La potente attualità del messaggio filosofico di Maurice Blondel
«Professore di filosofia»: è nello scarno epitaffio dettato da Maurice Blondel per la sua tomba che possiamo ritrovare, sessant’anni dopo la sua scomparsa, la cifra di un pensiero che una storiografia frettolosa e censurante ha presto rinchiuso nel cosiddetto «spiritualismo». La passione e l’attenzione verso lo scambio, la trasmissione, il confronto hanno accompagnato fin dagli esordi l’elaborazione della famosa azione in cui accadono la parola e il tempo del discorso e che, lungi dall’essere riducibile al rapporto tra conoscenza e prassi, si svela piuttosto come quell’accadere della soggettività umana in cui riacquistano senso il desiderio, la volontà, la conoscenza o, in una parola, la razionalità. Le cronache, sempre orlate di leggenda e mai definitivamente verificabili, raccontano che durante i dieci anni in cui maturò la prima elaborazione di L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Blondel abbia letto pagine del suo lavoro ad un adolescente per verificare la comprensibilità del linguaggio adottato, come a ribadire l’insuperata efficacia dell’antico magistero socratico che riconosceva nell’altro la risorsa prima e ultima per una comprensione dell’esperienza umana. La lettura di L’azione, allora, sarà tanto più rigorosa e profonda quanto più non lascerà inespressa l’esperienza magisteriale che l’ha accompagnata, ed è per questo che l’autore, senza cedere a semplificazioni e senza rinunciare alla discussione delle posizioni assunte nel tempo dai più importanti studiosi italiani e stranieri del filosofo di Aix-en-Provence, presenta le sue analisi senza rifugiarsi in alcun "gergo" intimorente e, alla fine, chiuso rispetto allo scambio critico. Dopo aver individuato nel connubio tra il determinismo della percezione e delle leggi naturali e l’esercizio della volontà libera del soggetto la radice di un dibattito divenuto di potente attualità, il confronto con i testi di Blondel è impostato a partire da tre fuochi teorici: il fuoco metodologico, in cui viene riguadagnata la concreta fattualità nella quale si svolge la vicenda umana al di là dei dualismi che separano unilateralmente la razionalità dalla fede, dall’affettività e dall’educazione; il fuoco etico, in cui l’agire e la volontà che caratterizzano l’uomo si rivelano, da ultimo, come non deducibili da astratte costruzioni teoriche ma come fondanti la stessa razionalità; il fuoco ontologico, in cui l’azione scopre, attraverso il proprio esercizio, la necessità di ancorarsi a quanto lo stesso Blondel definisce «Unico necessario» mai padroneggiabile e, per questo, sempre altro rispetto alle pretese della razionalità. Tre fuochi in cui si gioca la credibilità di una ragione inscindibile dai suoi atti, perché - come scrive lo stesso Blondel - «nessun atto umano è cosciente, né può avere la consapevolezza della sua autodeterminazione, se non ha in sé l’idea almeno implicita della propria originalità, delle proprie conseguenze ripercuotentisi all’infinito, della propria intemporale responsabilità cui non può, alla fine, sottrarsi».
Radicamento e apertura dell'altro: la via millenaria della cultura ebraica
La religione ebraica è stata la prima ad apparire tra le tre grandi religioni monoteiste, dette «religioni del libro», le cui influenze, convergenze e discordanze strutturano ancora in così larga misura il destino dell’umanità. Tradizione antichissima, la cui trasmissione costituisce, malgrado i peggiori imprevisti, una testimonianza senza pari della fedeltà di un popolo a se stesso e al proprio Dio, l’ebraismo è a tal punto legato al destino del suo popolo, e viceversa, che lo si potrebbe pensare da sempre immobile, ermetico e chiuso su se stesso. È una visione troppo schematica e potenzialmente pericolosa, che l’autore di questo libro supera disinvoltamente, combinando una esposizione dei tratti essenziali dell’ebraismo, di ciò che ne costituisce in qualche modo l’essenza, con una presentazione delle grandi direttrici delle sue evoluzioni e della sua costante apertura all’Altro. Come logica conseguenza, questo percorso lo porta a gettare un incisivo sguardo sull’ebraismo francese e sulle sue risposte alle sfide in cui s’imbatte.
