Nato verso il 331, morto nel 365 combattendo contro i Persiani, l'imperatore Giuliano fu un drammatico segno di lacerazione nella storia: esecrato dai cristiani (che lo accusarono di "apostasia"), amato da pochi pagani e presto abbandonato dai suoi stessi discepoli. A sei anni, conobbe il trauma del massacro del padre e del fratello, perpetrato su istigazione del cugino Costanzo II. Venne educato dall'eunuco Mardonio; e da allora visse di libri e nei libri, in un'esaltazione intellettuale che trasferì nella vita quotidiana: "Desideri corse di cavalli? Ce n'è una in Omero descritta alla perfezione; prendi il libro e leggilo fino in fondo. Senti parlare di danzatori pantomimi? Lasciali perdere; i giovani presso i Feaci danzano in modo più virile". Era un nevrotico, ansioso, aggressivo, con gli occhi mobili e ardenti, "scintillanti di fuochi siderei", che esprimevano la sua inquietudine. Simile al Sigismondo di Calderón, fatto uscire di prigione per cingere la corona, come poteva non pensare che "la vita è un sogno e che i sogni non sono altro che sogni"? Il grande sogno della sua vita fu la restaurazione della religione pagana: fondata sul neoplatonismo fuso con la teosofia e la teurgia di Giamblico; accesa dall'ispirazione della luce; infuocata dall'ardore cristiano; trasformata in una teologia solare trinitaria. Questo volume degli "Scrittori greci e latini" presenta i suoi capolavori : la "Lettera a Temistio", i discorsi "Alla Madre degli dei" e "A Helios re" e il "Misopogon". I due discorsi sono delle estatiche professioni di fede, delle sontuose omelie liturgiche, degli oracoli immaginosi, delle perfette fusioni di mito e di allegoria filosofica. Nel "Misopogon" la confessione, la predicazione, il disprezzo, l'ironia e l'autoironia amara e sottile, la disperazione si intrecciano a formare uno dei testi più squisiti della tarda letteratura greca.
Indice - Sommario
Introduzione, di Jacques Fontaine
Nota bibliografica
Abbreviazioni bibliografiche
Per l'edizione degli scritti di Giuliano, di Carlo Prato
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
- Siglorum index
- Lettera a Temistio
- Alla Madre degli dei
- A Helios re
- Misopogon
COMMENTO
- Siglorum index
- Lettera a Temistio
- Alla Madre degli dei
- A Helios re
- Misopogon
Prefazione / Introduzione
1. Un segno di contraddizione per gli uomini e per gli dei
Giuliano non ha mai smesso di essere un segno di contraddizione, quanto e ancor più del "Galileo" perseguitato dalla sua vendetta. In primo luogo, per sé stesso. L'"apostasia", con cui la tradizione cristiana ha stigmatizzato Giuliano l'"Apostata", si presta a una riflessione più ampia del suo senso ovvio. Una rilevante quantità delle parole di Giuliano, dei suoi scritti e dei suoi atti, trova senza dubbio la propria ispirazione in questo rinnegamento di un cristianesimo che gli fu imposto innanzitutto dalla tradizione familiare e da una parte non trascurabile della sua educazione. Questo stesso rinnegamento però non fu un atto compiuto con serenità. Rimase appassionato ed inconcluso; nel corso della sua breve vita. Giuliano non è mai riuscito ad imporne le conseguenze ultime ai suoi sudditi, e neppure a una gran parte della sua cerchia.
La resistenza passiva, incontrata dal suo tentativo di decristianizzare l'impero, non dipese solo dall'ampiezza e dalla profondità della cristianizzazione, circa mezzo secolo dopo che Costantino si era convertito. Fu suscitata anche dallo strano paganesimo che l'imperatore aveva intenzione di imporre: quello di una contro-Chiesa pagana, armata di ascetismo, di carità e di devozione, di un rigore dogmatico che nessuna religione antica aveva ancora conosciuto. Questo neo-paganesimo filosofico e moralizzante, anche aggressivo, pretendeva di integrare alle tradizioni religiose quei valori, quelle pratiche e quelle strutture più comuni che nei fatti avevano assicurato al cristianesimo il suo dinamismo e il suo successo. Tuttavia, queste religioni, per la maggior parte di pura adesione collettiva, si potevano trasformare facilmente in una religione unificata e ufficiale di partecipazione personale? Né i cristiani, né i pagani del quarto secolo, a parte poche eccezioni, avevano fatto la stessa esperienza di un'apostasia ponderata come quella di Giuliano, né l'avevano vissuta con una tale profondità, con lo stesso disegno politico di un sincretismo che superasse in qualche modo le due tradizioni, trasfondendo in un paganesimo spesso esangue il sangue fresco di una religiosità di tipo orientale e dunque, in qualche modo, pseudocristiano. Quest'ambizione poco ragionevole tradisce subito la contraddizione di una conversione incompiuta, perseguita dolorosamente come una sorta di apostolato alla rovescia, in mezzo all'indifferenza degli uni e all'ostilità degli altri, più o meno dichiarata e sarcastica.
