Il titolo di questo volume trasferisce all’opera di san Giovanni della Croce la definizione («Divino Cantico») che egli dava del biblico Cantico dei Cantici. Per secoli questo sacro poema era stato commentato per offrire ai credenti splendidi «trattati» sul mistero della Chiesa e sulla mistica unione dell’anima con Dio.
Poi, sul finire del XV secolo, la cristianità si era lacerata e la teologia aveva cominciato a indurirsi nelle controversie e nelle sottigliezze esegetiche, al punto da dimenticare (o perfino temere) l’antico Cantico, cuore della Scrittura. Giovanni della Croce assunse allora la missione di commentarlo in forma nuova, anche poetica (per la prima volta!): così il testo sacro rivisse nel suo Cántico Espiritual, un poema che «arde di passione più di qualsiasi poesia profana», ma in cui si sente aleggiare «lo Spirito di Dio che è passato di qui, abbellendo e santificando tutto» (Damaso Alonso). In seguito, commentando ripetutamente il proprio Cantico (e aggiungendovi altri poemi), egli poté annunciare alla Chiesa la centralità assoluta dell’amore sponsale che Dio offre a ogni singola creatura umana. Un Dio «inaudito» che, dalle pagine del mistico spagnolo, può parlarci così: «Io sono tuo e per te; sono felice di essere come sono, per essere tuo e donarmi a te» (L 3,6).
L’Autore di questo volume, ripercorrendo tutto l’itinerario spirituale offerto da san Giovanni della Croce (a partire da una nuova traduzione dei suoi poemi), ha inteso sottolineare con rara insistenza che nessun dramma o problema ecclesiale può essere davvero compreso e vissuto, se ci si colloca a un’altezza inferiore di questa e a una minore profondità. Il carisma del Santo carmelitano (e di chi si fa suo discepolo) è tutto in questa esperienza offerta come principio pedagogico: quando l’uomo si lascia attrarre dal Cuore di Dio, egli va, contemporaneamente, verso la massima profondità del proprio cuore e verso i più lontani confini, là dove ogni creatura umana può essere riconosciuta e accolta.
Il volume descrive l’opera della Casa do Menor São Miguel Arcanjo in Brasile. Siamo nel pieno del disastro prodotto dalla miseria e dal narcotraffico.
Il fenomeno delle bande armate di minorenni, per non dire di bambini, è certo una delle aberrazioni più vistose provocate dagli squilibri economico-sociali a livello internazionale, i quali fanno cadere intere regioni, paesi e parti di popolazioni in una situazione che, per riprendere le parole di Majid Rahnema, non ha più nulla a che fare con la povertà, ma riguarda un livello radicale di miseria materiale e spirituale. Il fenomeno delle gangs e di gangsters-bambini ha ancora in Brasile dimensioni impressionanti. Qui si inserisce l’esperienza di Renato Chiera e della Casa do Menor.
La vasta esperienza con bambini e adolescenti vittime della droga, del narcotraffico, della prostituzione e della violenza nella Baixada Fluminense e in molte altre zone del Brasile lo ha portato alla conclusione che questo dramma sia dovuto a una serie di «assenze» dello Stato, della società, della famiglia, di opportunità, di futuro, sintetizzate in una assenza di presenza di amore. Padre Chiera propone, quindi, una «Pedagogia Presenza»: essere presenza accanto ai bambini e ai ragazzi esclusi, per restituire loro la capacità di sentirsi amati, di amarsi, di amare gli altri e, in questo modo, di raggiungere la maturità completa.
Presenza, da un lato, ci restituisce uno spaccato drammatico della realtà brasiliana, ma, dall’altro, ci pone in un’esperienza di speranza. Il libro propone una riflessione su tale esperienza, con lo scopo di contribuire a un progetto di educazione non solo dei meninos de rua brasiliani, ma anche nel cuore della vecchia Europa, e di stimolare la revisione del ruolo dello Stato, della società e delle associazioni in questo ambito tanto delicato. Un libro dedicato agli operatori sociali, agli educatori e alle famiglie, in qualsiasi parte del mondo.