Una critica serrata ed acuta allo star system del mercato culturale globale
I personaggi della vita pubblica modellano la loro figura sociale per attirare le luci dei riflettori proiettando un’immagine attraente. Gli esperti di public relations vendono segreti per diventare famosi e trovare un posto nello star system. Ciononostante, il segreto ultimo della fama sta nel ridursi a oggetto. Un oggetto di richiamo, identificabile e universalmente conosciuto. Le stelle del cinema creano con il loro corpo i personaggi che interpretano, e a loro volta sono creati come personaggi pubblici dai loro registi e dai loro agenti. Si trasformano in oggetti, sculture viventi. Curiosamente, anche uno scultore famoso può finir trasformato in statua. «La fama è un accumulo di malintesi» che poco a poco cesella il monumento pubblico - come diceva Rilke di Rodin. Le prime opere letterarie (i detti, le canzoni) furono anonime perché l’attenzione si concentrava sul segreto delle parole memorabili. Circolavano di bocca in bocca e l’autore si perdeva di vista. Oggi abbiamo raggiunto l’estremo opposto: i nomi degli autori e gli aneddoti delle loro vite coagulano l’attenzione, mentre l’opera e i suoi miracoli si perdono di vista. Parlare degli autori è più interessante che leggerli.
Dall'America indigena un messaggio di speranza al mondo contemporaneo
Questa opera, a cui hanno partecipato autori di vari paesi dell’America Latina dando voce a esperienze di largo respiro, apre un orizzonte fondamentale per concepire il futuro del pianeta. Ritrovare il rapporto tra l’uomo e la terra, non ridurre la terra a una merce di cui il più forte si può appropriare per usarla contro la sua stessa natura, riguarda tutto il mondo: Americhe, Africa, Asia, Oceania e certamente anche Europa. Il mondo indio e contadino delle Americhe, pur nella sua povertà, ha oggi da dare un contributo culturale e politico di grande prospettiva. Le popolazioni originarie delle Americhe, oltre ad avere in comune condizioni di forte emarginazione sociale, si distinguono anzitutto per la loro antica cultura solidaristica, comunitaria, per il rapporto privilegiato che hanno avuto da sempre con la natura, con la terra, la Madre Terra, Pacha Mama; e proprio per questo lottano per evitare lo sfruttamento senza regole dei loro territori da parte delle grandi imprese multinazionali del mondo cosiddetto «emancipato», quello dello sviluppismo quantitativo e consumista del capitale. Il mondo indio e contadino ci mostra come le politiche economiche dei popoli siano chiamate a porsi in totale alternativa al modo di produzione liberista in una prospettiva socio-economica autodeterminata e partecipata, in grado, ad esempio, di valorizzare le diversità dei modelli adottati dai contadini e dagli indigeni nel loro modo di gestire la terra, proponendo forme di articolazione alternative ai modelli di produzione dei gruppi economici dominanti. A poco valgono le proposte di uno sviluppo sostenibile se non c’è la riappropriazione, da parte di chi lavora ed è in un rapporto armonico con la terra, della gestione della produzione e del territorio. Il presente volume è sì un grido di ribellione al protrarsi della gestione coloniale di troppa parte del pianeta, ma, anche, il grido di speranza per l’umanità lanciata dagli indiani d’America: «Del vento soltanto ho paura».
Il messaggio della Cappella Sistina
Sino ad oggi la Cappella Sistina è stata soprattutto studiata sotto il profilo stilistico e, sulla scorta dei lavori di restauro, sotto quello eminentemente tecnico. Questo volume mostra una nuova Sistina attraverso uno sguardo del tutto innovativo all’iconografia delle pareti laterali dipinte fra gli altri da Botticelli, Perugino, Signorelli e del lavoro michelangiolesco nella volta, nelle lunette e nella parete del Giudizio Universale. L’aspetto rivoluzionario del lavoro non consiste nel sovvertire giudizi storico-artistici o attribuzioni oramai del tutto assodati dalla critica, ma nel mostrare immagine per immagine, colore per colore la soggiacente struttura simbolica che ordina coerentemente l’intera opera. Questa struttura simbolica, un vero e proprio programma filosofico-teologico, anticipa e determina l’intera storia degli affreschi della Sistina, dagli artisti quattrocenteschi sino al lavoro di Michelangelo. Si tratta di un programma iconografico unitario formulato dai teologi di Sisto IV, in pieno Quattrocento, e poi seguito dallo stesso Michelangelo molti anni dopo. La pubblicazione è anche l’occasione per mostrare la Sistina con un’eccezionale abbondanza di particolari in modo che questo scrigno d’arte risulti "squadernato" di fronte agli occhi del lettore, ma anche "decodificato" nei significati e persino nell’uso dei colori di ciascuna scena.
