Il diritto romano è, senza dubbio, una delle forme culturali che hanno lasciato l'influenza più duratura e ampia nella storia umana. Fra le ragioni di questo successo vi è una produzione letteraria - quella dei giuristi - capace di attingere valori, parole e argomenti dall'intera cultura latina e di trasformarli in un'efficace tecnica di governo della società. Mettendo a frutto una documentazione ricca e variegata, Dario Mantovani, storico del diritto romano al Collège de France, con un approccio all'intersezione tra diritto, filologia e storia, restituisce a questa 'letteratura invisibile' il posto che le spetta. Sottoporre gli scritti dei giuristi di Roma ai metodi e alle questioni solitamente riservati alle opere letterarie consente di accertare sotto quale forma circolassero e di determinare se la loro diffusione fosse più o meno estesa e quali strati sociali toccasse. Scopriremo soprattutto il modo di ragionare dei giuristi, capaci di adottare di volta in volta forme espressive e ruoli differenti, qui impersonati da tre figure: il giurista filosofo, il giurista storico e il giurista insegnante. Una versatilità che spiega anche l'immenso lascito che hanno trasmesso alla cultura giuridica moderna.
Le drammatiche vicende del potere imperiale ci parlano di uomini e donne senza nome ma anche di coloro che vivevano nei centri del potere, i senatori, i cavalieri, i rappresentanti delle élites locali. E naturalmente dei grandi protagonisti che di rado morivano nel loro letto, gli imperatori: in questo libro restano indimenticabili i ritratti di Augusto, che da ragazzo giocò da maestro la partita dell'ultima guerra civile e morì chiedendo ai presenti se aveva recitato bene la commedia della vita; di Nerone, il despota amato dal popolo per la sua politica monetaria 'democratica'; di Callisto, lo schiavo banchiere che divenne vescovo della comunità cristiana di Roma; di Massimino il Trace, il semibarbaro sfortunato difensore della patria romana; di Diocleziano, il sovrano utopista che inventò affascinanti e imponenti ingegnerie per il futuro di Roma; di Costantino, il rivoluzionario che fece trionfare la Chiesa cattolica e costruì una società 'piramidale'; di Giuliano, che volle ripristinare la gloria degli antichi dèi e morì combattendo contro i Persiani. I collanti di tante storie plurali e singolari sono alcune linee generali che intessono il racconto, in primo luogo la documentazione monetaria come chiave per intendere gli orientamenti sociali dei sovrani e la storia del cristianesimo come trama stabile della storia generale. Una leggenda molto vera vuole che Mazzarino 'sapesse tutto', perché non gli sfuggiva nessun documento, nessuna testimonianza antica, nessun angolo della storiografia moderna. Spesso la vasta erudizione produce studiosi chiusi nelle loro biblioteche, incapaci di trasferire nella vita le pagine dei libri. Per Mazzarino valeva il contrario: la sua straripante cultura era la chiave per far vibrare le anime morte.
Quella del missionario è una delle figure chiave della modernità: un uomo pronto ad andare in terre lontane obbedendo a un ordine o a quella voce interna che si chiama vocazione. Fu così il mediatore dell'incontro tra diversi, il professionista del contatto fra popoli che si ignoravano, il testimone posto alla giuntura di culture e universi mentali diversi, spesso incompatibili. Fu a lui che spettò mettere d'accordo l'idea occidentale di Dio come persona con le nozioni totalmente diverse delle culture orientali. Il suo modello doveva scontrarsi con quello del crociato, pronto a ogni violenza, compresa la guerra, pur di ottenere con la forza l'adesione che gli era negata. Nel tempo, il potere di dare la missio, concentratosi a lungo nelle mani del pontefice, venne via via delegato ad altre figure della gerarchia ecclesiastica, ma anche a sovrani degli Stati europei che videro nell'organizzazione di ordini missionari un potente strumento di dominio coloniale.
Nel 1300 l'intero pianeta venne scosso da una serie di shock violentissimi: pestilenze, inondazioni, piccole glaciazioni, carestie. Improvvisamente fu come se demoni, venti e draghi si coalizzassero per punire l'orgoglio dell'uomo. Eppure le tre grandi civiltà del tempo, quella europea, quella islamica e quella cinese, seppero costruire dei veri e propri 'paesaggi adattativi', nuove forme di organizzazione sociale, politica ed economica che lanciarono il mondo verso una fase nuova.