Il titolo di questo volume, che riprende quello del libro pubblicato nel 1964, intende sottolineare l’ambiguità della parola «religione», che al singolare rappresenta l’apertura costitutiva dell’uomo al mistero della vita, mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose.
Il filo conduttore degli scritti riuniti nel volume è l’invito che l’autore rivolge alle religioni a compiere uno sforzo comune (cosa che molti rappresentanti contemporanei delle tradizioni religiose stanno tentando di fare) per scoprire uno dei compiti fondamentali e permanenti della religione - e della laicità, intesa come secolarità sacra: aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.
Il volume include nella prima sezione, oltre al libro menzionato, vari articoli che approfondiscono il concetto di religione da varie angolature e sviluppano alcuni aspetti più universali della religiosità intesa come dimensione umana. La seconda sezione tratta delle religioni comparate e della filosofia delle religioni nell’incontro, mentre la terza abbraccia argomenti più specifici, fra i quali articoli che riguardano il corpo e la medicina, in quanto la religione «religa» non solo l’uomo a Dio, ma anche lo spirito al corpo.
Questo volume raccoglie l’insieme dei contributi di Julien Ries sulla religione manichea.
Lo studioso, che ha cominciato a occuparsi del manicheismo, suo primo e principale settore di specializzazione, nei primi anni '50, ha prodotto sull’argomento, in sessant’anni di ricerche assidue, una ragguardevole quantità di saggi, che rendono giustizia dell’importanza di questa tradizione universalista diffusasi nella tarda antichità e sopravvissuta sino all’epoca medievale, se si riconoscono come suoi discendenti diretti i catari, i bogomili e i pauliciani.
Ries si è concentrato particolarmente su due aspetti della ricerca, spesso combinandoli tra loro all’interno dei suoi testi: la storia degli studi e l’analisi letteraria e dottrinale delle fonti. Lo studio accurato della documentazione di provenienza egiziana, sia greca (come la biografia di Mani) sia copta (ad esempio la produzione catechetica ed omiletica), gli ha consentito di ricostruire nel dettaglio il primo periodo della vita del profeta babilonese, la complessa relazione con la tradizione giudeo-cristiana di cui era impregnato e la successiva elaborazione di un pensiero indipendente a carattere nettamente gnostico e - quanto meno in origine - fortemente antiritualista. Il libro aggiunge così un tassello importante per la nostra comprensione della dottrina manichea, specialmente nel suo rapporto con i testi del Nuovo Testamento e dunque con il cristianesimo.
Mai, come nell’attuale contesto culturale, il concetto di pace è apparso così poco credibile e impotente nella prassi, benché ovunque se ne parli e continuamente la si invochi. Vale ancora la pena di parlarne?
Il desiderio da cui nasce questo libro è di non arretrare di fronte all’immane problema della pace, perché tale questione interpella l’umano nei suoi legami e nella sua razionalità. Il gesto teorico che questo lavoro vuole mettere in atto è quello di sottrarre la riflessione sulla pace alle morse di una tenaglia che la costringono tra una idealità senza articolazione e una progettualità di dominio, morse che - egualmente - impediscono che ci sia per l’uomo un’esperienza di pace. I materiali qui presentati - a partire da grandi nodi della tradizione del pensiero occidentale e da alcuni autori decisivi della contemporaneità - si propongono piuttosto come strumento per una riflessione sulla natura e sui moventi dei legami. La questione centrale, che sembra emergere dalla pluralità di fuochi e prospettive che danno corpo a questo volume, sta nella considerazione secondo cui la pace, in quanto rapporto con l’origine del proprio desiderio, non è pensabile come assenza di violenza, ma come ridefinizione della struttura dei propri giudizi.