Lo scontro tra l'imperatore e i suoi sudditi - cristiani o pagani - raggiunge il punto critico ad Antiochia, in tutti i ranghi della società. I cristiani naturalmente furono i più ostinati nell'opporsi alle misure di restaurazione metodica, nelle città, delle religiones tradizionali: la Chiesa cristiana si sentì legittimamente minacciata nella sua stessa esistenza. Come in pieno terzo secolo, l'esercito ebbe i suoi martiri, in molte città dell'Oriente le folle si scatenarono di nuovo contro i cristiani; talvolta in modo subdolo, talvolta cinico, l'epurazione ebbe inizio tra le file dei professori e degli stessi giuristi. Questa persecuzione ufficiale rappresentava un regresso rispetto all'editto di Milano, alla decisione presa nel 313 da Costantino e da Licinio, in base alla quale tutti i cittadini dell'impero si erano visti riconoscere esplicitamente la libertà di praticare la propria religione. Un pagano convinto, come l'ufficiale di stato maggiore Ammiano Marcellino, fu profondamente scandalizzato dall'editto imperiale del 17 giugno 362, che precludeva ai cristiani le funzioni di insegnamento con il pretesto, apparentemente razionale, che essi non erano in grado di spiegare in modo corretto opere dove apparivano tanti dei e miti ai quali non credevano più. Editto "spietato, che bisogna seppellire in un oblio eterno" : il giudizio è tanto più severo in quanto chi lo pronuncia è uno dei più fervidi ammiratori di Giuliano, anzi il suo più caldo panegirista in lingua latina. Questo estremismo settario, manifestato da Giuliano in tanti campi, sia per temperamento sia per convinzione ponderata, non era fatto per sedurre la massa dell'opinione pubblica pagana, né, soprattutto, gli ambienti colti. In questi ultimi, la tradizione religiosa si associava a un senso della misura, anzi a un liberalismo informato secondo un eclettismo aperto, animato da una "filantropia" incompatibile con ogni fanatismo.
Comunque, una minoranza attiva di filosofi, di retori, e più in genere di letterati, non senza grandi riserve rispetto ai mezzi, aderì al grande progetto di Giuliano: quello di restaurare un "ellenismo" dove cultura e religioni antiche si sarebbero alleate per riconquistare il terreno occupato ormai da un secolo, nella società romana, dal cristianesimo in piena espansione. In questa sorta di coalizione dell'"intellighenzia" tradizionalista, vanno posti in primo piano i filosofi neoplatonici Massimo di Efeso e Prisco, i retori Temistio e il più distaccato Libanio d'Antiochia; Oribasio, il medico di Giuliano, di cui abbiamo perduto purtroppo le preziosissime memorie; infine, alti dignitari, come quel Saturninio Secundo Salustio che, per diffondere le idee di Giuliano, redasse il piccolo catechismo pagano dal titolo "Degli dei e del mondo", destinato "a coloro che vogliono istruirsi sugli dei" e "debbono essere ben guidati fin dall'infanzia e non nutrirsi di credenze assurde", in altri termini cristiane.
La folla non seguì sempre questi intellettuali. E anche se li seguiva d'istinto, per motivi non "filosofici", quando l'imperatore le permetteva il linciaggio dei cristiani in nuovi pogroms, questa folla non apprezzava molto un paganesimo bigotto, puritano e sostenuto. Abituati alla "dolce vita" della loro capitale, gli abitanti di Antiochia si affrettarono a farsene beffe. I loro rapporti con Giuliano, sempre più tempestosi, sfociarono in una rottura esplicita; constatazione amara e disincantata di questa rottura è il pamphiet imperiale del "Misopogon". Così, dagli ambienti colti al popolino della città, dall'alto al basso della scala sociale, persino tra quei pagani che ancora assumevano mollemente il sacerdozio. Giuliano, nella sua capitale di Antiochia, non fu persona grata. La politica di Giuliano conobbe rapidamente l'insuccesso persino con gli Ebrei, di cui invece teneva con ostentazione a ricostruire il tempio di Gerusalemme.
Poema di viaggi e d'avventure, di guerre e d'amore; celebrazione del regime augusteo e riaffermazione del mos maiorum come ideale modello di virtù civili e religiose, "l'Eneide" costituisce il testo fondamentale della civiltà classica dell'Occidente. Virgilio si prefigge l'imitazione di Omero e l'esaltazione di Angusto a partire dai leggendari antenati troiani e latini: un intreccio di motivi perfettamente fusi nel tessuto poetico scandito dall'esametro epico, flessibilissimo e ordinato. Un Omero capovolto: il peregrinare di Enea non è una ricerca della via del ritorno ma una navigazione verso l'ignoto; i combattimenti non sfociano nella distruzione di una città, ma nella fondazione della nuova capitale, Lavinio, da cui Alba Longa e la gloria di Roma. Il mondo augusteo è visto da un punto d'osservazione infinitamente lontano nel tempo: squarci profetici inseriscono nella trama narrativa schegge del presente in cui vive il poeta, così come certi flash-back riallacciano l'età repubblicana al passato mitico dell'epopea di Troia.