Dai tempi delle guerre persiane, Oriente e Occidente sono fratelli coltelli, amici e nemici, sogno e incubo. «L'Oriente è l'Oriente, l'Occidente è l'Occidente: e nessuno potrà mai accordarli», dichiara Rudyard Kipling al tempo della fondazione dell'impero britannico d'India. Sulla base dei troppi malintesi generati dal loro confronto sono emersi anche 'ismi' ideologici, tanto accaniti tra loro quanto ambigui: orientalismo e occidentalismo, avvolti nel dilatare delle loro contraddizioni. Già Oswald Spengler aveva decretato il 'tramonto dell'Occidente'; ma immediatamente, dietro l'Occidente-Europa spengleriano, se n'era andato profilando un altro, quello americano, che dopo aver soggiogato il Pacifico si apprestava a trangugiare anche l'Atlantico: Leviathan di terra e di mare secondo Carl Schmitt, contrapposto a Behemoth, compatto Oriente tutto terragno. Ma intanto però, altrove, dal Giappone alla Cina e all'India si andavano proponendo altri Occidenti, fondati su presupposti differenti da quello euroamericano e portatori di altre 'modernità'. Con la guerra in Ucraina, la Russia viene definitivamente spostata verso l'Asia ed esclusa dalla sua dimensione cristiana ed europea. Ma questa definizione di Occidente ha senso o è soltanto utile oggi per ragioni strumentali?
Già a metà degli anni Novanta, destra populista e cattolicesimo tradizionalista hanno cominciato a lanciare allarmi contro i pericoli a cui una fantomatica 'teoria del gender' esporrebbe la società (o anche la nazione, la famiglia, la civiltà, la gioventù, l'infanzia e chi più ne ha più ne metta). Oggi, il nemico è l''ideologia gender', un'etichetta che serve a evocare l'attacco, unitario e programmatico, che una molteplicità di soggetti (le femministe e le persone Lgbtq+ prima di tutti) starebbero sferrando all'ordine naturale alla base della nostra società. Da chi si aggirerebbe per le scuole a confondere l'identità sessuale di ignari bambini agli uomini che mettono la gonna, fino ai fanatici delle lettere e simboli finali (schwa, u, *). Ma sono davvero questi gli oggetti del contendere? Perché ci si accalora tanto su questi temi? Quali sono le istanze portate avanti dagli antigender e, sul fronte opposto, da chi sfida l'ordine 'naturale'? Se gender è una parola moderna, questa sfida è iniziata molto tempo fa. Una lunga storia a cui conviene prestare attenzione, oltre le comode semplificazioni.
Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, le forze conservatrici dominavano tutta l'Europa e reprimevano ogni tentativo di mutare il corso dell'esistente, in Italia come in Francia, in Spagna come in Ungheria. Ma la speranza si riaccese all'improvviso e inaspettatamente proprio in uno dei luoghi simbolo del nostro continente: la Grecia, allora dominio dell'Impero turco. Contro ogni ragionevole speranza di successo, la gente dei villaggi, delle valli e delle isole della Grecia si sollevò contro il sultano Mahmud II e affrontò l'enorme potenza dell'esercito ottomano, la sua celebre cavalleria turca, i crudeli fanti albanesi e i temibili egiziani. Mark Mazower ci fa conoscere i cospiratori rivoluzionari e il terrore delle città assediate, le incredibili storie di sacerdoti, di marinai e schiavi, di eroi ambigui e di donne e bambini indifesi in un conflitto di straordinaria brutalità. La causa greca trovò sostenitori accesissimi, da Foscolo a Byron, e ha avuto un ruolo centrale nella nascita del Romanticismo. Anzi, si può dire che proprio allora nacque un nuovo tipo di politica capace di far accorrere volontari da tutta Europa. Allora, per la prima volta nella storia, i leader europei hanno dovuto fare i conti con la volontà dei popoli di conquistare, a un costo spesso terribile, un futuro diverso da quello stabilito dall'alto.
Possiamo considerare una lattina un resto archeologico? E cosa ci racconta della nostra civiltà? Cosa rende rilevanti luoghi e oggetti al punto da riconoscerli come siti o reperti archeologici? A partire da dieci oggetti - ad esempio una busta per la spazzatura, una lattina, un furgone Ford Transit, una bottiglia di plastica, una penna USB, un ammasso di detriti in orbita - in dieci brevi capitoli, l'archeologia mette a disposizione il suo sguardo e i suoi metodi per affrontare alcuni fra i principali temi del passato contemporaneo: dall'industrializzazione alla produzione dei rifiuti, dai conflitti mondiali alla diffusione dell'automobile e dei trasporti di massa, dagli orrori dei totalitarismi alle migrazioni non documentate, dalla Guerra fredda all'affermarsi della civiltà digitale, dall'esplorazione dello spazio all'industria cinematografica.