Giustizia, verità, guerra, legge, pudore, padre, fratellanza, cosmopolitismo... sono temi che permettono di articolare delle questioni sulla pace senza ridurla a rifugio per una soggettività impotente schiacciata dagli eventi della storia. Permettono inoltre di rifuggire dalle scorciatoie di una prassi tanto più violenta quanto più soverchiante la soggettività stessa che la pone e forse, anche, di imboccare la via lunga che interroga le condizioni che permettono a ogni singolo uomo di essere attore di una storia non (più) anonima.
Gli animali domestici sono spesso, se non le uniche, le principali forme di vita senziente che incontriamo con facilità intorno a noi: cani, gatti e piccioni senza alcuna difficoltà, mucche, cavalli, pecore, capre, galline e maiali quando andiamo in campagna, altre specie più particolari in circostanze ugualmente particolari. Talvolta appare difficile decidere se un animale sia da considerare domestico o selvatico, e allora ci chiediamo dove passi il confine tra le due condizioni e in che cosa consista esattamente la condizione di domesticità.
Questo libro cerca di rispondere con semplicità e con chiarezza a tutte queste e a molte altre domande. Nel narrare la storia della domesticazione, dopo avere chiarito che questa coincide, in definitiva, con la stessa storia di civilizzazione dell’uomo, l’autore mostra come la selezione artificiale altro non sia se non un caso particolare di selezione naturale, esamina in modo critico il concetto di specie e infine si spinge ad alcune considerazioni filosofiche che ci aiutano a collocare il fenomeno della domesticazione in un contesto non soltanto storico e biologico, ma anche culturale e antropologico. La seconda parte del libro esamina ad una ad una le più importanti specie addomesticate che ancora oggi, a dispetto delle tecnologie avanzate che a prima vista sembrano dominare il mondo, determinano e forgiano la struttura e l’economia della società umana, la conoscenza popolare del mondo animale e le principali modalità di interazione del nostro mondo con il loro.
Tedeschi che si recano in Repubblica Ceca per turismo sessuale con bambini rom, immigrati mongoli e vietnamiti che finiscono nei laboratori di produzione di hashish e metanfetamine, operai romeni pagati con cosce di pollo e latte in polvere, prostitute bulgare torturate e vendute a bordelli italiani o francesi, migliaia di ettari di terra svenduti a imprenditori occidentali spregiudicati e lasciati incolti. È al confine che l’«impero» europeo perde i pezzi. Una cortina di Paesi è lo specchio di una frontiera in rovina: l’ingresso in Europa di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria non ha portato maggiori diritti, ma paradossi inaccettabili e vantaggi solo per governi e aziende occidentali.
Giuseppe Ciulla ha compiuto un viaggio lungo la frontiera dell’Unione Europea. Percorrendo oltre 5.000 chilometri con mezzi pubblici, è andato a vedere che cosa succede lì dove un altro impero, quello sovietico, si è ripiegato su se stesso, lasciando praterie ai capitalisti italiani, tedeschi e francesi. Il libro bianco che ha scritto è una fotografia impietosa di frontiere dove le imprese del Vecchio Continente esportano i metodi del peggiore capitalismo occidentale, mantenendo i sistemi più cinici già in uso nei Paesi a socialismo reale. I bambini romeni abbandonati in strada sono aumentati con l’ingresso di Bucarest nell’Unione Europea, la tratta di minorenni bulgare destinate alla prostituzione si è intensificata con la fine dei controlli alle frontiere, i diritti dei lavoratori dell’Est sono peggiorati con l’arrivo degli imprenditori occidentali.
Ai confini dell’impero è un racconto di viaggio che raccoglie storie di eroici sindacalisti braccati dai servizi segreti, di imprenditori senza scrupoli, di funzionari corrotti, di faccendieri impuniti al servizio di criminali italiani che riciclano il frutto di capitali mafiosi lungo le rotte della Mitteleuropa e dei Balcani. E mentre il Danubio muore avvelenato dai residui tossici della più grande acciaieria dell’Unione, l’ombra lunga di Bruxelles benedice i crimini che avvengono lungo i propri confini.