Con questo sesto volume, si conclude l'edizione "dell'Eneide" pubblicata per iniziativa della Fondazione Valla, col commento di Ettore Paratore e nella traduzione di Luca Canali. I libri XI e XII sono libri di guerra e di morte. Mai, come nella descrizione dello scontro di cavalieri e cavalli intorno a Camilla, Virgilio aveva rivelato la sua ferocia intellettuale, una ferocia quale non si trova mai in Omero: che orgia di sangue, che demoniaca torsione di membra, che meraviglioso manierismo michelangiolesco. Ma la morte lascia in noi un segno più profondo delle battaglie. Ecco il corpo di Pallante, disteso su un graticcio di corbezzoli e rami di quercia, simile a una viola o a un giacinto che, spiccato dalla mano di una fanciulla, non smarrisce la sua bellezza ma non è più nutrito dalla terra. Ecco i roghi dei cadaveri sulla spiaggia, i neri fuochi che nascondono il ciclo, i terribili ululati, il suolo che si bagna di lacrime. Ecco Camilla, incarnazione di tutto quanto vi può essere di selvaggio nella natura femminile, che muore: "a gradi si sciolse fredda da tutto il corpo e posò / il languido collo e il capo preso dalla morte". Ora che la fine incombe su di lui, Turno ci stringe il cuore. Avanza in silenzio, con lo sguardo immobile, le gote languenti e in volto un patetico pallore giovanile: la sua sicurezza si incrina: tutto gli sembra perduto. Guarda la città con follia mista a tormento e amore agitato dalla furia. Compie cinque giri di corsa, ripetendo i gesti di Ettore nell'Iliade. La sorella, la ninfa Giuturna, lo abbandona; una lugubre civetta lo atterrisce; e invano si sforza di scagliare, un macigno contro Enea: "E come in sogno, di notte, quando una languida quiete / grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere / avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti; / la lingua impotente, le forze consuete del corpo / svaniscono, e non escono voce o parole...". Non gli resta ormai che morire.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
COMMENTO
Abbreviazioni bibliografiche usate nel Commento
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
La caduta di Costantinopoli è uno degli eventi leggendari della storia universale : come l'assedio di Troia, la servitù babilonese, l'incendio di Gerusalemme, la conquista di Città del Messico. In un ristretto spazio di terra, abbiamo di fronte due eroi: il giovanissimo Maometto II, ora violento e avido di potere, ora consapevole della vanità di ogni gloria umana; e l'ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII, malinconico e solitario, conscio che il suo destino e il destino della sua città sono ormai segnati. Intorno a loro, echeggia un fittissimo coro : il coro dei greci che stanno per perdere la loro patria, dei turchi che vanno all'assalto accompagnati da una musica furiosa di tamburi e trombe, dei mercanti europei che vedono minacciati i loro privilegi commerciali, e dei prelati cattolici che temono l'Islam ma continuano a scorgere nella Chiesa Ortodossa l'antica rivale.
La raccolta in due volumi, curata da Agostino Pertusi, non ha paralleli in alcun paese del mondo. Essa comprende racconti in ogni lingua e di ogni specie: i diari dei mercanti veneziani e genovesi, le epistole del cardinale Isidoro di Kiev, le memorie dei greci sopravvissuti alla catastrofe, dei giannizzeri serbi, del patriarca di Costantinopoli, il testamento di papa Nicolò V, le lettere degli umanisti occidentali che vedono in pericolo la rinata religione delle lettere cristiane. Tra tutti i testi emergono i racconti di tre scrittori grandissimi : Nestore Iskinder, il fosco e apocalittico storico russo, che considera la sua patria come l'erede di Bisanzio; Tursun Beg, lo scrittore turco che trasforma gli orrori della conquista in una colorata favola da "Mille e una notte", e Ducas, il greco che piange sulla città caduta, sull'imperatore scomparso, sui giovani morti, sulle donne violate, su santa Sofia profanata.
Quando chiudiamo il grande libro di Pertusi e tutte le testimonianze discordanti si combinano nella nostra me- o moria, abbiamo un'impressione indimenticabile. Crediamo di aver partecipato anche noi all'assedio: con tale minuzioso amore erudito il commento di Pertusi ricostruisce ogni particolare e ogni istante delle giornate terribili ; e tutti i difensori della città sembrano ancora fermi al loro posto, dietro le porte o sopra le mura, nei loro inutili gesti di eroi condannati.
