione, ambizioni, segreti politici e speranza.
L'avventura spirituale e religiosa di Ziauddin Sardar ha inizio nel 1972 in Inghilterra, quando, studente universitario, si vede piombare in casa due "fratelli" musulmani decisi a riportare sulla retta via i fedeli che non praticano in modo ortodosso. Alle proteste del giovane Zia che deve preparare un esame i due uomini di fede rispondono, implacabili: "Vuoi andare in paradiso? Sei sicuro di essere pronto per l'Esame Finale?". Inizia quindi un lungo viaggio in terra britannica per partecipare ad alcuni raduni islamici, fermandosi regolarmente a pregare anche in caso di pioggia torrenziale. Il libro, scritto in prima persona, racconta con sguardo profondo, partecipe e ironico le contraddizioni della rivoluzione iraniana, i viaggi in Pakistan, Cina e Nigeria (dove vivono gruppi desiderosi di essere governati dalla rigida legge della "shariah") e uno sconcertante pellegrinaggio alla Mecca, dove la famiglia Bin Laden ha fatto abbattere la città antica per costruire orrendi edifici in cemento.
Lo scrittore è il "sospetto", l'esule per eccellenza: ebreo, espatriato, vigile e inquieto, Norman Manea vive a New York da quasi vent'anni e continua a scrivere in romeno. Il romeno è molto più della sua lingua d'origine: attraverso di essa l'autore può conquistare la propria patria perduta, ricreare la propria "placenta". Segnato a soli cinque anni dal dramma della deportazione e dell"'estraneazione", il suo lento e inesorabile avvicinamento alla letteratura gli ha permesso di costruirsi un'identità ricca e poliedrica, con la vasta visione del mondo tipica degli esuli. In questi contributi e nelle interviste in cui dialoga con Marco Cugno, Philip Roth e Claudio Magris, Manea approfondisce temi come l'ebraismo europeo prima dell'Olocausto, la situazione dell'Europa dell'Est dopo il crollo del comunismo, la dissidenza intellettuale e la censura nei regimi assolutisti. Ma anche il caso Rushdie, la cronaca del suo 11 settembre newyorkese, i grandi incontri con il Nobel Kertész o Cioran, una sospirata, fugace visita da "evaso" a Venezia nel 1979.
Uno spietato ritratto dell'alta borghesia di Città del Messico nell'era postrivoluzionaria. Fuentes presenta un gruppo di personaggi che sono il simbolo della decadenza della classe privilegiata del paese. Al centro della scena, Ixca Cienfuegos, personaggio misterioso, una sorta di scienziato pazzo che osserva e determina i movimenti dei vari attori. Con la complicità di Dona Teodula, sacerdotessa di una tribù indigena, architetta l'eliminazione del gruppo. Cienfuegos è portatore di un monito: anche i ricchi e i potenti devono soccombere a una forza superiore, l'indomabile spirito del Messico che mina tutte le istituzioni e plasma il destino degli uomini.