Israele viene solitamente descritto come un'isola democratica in mezzo a un oceano oscurantista e Hamas come un esercito di belve assetate di sangue. La storia sembra tornare al XIX secolo, quando l'Occidente perpetrava genocidi coloniali in nome della sua missione civilizzatrice. I suoi presupposti essenziali rimangono gli stessi: civiltà contro barbarie, progresso contro intolleranza. Accanto alle dichiarazioni di rito sul diritto di Israele a difendersi, nessuno menziona mai il diritto dei palestinesi a resistere a un'aggressione che dura da decenni. Ma se in nome della lotta all'antisemitismo viene scatenata una guerra genocida, sono i nostri stessi orientamenti morali e politici a offuscarsi. A uscirne minati sono i presupposti della nostra coscienza morale: la distinzione tra bene e male, oppressore e oppresso, carnefici e vittime. L'attacco del 7 ottobre è stato atroce, ma deve essere analizzato e non solo condannato. E dobbiamo farlo chiamando a raccolta tutti gli strumenti critici della ricerca storica. Se la guerra a Gaza dovesse concludersi con una seconda Nakba, la legittimità di Israele sarebbe definitivamente compromessa. In tal caso, né le armi americane, né i media occidentali, né la memoria distorta e oltraggiata della Shoah potranno riscattarla.
Per vent'anni Benedetto Croce fu l'unica voce libera del nostro Paese. L'unico intellettuale a cui il regime fascista, per il suo prestigio e il suo carisma, concedeva una certa libertà di espressione. Da solo, attraverso i suoi libri, la sua rivista e le sue relazioni, riuscì a tenere accesa la fiamma della speranza in tanti giovani. Un racconto che ripropone l'eterna battaglia tra libertà e asservimento della cultura. Benedetto Croce non è stato soltanto uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento ma ha svolto una funzione fondamentale durante il Ventennio fascista, impedendo al regime di ottenere una egemonia assoluta sulla cultura del nostro Paese. Con un taglio originale, questo libro, oltre a seguire l'atteggiamento di Croce dinanzi al fascismo - accolto con simpatia, poi combattuto con tenacia e inventiva -, ricostruisce non soltanto la biografia del filosofo nel ventennio più tormentato del Novecento, ma ricollega lo studioso liberale ai protagonisti della cultura italiana ed europea, da Thomas Mann a Stefan Zweig. Con una ricca documentazione inedita, Franzinelli illustra l'offensiva degli squadristi e la 'macchina del fango' scatenata contro il filosofo dissidente, la sua rete di corrispondenti e le schedature poliziesche di chiunque lo frequentasse o gli scrivesse. Emerge il ruolo di Croce nella formazione di giovani che - da Giorgio Amendola a Vittorio Foa, da Leone Ginzburg a Piero Gobetti - lo presero quale riferimento in momenti decisivi della loro esistenza. Una particolare attenzione è dedicata alla battaglia di Croce contro il razzismo: era nota la sua contrarietà alla persecuzione degli ebrei, ma ora emergono la continuità e la profondità del suo impegno, che non trova pari in nessun altro intellettuale italiano.
Per molto tempo gli storici si sono interrogati sul consenso al regime fascista e hanno dedicato poca attenzione all'uso della violenza da parte dei fascisti e al ruolo anche simbolico che questo ha avuto. John Foot, nel solco della migliore divulgazione inglese, ne ricostruisce la storia a partire da singole storie individuali, spesso dimenticate. Rivoltelle, bombe a mano, manganelli e olio di ricino: questo era l'armamentario delle 'squadracce' fasciste che cento anni fa imperversavano per l'Italia, lasciando una scia di morte e di devastazione. Una violenza che sconvolse la penisola e ne paralizzò ogni reazione.
La vicenda di Roma, lungo tutto il suo percorso millenario, è accompagnata da un concetto particolarissimo e originale: quello espresso nel termine imperium. Questo vocabolo traduce il rapporto tra il potere nella sua accezione più alta e la sua responsabilità. Nel gestire questa gravosa incombenza il potere deve confrontarsi con una serie di doveri. Ab origine, la responsabilità verso il popolo romano è subordinata a una serie di valori addirittura anteriori alla nascita stessa dell'Urbe, come quello di fides, il rispetto delle regole. A questo concetto sono costretti a rapportarsi tutti i grandi di Roma. Camillo, cui viene attribuita una prima definizione del diritto naturale, che vieta ogni atto in contrasto con la natura dell'uomo; Scipione, il primo imperator, che proclama la superiorità di un singolo sulle strutture. Muove all'azione Silla, l'idealista in cerca di impossibili ritorni al passato; accende Cicerone nella sua teoresi; lo reclama per sé Cesare senza poter conservare né il potere né la vita; lo struttura mirabilmente Augusto, nel nuovo patto con gli dei (la pax Augusta) da cui nascerà la monarchia. L'intero corso della storia imperiale assiste poi a un costante dibattito, che impegna tanto gli stoici quanto la propaganda di corte, gli imperatori-soldati come il pensiero cristiano. Da quest'ultimo ambito uscirà, infine, la struttura tetragona e proiettata nei secoli a venire dell'impero cristiano.