Indice - Sommario
Introduzione
Nota bibliografica
Cronologia
Parte prima - I TESTIMONI DELLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI
NICOLÒ BARBARO, Giornale dell'assedio di Costantinopoli
ANGELO GIOVANNI LOMELLINO, Lettera sulla distruzione di Costantinopoli
ISIDORO DI KIEV, lettere a Nicolò V, al cardinal Bessarione, ai fedeli di Cristo, al doge di Venezia, a Filippo di Borgogna
"FAMILIARIS" DI ISIDORO DI KIEV, Lettera al cardinal Capranica
LEONARDO DI CHIO, Lettera sulla presa di Costantinopoli
JACOPO TEDALDI, Informazioni sulla conquista di Costantinopoli
GIACOMO CAMPORA, Orazione al re Ladislao d'Ungheria
UBERTINO PUSCULO, Costantinopoli
GIORGIO SPHRANTZÈS, Memorie
SAMILE, Lettera a Osvaldo, borgomastro di Hermannstadt
TOMMASO EPARCHOS E GIOSUÈ DIPLOVATATZES (?), Relazione sulla presa di Costantinopoli
GENNADIO SCOLARIO, Lettera pastorale sulla presa di Costantinopoli
COSTANTINO DI OSTROVICA, Memorie di un giannizzero
NESTORE ISKINDER, Racconto di Costantinopoli
AQ SEMS ED-DIN, Lettera a Mehmed II
TURSUN BEG E IBN KEMÂL, Storia del signore della conquista
Cartine
COMMENTO
- Elenco delle abbreviazioni usate nel Commento
- Nicolo Barbaro
- Angelo Giovanni Lomellino
- Isidoro di Kiev
- "Familiaris" di Isidoro
- Leonardo di Chio
- Jacopo Tedaldi
- Giacomo Camperà
- Libertino Pusculo
- Giorgio Sphrantzès
- Samile
- Eparchos
- Gennadio Scolano
- Costantino di Ostrovica
- Nestore Iskinder
- Aq Sems ed-Din
- Tursun Beg
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La grande paura del mondo
I turchi erano una vecchia conoscenza, sia dei bizantini sia degli occidentali, ma soprattutto dei bizantini. Dai tempi della prima espansione dei Seldjukidi in Asia Minore (c. 1065) alla grave sconfitta subita dai bizantini a Mantzikert (1071) e alla costituzione del Sultanato di Rûm (1080), fino e oltre i tempi delle crociate, le conquiste turche costituirono una fonte di grave preoccupazione per l'impero bizantino e per gli occidentali. Ma il problema si fece quanto mai pressante quando la forte dinastia degli Osmani si impossessò del potere. L'avanzata di Urkhan verso le regioni europee avvenne in poco più di un trentennio: 1331, assedio e caduta di Nicea; 1336-7, assedio e caduta di Nicomedia e di Pergamo; 1340, arrivo sulle coste del Bosforo; 1344-6, battuta d'arresto: alleanza di Urkhan con l'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, fidanzamento e matrimonio di Teodora, figlia di Giovanni VI, con lo stesso Urkhan; 1346-8, bande turche in Tracia e in Macedonia; 1352, nuova alleanza di Giovanni VI con Urkhan, il figlio del quale mette in fuga Giovanni V Paleologo ; 1352-4, i turchi saccheggiano la Tracia, si impossessano della fortezza di Tzimpé e poi, approfittando di un terremoto, conquistano Gallipoli, che domina lo stretto; 1358, Giovanni V Paleologo, fallita una dimostrazione navale davanti a Focea, è costretto a riconoscere al sultano osmano le città della Tracia da lui conquistate; 1359, i turchi giungono fin sotto le mura di Costantinopoli; 1361, occupano Tchorlu, Didimoteichos, Kir Kilisse, vincono la battaglia di Lulle Burgas, conquistano Andrinopoli; 1364-5, la capitale turca è trasportata da Brussa, in Asia Minore, a Didimoteichos e poi ad Andrinopoli (Edirne). L'impero bizantino - o meglio, quello che rimaneva ancora dell'impero bizantino - era ormai chiuso in una morsa di ferro. Demetrio Cidone, ministro di Giovanni V (dal 1356 al 1358), vede già a quell'epoca con molta chiarezza la situazione. Egli non riesce a comprendere l'atteggiamento degli occidentali, sordi all'appello del papa Urbano V. Scrivendo all'amico Simone Atumano nel 1364, lo ragguaglia sulle opinioni che corrono negli ambienti di Costantinopoli: nessuno spera nell'aiuto occidentale; le promesse del papa sono considerate parole vane; gli stessi turchi chiedono, facendosi beffe dei bizantini, se hanno qualche notizia della crociata; anche lui, Cidone, teme di doversi associare all'opinione generale. È profondamente angosciato, e con grande lungimiranza politica scrive:
"Sappi comunque che, se essi non pongono in atto ora le loro minacce contro gli infedeli e tutto l'anno se ne va in risoluzioni e in preparativi, la capitale sarà presa: questo insegnano i fatti, come se fossero dotati di parola. E una volta che la [nostra] città sarà presa, essi saranno costretti a fare la guerra contro i barbari [= i turchi in Italia e sul Reno, e non soltanto contro di questi, ma anche contro coloro che abitano la Meotide [= Mar d'Azov], il Bosforo [Cimmerio = stretto di Kertch] e tutta quanta l'Asia. Quando infatti l'impero [bizantino] sarà scomparso, tutti questi popoli diventeranno gli schiavi dei vincitori, e questi [= gli asiatici] non saranno contenti se, caduto l'Oriente in schiavitù, vedranno gli altri popoli che stanno in Occidente vivere felicemente; si vendicheranno assieme ai barbari contro coloro che, pur avendo avuto la possibilità, non vollero impedire la sciagura, e faranno di tutto perché anch'essi siano fatti schiavi assieme a loro..."