I congressi dell'International Federation for Housing and Town Planning tenutisi tra le due guerre rappresentano uno dei più significativi ambiti di dibattito sulla costruzione della città moderna. In questa sede architetti, urbanisti, amministratori e politici, a fronte di fenomeni che stavano rapidamente trasformando la natura dei paesaggi urbani e rurali, si confrontano tanto sul piano teorico quanto su quello delle rispettive esperienze avanzando proposte caratterizzate dalla volontà di offrire risposte concrete a problemi urgenti e di inedita portata. La ricerca di un nuovo equilibrio insediativo, l'organizzazione funzionale di agglomerati urbani e ambiti territoriali, la questione della casa, il rapporto con le preesistenze storiche e paesistiche nonché la messa a punto di adeguati strumenti progettuali e normativi sono solo alcuni dei temi che connotano i contributi sul futuro della città e del territorio. Questa antologia - con scritti scelti di Abercrombie, Adams, Bardet, Bassett, Bernoulli, Bourgeois, Chiodi, Giovannoni, Giraud, Granpré Molière, Gréber, Hegemann, Heiligenthal, Howard, Klein, May, Nolen, Pedersen, Pepler, Piccinato, Pick, Poéte, Prost, Schmidt, Sellier, Schumacher, Stubben, Taut, Unwin, Weber e Wright - raccoglie alcune delle voci che si sono levate dall'IFHTP in un momento particolare della cultura e della politica internazionali in cui è parso possibile immaginare un'urbanistica e un'architettura civili e razionali.
«Affinché ognuno possa avere Dio per Padre, deve avere innanzitutto la Chiesa per madre». Questa espressione di Cipriano non è solo l’esclamazione ammirata ed entusiasta di un singolo dottore della Chiesa, ma è una efficace sintesi di tutta una spiritualità incentrata nel mistero della Chiesa.
Dalla gioiosa contemplazione del mistero della Domina Mater Ecclesia nacque nel primo millennio cristiano un genere poetico nuovo, dei canti semplici e spontanei di cui Hugo Rahner ci offre una scelta in questo libro. Vari e molteplici i temi di questa ecclesiologia: la Chiesa è, prima di tutto, «madre dei viventi» in cui si adempie pienamente quanto era stato detto di Eva e quanto, nella nuova creazione, ha avuto inizio in Maria. La Chiesa è, inoltre, «madre dei dolori» perché essa è nelle doglie del parto mentre accompagna i suoi figli nel loro iter intramondano. Madre dei viventi, madre dei dolori, la Chiesa è anche «regina eterna». Essa è regina non solo escatologicamente ma iam nunc, perché il futuro mistero della sua gloria regale è già chiuso nel fondo della sua oscurità terrena. La presentazione di questi inni da parte di Rahner non è certamente dettata da nostalgia o da interesse puramente storico. Essa vuole piuttosto offrire a tutti coloro che nutrono interesse per l’ecclesiologia, in modo particolare teologi e studenti di teologia, una meditazione e una «rilettura» del mistero ecclesiale in funzione della Chiesa dei nostri giorni.
Una giovane ricercatrice prende l’abitudine di brevi momenti di pausa, anche a larghi intervalli, presso un albero in un parco cittadino.
Nel raccontarsi all’albero ripercorre le tappe della sua vita: i grandi maestri, le domande più impegnative, i compagni-colleghi di un gruppo di lavoro, la soglia varcata delle risposte più attendibili...
L’albero, maestro di maieutica, accoglie e ascolta la protagonista, e il lettore è condotto con passi lievi a seguirne il cammino e la ricerca di senso verso un approdo non definitivo, ma confortato dalla speranza.
L’autrice, che vive oggi in un ambiente monastico, ricorda gli incontri con l’albero con gratitudine. Il lettore è sorpreso e ammirato nell’addentrarsi in pagine sempre più coinvolgenti, per una vicenda interiore che è e si percepisce vera.