Una critica serrata ed acuta allo star system del mercato culturale globale
I personaggi della vita pubblica modellano la loro figura sociale per attirare le luci dei riflettori proiettando un’immagine attraente. Gli esperti di public relations vendono segreti per diventare famosi e trovare un posto nello star system. Ciononostante, il segreto ultimo della fama sta nel ridursi a oggetto. Un oggetto di richiamo, identificabile e universalmente conosciuto. Le stelle del cinema creano con il loro corpo i personaggi che interpretano, e a loro volta sono creati come personaggi pubblici dai loro registi e dai loro agenti. Si trasformano in oggetti, sculture viventi. Curiosamente, anche uno scultore famoso può finir trasformato in statua. «La fama è un accumulo di malintesi» che poco a poco cesella il monumento pubblico - come diceva Rilke di Rodin. Le prime opere letterarie (i detti, le canzoni) furono anonime perché l’attenzione si concentrava sul segreto delle parole memorabili. Circolavano di bocca in bocca e l’autore si perdeva di vista. Oggi abbiamo raggiunto l’estremo opposto: i nomi degli autori e gli aneddoti delle loro vite coagulano l’attenzione, mentre l’opera e i suoi miracoli si perdono di vista. Parlare degli autori è più interessante che leggerli.
"Nel 2003 pubblicavo in questa collana Istinto e spettri, di Annelisa Alleva, non a caso studiosa di poeti russi contemporanei, toccata anche dal magistero del più recente e grande, Iosif Brodskij. Quel libro svelava una poesia traboccante e naturale, una pienezza lirica felice e palpitante, e una cifra originale, quanto internazionale, della sua autrice. Una voce originale e inconfondibile, come conferma questo trascinante La casa rotta, una scorribanda poetica ebbra, una corsa sulla neve e in volo, rasoterra, un'esplosione dell'io lirico antico, che a volte, in molti autori, può essere convenzionale, mentre qui nulla è di convenzionale, l'io si appropria sempre e subito dell'altro, della persona a cui parla e si rivolge, da quella malata alle creature palpitanti vitalità. La voce poetica di Annelisa Alleva pare un'amplificazione della realtà psichica e sentimentale, un'amplificazione perfettamente fedele alla fonte, priva di ogni deformazione, ma capace di far suonare le corde segrete e inespresse dell'emozione. Per questo dolore e gioia si mescolano con la fulminea naturalezza con cui buio e luce si susseguono a ogni batter di ciglio. Per questo tale voce suona autentica e inconfondibile, e le sue parole dettate da necessità naturale" (R. Mussapi).
Communio numero 222, ottobre-novembre-dicembre 2009
Testi di: Jean-Pierre Batut, Antonio Bellingreri, Massimo Camisasca, Aldino Cazzago, Maria Antonietta Crippa, Claire Daudin, Maria Vittoria Gatti, José Granados, Maria Teresa Maiocchi, Silvano Petrosino, Giuseppe Reguzzoni, Giuseppe Simoni
Nuove chiavi di lettura su uno dei massimi filosofi del novecento
Ancora avvolta dall’aura dello scandalo, l’opera di Georges Bataille corre il rischio di vedere oscurata la forza teorica che la sostiene e che continua a provocare una contemporaneità poco incline ad occuparsi di un pensiero scomodo e non addomesticabile. Eretico, sulfureo, maledetto, Bataille incarna le inquietudini vissute dall’Europa delle guerre mondiali, e i suoi legami con Klossowski, Leiris, Blanchot, Kojève e le varie avanguardie artistiche del secolo appaiono oggi come la testimonianza di un’intelligenza fervida, spesso in anticipo sui tempi ma anche capace di sondarne le direzioni e gli esiti e, soprattutto, capace di essere sempre pienamente presente a quanto si veniva annunciando. Se, dunque, è innegabile riconoscere che la prima metà del secolo appena trascorso sia stata inquietata dalle sue analisi ribelli e volutamente eterogenee, lanciate come una sfida verso saperi apparentemente inscalfibili, è altresì difficile trovare unite in una medesima esigenza del pensiero letteratura e politica, filosofia e scienza, etnologia e indagine iconografica: pensatore dell’estremo, fondatore del Collège de Sociologie insieme a Leiris e a Caillois, fondatore di Critique e collaboratore di un imprecisato numero di riviste su cui si esercitarono le menti più acute dell’avanguardia artistica francese, Bataille ha legato il suo nome alla pubblicazione di un’opera narrativa di folgorante bellezza, come pure all’indagine antropologica condotta a partire dai sentieri inaugurati da Marcel Mauss o, ancora, alla partecipazione ai dibattiti politici stretti nella morsa dei totalitarismi. La scrittura febbrile di Bataille esige un’attenzione e un ascolto capaci di accogliere l’impensato da cui scaturisce e verso cui pencola e che, da una parte, assume la forma stessa della dépense, del dispendio delle parole e del pensiero e, dall’altra, si modula come quell’"impossibile" comunità del segreto che ci è stata consegnata sotto il nome di Acéphale: tra dépense e Acéphale, dunque, è possibile individuare la tessitura di una riflessione che scardina gli ordini sociali e politici in nome di una più radicale condivisione di quella finitezza di cui ogni uomo è insieme prigioniero e custode. Finitezza dai confini smarginati, enigmatica mescolanza di riso e tragedia, incessante trapasso in cui restano impigliati frammenti che invocano un infinito e frammentario commento, memore forse dell’unico imperativo della scrittura e della comunità che - come ha scritto Blanchot a proposito dell’amico - consiste nel «darsi senza ritorno all’abbandono senza limite».