Le idee che Cidone esprime all'amico, perché se ne faccia interprete presso i latini, sono da lui largamente sostenute in patria contro le diffidenze dei suoi connazionali, sia nella "Esortazione ai bizantini" nell'autunno del 1366, alla vigilia della inconcludente spedizione di Amedeo VI di Savoia, sia nella "Esortazione a non restituire Gallipoli", nel 1371. Quando infine, tornato da Venezia, trova sul trono Manuele II, successo alla morte del padre (1391), Cidone è sempre più allarmato della situazione politica e sociale, e scrivendo a Teodoro Paleologo, despoto di Morea, dice:
"Tutto qui è sconvolto e difficilmente si troverebbe quaggiù in terra un esempio simile di caos: i barbari [= turchi] si sono impadroniti di tutto, fuorché le mura della città, sono per sé stessi la causa della sua miseria, impongono tributi così gravi che le entrate tutte insieme non sarebbero sufficienti a pagarle, per cui occorrerà colpire di tasse anche la povera gente, se vorremo soddisfare, almeno in parte, l'ingordigia dei nostri nemici. Tutti però pensano che ciò sia impossibile e che non riusciremo mai a porre un freno alla loro cupidigia; guardano ormai alla schiavitù come all'unica cosa che sia in grado di liberarli dai mali interni... Inoltre continua ad infierire l'antico male che tutto ha distrutto: la lotta tra gli imperatori per questo spettro di potere, e la necessità, per loro, proprio a causa di tale lotta, di porsi a servizio del barbaro, perché solo così hanno la possibilità di sopravvivere..."
In questi anni anche il rappresentante di Venezia a Costantinopoli informa il suo governo sulla possibilità che l'impero passi in mano turca e sul generale malcontento della popolazione della città che desidererebbe un aiuto concreto da parte dell'Occidente. In effetti, i tentativi di parte turca di impossessarsi della capitale bizantina non mancarono, sia nel 1397-9, quando Bajezid Ilderim, dopo la vittoria di Nicopoli, pose il blocco a Costantinopoli - e lo storico Ducas ci informa che la popolazione presa nella morsa della fame desiderava che la città fosse conquistata -, per fortuna senza gravi conseguenze; sia più tardi, nel 1422, quando Murad II, per vendicarsi dell'appoggio dato da Manuele II al pretendente Mustâfa, pose l'assedio attorno a Costantinopoli e cercò di impossessarsene dando l'assalto alle mura, con un esercito, per buona sorte dei bizantini, troppo esiguo. Un testimone oculare di quest'ultimo tentativo, Giovanni Canano, così descrive - dopo la vittoria - l'arrivo di Murad II davanti alle mura:
"Venne furibondo, selvaggio, smargiasso, superbo, altero, orgoglioso; sollevando sprezzantemente al cielo il sopracciglio, egli riteneva di stare al di sopra di tutti, presumeva che ogni cosa dipendesse da lui e che l'universo intero fosse soggetto al suo comando..."
Durante l'ultimo assedio di Costantinopoli, segni funesti prostrarono la resistenza dei difensori. La notte del 24 maggio 1453 un'eclisse di luna oscurò il ciclo per tre lunghe ore, così come per tre ore, il giorno in cui Cristo morì, "si fece buio su tutta la terra". Poi i segni nefasti si moltiplicarono: nel corso di una processione solenne, la sacra icona della Madonna scivolò a terra; una pioggia torrenziale allagò la città; una nebbia fittissima, mai vista in quella stagione, l'avvolse ; e una strana luce, interpretata come quella dello Spirito Santo, cominciò a scintillare sopra la cupola di santa Sofia, brillò e scomparve, come un fuoco fatuo, nelle campagne.
La mattina del 29 maggio 1453, Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi. L'imperatore Costantino XII morì combattendo, e il suo corpo non fu mai ritrovato. La chiesa di santa Sofia, "il paradiso terrestre, il secondo firmamento, il Veicolo dei cherubini, il Trono della gloria di Dio", fu spogliata delle offerte dei secoli. I saccheggi, le uccisioni e i pianti degli schiavi risuonarono tra le mura della città. Bisanzio non esisteva più: quella straordinaria mescolanza di superba ostentazione terrena e di umile fede in Dio, quei palazzi e quei monasteri, la crudeltà atroce e la delicata pazienza, tanto genio ardente, tanta intelligenza squisita ed estenuata; tutto quello che aveva rallegrato lo sguardo dei secoli era morto per sempre. Per qualche anno l'umanità avvertì quel vuoto, quel brivido che si produce quando qualcosa di grande lascia la terra. I cantastorie ricordavano le parole di Geremia : "Colei che era una principessa tra i pagani e una regina tra le nazioni, ora deve servire". Il secondo volume della raccolta curata da Agostino Pertusi è diviso in due parti. La prima raccoglie i molteplici echi, racconti e testimonianze che la caduta di Costantinopoli risvegliò in tutto il mondo, dall'Occidente alla Grecia, dalla Turchia alla Russia. La seconda comprende i lamenti in prosa e in poesia che la scomparsa di Bisanzio ispirò ai poeti greci, veneti, francesi, tedeschi, slavi, armeni, e ai poeti popolari della Grecia e del Ponto.