Pagine lievi, dove lo spessore del tema si stempera in una progressiva chiarezza, pur nella fatica della ricerca. Pagine che affascinano; un’avventura dello spirito ma assolutamente umana, che tiene viva l’attenzione e la domanda sull’esito finale. La prosa, facile, ha l’eleganza della semplicità: non sollecita, invita a sostare, a riflettere, a interrogarsi se si riuscisse a riconoscere nel respiro dell’anima dell’autrice un messaggio sussurrato al lettore. Non detto, per lasciare a ciascuno il suo modo d’interrogarsi.
Una forma attraente di teologia narrativa, familiare all’Autrice, non nuova alla densità esistenziale della parabola, una scrittura in cui il pensiero sconfina nell’illuminazione dello Spirito.
Si è accompagnati con discrezione alle soglie dell’intimità alta e semplice aperta dall’annuncio evangelico.
Con la sistematica penetrazione in Europa, il 29 maggio 1453 i turchi ottomani conquistarono Costantinopoli, mutando il massimo tempio della cristianità orientale di S. Sofia in moschea musulmana. Svaniva così il mito della capitale cristiana fondata da Costantino, mettendo a maggiore repentaglio le chiese d’Oriente e aprendo immediate conseguenze per quelle d’Occidente, per Roma in primo luogo: questo era infatti l’obiettivo del giovane sultano Maometto II, che apriva spazi nuovi in Europa per il suo impero in progressiva estensione. Senza dimenticare l’influsso esercitato da spose e concubine cristiane nella Porta, l’abilità politica dei sultani volle che i patriarchi ortodossi rimanessero in sede pagando onerose tasse per ottenere il berat di investitura, che li investiva di potestà civile sui cristiani dell’impero al punto da porre il solo patriarca di Costantinopoli al di sopra degli altri patriarchi d’Oriente. Sul fronte orientale, nel frattempo, con la fine della seconda Roma, a Mosca cresceva l’interesse per avere un proprio patriarcato indipendente da quello costantinopolitano, come avvenne alla fine del Cinquecento. La ricostruzione analitica delle vicende di quelle chiese ci fa cogliere la tenacia e la capacità di convivenza del cristianesimo ortodosso e delle sue varie chiese pur sotto un impero di religione islamica. Ad un tempo ci permette di comprendere le peculiarità che il cristianesimo russo andava assumendo, in questo caso in intesa col potere.
Quasi tutte le lingue d’Europa e molte grandi lingue dell’Asia sono apparentate dal vocabolario e dalle strutture grammaticali e formano una famiglia chiamata convenzionalmente «indoeuropea», oggi come oggi la più importante al mondo. Come le somiglianze tra l’italiano, il francese e lo spagnolo si spiegano con la comune origine latina, quelle tra il latino stesso, il greco, lo slavo e il sanscrito indicano la provenienza da una fonte comune, una lingua madre battezzata «indoeuropeo». Da due secoli i comparatisti si sforzano di ricostruirne la fonologia, la morfologia e il vocabolario.
Questa lingua è stata necessariamente parlata, in origine, da un concreto gruppo umano che chiamiamo gli «Indoeuropei». Quando e dove vivevano? Che cosa avevano in comune oltre alla lingua? Come si è diffuso il loro linguaggio? Possiamo ritrovare le loro tracce materiali? Numerose teorie pretendono di rispondere a tali domande, ma nessuna è ancora stata dimostrata compiutamente. Questo libro presenta le tre dimensioni essenziali del problema indoeuropeo: linguistica, culturale e archeologica. Ritraccia la storia delle ricerche fino agli sviluppi più recenti e più discussi (genetica delle popolazioni, «super-famiglia» di lingue...). Un posto di riguardo è riservato ai dibattiti attuali sull’associazione degli Indoeuropei a certi fenomeni archeologici, nonché sui loro legami con i popoli storici che ne sono gli eredi.
Chiaro nella presentazione, il libro si indirizza al grande pubblico di quanti vogliano addentrarsi in profondità in una questione fondamentale per la storia dell’Europa e del mondo.