La drammatica vicenda di una famiglia ebrea consente di leggere la grande storia con rinnovata profondità
Tra le 8.500 persone arrestate, uccise o deportate durante l’occupazione tedesca in Italia, in quanto considerate di "razza ebraica" dai persecutori, gli "ebrei stranieri" furono il gruppo percentualmente più colpito dagli arresti e dalle spedizioni verso la fabbrica della morte. Molti fra loro erano già in fuga da anni - in un’Europa sempre più consegnata alla barbarie del razzismo di Stato - e avevano trovato un rifugio precario in un Paese come l’Italia, che pure era parte del sistema di discriminazioni che si stava realizzando sul continente. Hans e Robert Lichtner erano due ragazzi viennesi; avevano 15 e 11 anni quando giunsero in Italia e la loro vita cambiò per sempre. Di fronte alla persecuzione Hans, Robert e i loro genitori ebbero, per difendersi, solo se stessi e la forza della loro coscienza; non erano dotati di altre armi che della consapevolezza della dignità umana. Usarono quest’arma nel modo migliore, ergendo la propria esistenza a difesa di se stessa. Ed ebbero la ventura di incontrare altri uomini che nutrivano la medesima fede nella dignità umana. Questo libro rappresenta perciò in primo luogo la ricostruzione, su base archivistica, di una vicenda individuale, cioè del destino di esistenze ordinarie nell’Europa razzista degli anni ’30 e ’40 del Novecento. In quanto emblematica, la vicenda che è al centro di questo libro vuole contribuire a disegnare un intreccio indiziario sul regime fascista, la sua natura, alcune delle forze che lo agitavano, tanto a livello generale quanto a livello locale. Tanto più che la ricerca storica sul fascismo non può fare a meno del metodo del case study, poiché - per la natura del regime e per il modus operandi degli uomini che lo guidarono (al centro e in periferia) - a volte proprio nei contesti individuali emergono dati di carattere generale, di cui si avrebbe altrimenti una percezione incompleta e sfumata. In particolare, la documentazione di cui si avvale il libro permette di meglio focalizzare l’atteggiamento di opposizione assunto nei confronti della politica razzista del regime da parte dei seguaci di Balbo, di alcuni fiancheggiatori cattolici del fascismo e di esponenti dell’episcopato meridionale, come l’arcivescovo di Chieti, mons. Venturi. Gli stessi documenti consentono di aggiungere nuovi elementi di valutazione storica sul carattere peculiare del fascismo abruzzese, sulla figura di alcuni prefetti operanti a Pescara durante il regime, su aspetti interessanti dei rapporti tra strutture ministeriali di regime e tra autorità fasciste, sul fenomeno dell’internamento dei civili durante il secondo conflitto mondiale.
Il diario di una madre in viaggio con il figlio perduto
«Quando, verso la fine di agosto del 2005, fui improvvisamente attraversata dal desiderio e dal bisogno urgente e inderogabile di essere sul luogo dove mio figlio si era suicidato un anno prima, non sapevo che avrei scritto un diario del lento viaggio che mi ha poi portato da Lucca a Otranto. Invece, subito la prima sera, sola, in una piccola camera di un piccolo albergo sui Monti Sibillini, mi sono ritrovata a dialogare per iscritto con lui, ad annotare pensieri, cose viste, sensazioni. E così è stato per ogni sera dei diciassette giorni che il viaggio è durato. Forse un modo per fissare i pensieri, per non lasciarli pericolosamente liberi, non so. Al ritorno ho trascritto tutto sul computer. Non avevo intenzione di pubblicare questo diario. È dovuto passare del tempo prima che prendessi questa decisione. Che ho preso innanzitutto per ricordare e onorare mio figlio, ma anche perché ho pensato che forse la condivisione di un lutto può essere di conforto ad altri oltre che a se stessi, ed infine perché non si dimentichi che nel mondo di oggi, dove ormai si è schiavi di un apparire sempre belli, giovani, sani ed efficienti, dove la morte è diventata quasi un tabù di cui non parlare, c’è anche questo. E fa parte della nostra vita».