Non si finirebbe mai di leggere Erodoto: via via che procediamo nella lettura, cresce la nostra ammirazione per quest'uomo ironico, tragico e tranquillo, che insegnò a tutti gli europei l'arte di raccontare. Come il secondo, il terzo libro delle Storie è anche un saggio di geografia economica e di etnologia: il catalogo delle regioni della Persia è degno dei bassorilievi di Persepoli (che l'accompagnano in questo volume, riuniti in un inserto iconografico); i mirabilia indiani e i sentori dolcissimi d'Arabia hanno nutrito, per secoli, la fantasia occidentale. Ma il cuore del libro è dedicato all'empietà e alla follia dei potenti: Cambise che offende le tradizioni, che uccide gli dèi, che violenta e tortura - è uno dei massimi emblemi di hybris che ci abbia offerto la letteratura greca. Erodoto non amava l'altezza e la monotonia dello stile. Così, intorno al tragico ritratto di Cambise, ecco il viaggio nel primo dei mondi utopici, l'Etiopia, dove sgorgava la fonte della giovinezza: quell'acqua lucente che sapeva di viole. Ecco il tema degli ambigui rapporti tra gli dèi e gli uomini: gli dèi invidiano gli uomini e abbattono chi è troppo felice; gli uomini sono astutissimi, come Dario, e gli dèi proteggono e benedicono ironicamente la loro astuzia; gli uomini sfidano il cielo e, questa volta con un'ironia distruttiva, gli dèi fanno accadere l'impossibile: le mule partoriscono. Ecco scorci di grandi romanzi orientali, come quello del falso Smerdi, trattati con delicatezza occidentale. Ecco, infine, i piccoli, squisiti apologhi morali di Erodoto, con i quali egli ci comunica la sua profonda e lieve saggezza. Nessuno può non commuoversi su Psammenito, che non piange per la morte dei figli, ma per quella, che dovrebbe farlo soffrire assai meno, di un vecchio amico. Nessuno può non ammirare la grazia con la quale Erodoto ci ricorda che tutte le più straordinarie azioni storiche, come la guerra della Persia contro la Grecia, nascono quasi per caso, da un discorso futile, da una chiacchiera d'alcova tra un re e la più amorosa delle sue mogli.
Indice - Sommario
Introduzione al Libro III
Bibliografia
Abbreviazioni bibliografiche
Sommario del Libro III
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Nota al testo del Libro III
Il Libro III delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Appendici
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Il terzo libro di Erodoto - la sua musa tradizionale è Talia - si ricollega, nei temi e a livello cronologico, sia al grande excursus di storia egiziana che costituisce la seconda parte del secondo libro, sia al racconto principale di storia persiana apertosi nel primo libro con la nascita e l'ascesa al trono di Ciro, interrottosi quindi con la sua morte sul campo di battaglia. Erodoto ci presenta subito i due rappresentanti di questo doppio intreccio egiziano e persiano: Amasi e Cambise. I primi capitoli riportano alcuni antefatti aneddotici che risalivano agli ultimi anni di Ciro e ai primi di Cambise. Tuttavia, il racconto vero e proprio del terzo libro si apre con la campagna egiziana del 525. I preparativi di questa campagna possono collocarsi nei due o tre anni precedenti; al limite opposto, gli eventi più tardi del libro sono costituiti dalla conquista persiana di Samo e dall'assedio di Babilonia, che Erodoto mette in rapporto cronologicamente, così da porli entrambi nel periodo iniziale del regno di Dario: all'incirca gli anni 520/19, sebbene dalle fonti orientali si desuma che l'ultima rivolta babilonese contro Dario fu domata nel dicembre 521. Dunque, è al massimo un decennio di storia a occupare il racconto principale del terzo libro. Si tratta di storia essenzialmente persiana: il regno di Cambise (529-521), l'usurpazione del Mago, la cospirazione dei sette, l'ascesa di Darlo al trono (521/1), l'opera di restaurazione e di riorganizzazione dell'impero, alcuni eventi bellici che appartennero ai primissimi anni del regno di Dario. I capitoli di storia egiziana e le tre importanti sezioni sulla storia di Samo si intrecciano nei temi e a livello cronologico al racconto principale di storia persiana. In alcuni capitoli digressivi si fa riferimento ad avvenimenti che risalivano al secolo precedente: l'appoggio di Samo a Sparta nel corso della seconda guerra messenica (fine settimo secolo), la tirannide di Periandro (forse 625-585), alcuni aneddoti di poco anteriori o contemporanei alla conquista persiana di Sardi (circa 548-546), l'ascesa di Policrate al potere (forse nel 533/2). Non mancano inoltre accenni sporadici ad avvenimenti più tardi, successivi non solo a quelli della fine del terzo libro, ma alla stessa conclusione delle Storie di Erodoto: la battaglia di Papremis del 462/1, le rivolte di Inaro e di Amirteo intorno al 450, la diserzione di Zopiro il giovane ad Atene (probabilmente poco dopo il 440). Ma, a parte questi rari sbalzi, il quadro cronologico essenziale del libro è rigorosamente circoscritto.
Anche da un punto di vista strutturale il terzo libro presenta un racconto principale solido, costituito da una serie di logoi persiani, volutamente concatenati insieme attraverso nessi cronologici, di contenuto, talvolta anche di carattere morale o simbolico. Il primo dei logoi persiani è dedicato al regno di Cambise. Si impernia sulla conquista persiana dell'Egitto: la "causa", gli antecedenti e i preparativi, la battaglia di Pelusio, l'assedio e la capitolazione di Menfi, la sottomissione volontaria dei Libi, dei Cirenei e dei Barcei. Dopo tre capitoli sulle pene e sulle umiliazioni inflitte ai membri vivi e morti della famiglia reale e della nobiltà egiziana, Erodoto si sofferma sulle tre spedizioni militari progettate da Cambise e poi fallite, che avevano tutte l'Egitto come base di partenza: contro Cartagine, contro l'oasi di Ammone e contro l'Etiopia. Solo questa terza campagna, terminata con una catastrofe, è descritta nei dettagli, in capitoli ricchi di materiale etnologico. Quando Cambise torna dall'Etiopia, l'interesse di Erodoto si concentra sul carattere, sul comportamento e sulle azioni del re, rappresentato in definitiva come vittima di una malattia mentale. Sospettandolo di cospirazione, Cambise fa mettere a morte il fratello Smerdi; uccide personalmente sua sorella, che era anche sua moglie e che era incinta; uccide il figlio del suo fido Pressaspe; fa seppellire vivi dodici nobili persiani. Al culmine della follia, secondo Erodoto, Cambise compie una serie di atti sacrileghi contro gli dei, i templi e i sacerdoti egiziani, in particolare provoca la morte del nuovo Api. Il vecchio Creso torna in scena un'ultima volta nel suo ruolo di "saggio consigliere", ma non riesce a impedire gli eccessi del re. Questa parte della "biografia" di Cambise si chiude con un famoso aneddoto di carattere etnografico e moraleggiante; in seguito, come epilogo, saranno narrate le ultime vicende e la morte del re. Tra i numerosi episodi di questo primo logos, quattro hanno la funzione di anelli di collegamento, tematico e morale, con altrettanti avvenimenti posteriori, narrati nel secondo grande logos persiano del terzo libro: l'uccisione di Api, del fratello, della sorella-moglie e del figlio di Pressaspe rinviano rispettivamente alla morte di Cambise, al regno del falso Smerdi, all'estinzione della stirpe di Ciro e alla sorte tragica di Pressaspe. Dunque, all'interno del libro, la funzione di questi quattro episodi supera i limiti tematici del primo logos. Qui il racconto principale è interrotto da varie digressioni geo-etnografiche o aneddotiche, che in genere si integrano bene nella "biografia" di Cambise: la geografia della costa palestinese, le giare di vino in Egitto, gli usi degli Arabi, la mensa del Sole in Etiopia, i costumi degli Etiopi . Un complesso novellistico di sogni, di portenti e di oracoli, è abilmente utilizzato per provare la concatenazione dei fatti.
Con le "Vite di Cimane e di Lucullo", nel testo critico curato da Mario Manfredini e accompagnato dal ricco commento di Luigi Piccirilli, la Fondazione Lorenzo Valla continua la pubblicazione di tutte le Vite di Plutarco.
Cimone è uno di quei caratteri "minori", che talvolta Plutarco preferisce ai grandi della storia: dolce, amabile, affabile, così diverso da Temistocle e Milziade e Pericle, che vivono contemporaneamente nella storia e nel mito.
Il fascino della Vita di Lucullo sta soprattutto nei fondali, che Plutarco dipinge - lui, il biografo - con una tecnica da grande affrescatore: quest'Asia barbarica ed ellenizzata, i paesaggi della Turchia di oggi, i caratteri abbaglianti e sinistri di Mitridate e di Tigrane, l'efficienza disumana e la crudeltà e l'indisciplina dell'esercito romano. Su questi fondali vediamo consumarsi la tragedia di Lucullo: l'aristocratico elegante e ironico, il grande generale, che supplicando e piangendo cerca di far combattere i suoi soldati, dai quali viene invece insultato e sbeffeggiato. L'ultima parte della Vita da l'impronta definitiva alla tragedia di Lucullo. Niente di più toccante del suo affondare nelle frivolezze e nei piaceri: Plutarco finge (o immagina) di condannarlo; ma, in realtà, da artista consumatissimo, gioca di ombre e di luci, evocando un personaggio meraviglioso.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Cimone
La vita di Lucullo
Confronto fra Cimone e Lucullo
Scolî
COMMENTO
La vita di Cimane
La vita di Lucullo
Confronto fra Cimone e Lucullo
APPENDICE
Nota al testo
Lessico geografico
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Cimone". Si è sostenuto che di rado Plutarco descrive in modo coerente il protagonista di una Vita, ma che il ritratto di Cimone è contraddittorio più del solito'. Attingendo da Stesimbroto di Taso, Plutarco inizia con il delineare un profilo poco edificante di Cimone. Numerosi i suoi difetti, poche le virtù: era screditato agli occhi dei suoi concittadini, avendo una pessima reputazione. Appariva come un giovanotto dissoluto, beone e trascurato, tutto il ritratto di suo nonno Cimone, soprannominato per la sua dabbenaggine Coalemo, cioè Balordo. Non venne educato ne alla musica ne ad alcuna delle discipline coltivate in Grecia dai giovani di buona famiglia. Per di più mancava di quell'efficacia e ricchezza di linguaggio tipiche degli Attici. Oltre a prediligere vino e baldorie, aveva un debole per le donne. Il poeta Melanzio rammenta un'Asteria e una Mnestra fra quelle corteggiate da Cimone, e Stesimbroto ricorda che ebbe due o tre figli da una donna nativa di Kleitor in Arcadia. Amò appassionatamente anche Isodice, figlia di Eurittolemo di Megacle, sua legittima sposa, e soffrì moltissimo per la sua morte (4,10). Non è tutto: ancora giovane fu accusato d'intrattenere rapporti incestuosi con la sorella Elpinice, la quale, in verità, non tenne mai una condotta esemplare, e fra l'altro se l'intendeva con il pittore Polignoto. Gran dama chiacchierata dell'antichità, costei ebbe notevole influenza non solo sul fratello, ma anche su Pende, divenendo il loro mentore politico. Attingendo ancora da Stesimbroto, Plutarco riferisce che Elpinice intercedette in favore del fratello presso Pericle, quando costui lo accusò di aver lasciato cadere l'opportunità, che gli si era offerta dopo aver espugnato Taso nel 46^/2., d'invadere la Macedonia perché corrotto con doni da Alessandro I, sovrano di quella regione. E sebbene si sostenesse che le grazie di Elpinice lasciassero del tutto indifferente Pericle, non di meno egli durante il processo seguito a questa accusa si comportò nei confronti di Cimone con sorprendente benevolenza: si alzò una sola volta a parlare contro l'imputato, quasi per assolvere una mera formalità. Per i buoni uffici di Elpinice, Cimone concluse nel 451/0 un accordo segreto con Pericle: egli avrebbe avuto il comando delle operazioni militari fuori dell'Ellade e sarebbe salpato con duecento navi alla conquista dei territori soggetti ai Persiani; Pericle avrebbe avuto mano libera in Atene. Sempre secondo Stesimbroto, riecheggiato da Eupoli e Crizia, gli Ateniesi furono indotti dal filolaconismo di Cimone e dai suoi rapporti incestuosi con Elpinice a colpirlo con l'ostracismo. Ancora: Cimone era spietato nei confronti dei potenziali nemici di Atene, degli alleati stessi della città, degli avversari personali. Mise a ferro e fuoco il territorio e attaccò la città di Faselide, che si era rifiutata sia di accogliere nei suoi porti la flotta ateniese sia di abbandonare la causa persiana (11,3).Represse duramente la ribellione di Taso (14,2.) e infine, stando a Stesimbroto, fece condannare a morte Epicrate di Acarne, il quale aveva agevolato la fuga da Atene della moglie e dei figli di Temistocle. Pure la conclamata onestà di Cimone era messa in dubbio: a Stesimbroto, che ricordava il processo contro lo statista accusato di essersi lasciato corrompere dal sovrano di Macedonia, faceva eco Teopompo il quale, oltre a interpretare la liberalità di Cimone come una forma di demagogia, lo bollava come ladro, addebitandogli anche la responsabilità di aver impartito agli strateghi ateniesi un insegnamento di corruzione.
A questo ritratto di Cimone, certamente poco elogiativo, Plutarco ne giustappone uno di segno-opposto, utilizzando notizie desunte prevalentemente da Ione di Chio. Secondo costui, Cimone aveva un aspetto tutt'altro che disprezzabile: era alto di statura e aveva una capigliatura ricciuta e folta. A differenza di Pericle, che nel trattare era arrogante poiché alla presunzione univa un grande disprezzo degli altri, Cimone aveva modi signorili. Narra Plutarco che, distintosi nella battaglia di Salamina per splendidi atti di valore, acquistò subito rinomanza presso i suoi concittadini. Molti lo incitavano a compiere imprese degne di Maratona, sicché, quando si accinse a fare il suo ingresso in politica, fu accolto con favore, venendo innalzato ai più grandi onori. Era ben visto da tutti proprio per la bontà e la mitezza del carattere. Diversamente da Pausania, che trattava con crudeltà gli alleati infliggendo loro ogni sorta di umiliazioni, Cimone accolse benevolmente quanti avevano subito offese dal reggente spartano. Comportandosi così, quasi senza darlo a vedere sottrasse ai Lacedemoni l'egemonia dell'Ellade non con la forza delle armi, ma con discrezione. Era lui a sbrigare la maggior parte degli affari dei Greci: sapeva trattare gli alleati affabilmente e riusciva nel contempo gradito agli Spartani, i quali per la stima e la simpatia verso di lui non si risentirono quando gli Ateniesi cominciarono ad ampliare il loro impero e a intromettersi nelle questioni degli alleati. Del resto, erano stati proprio gli Spartani che, ostili a Temistocle, avevano favorito l'ascesa di Cimone, preferendo che in Atene dominasse lui, benché ancora giovane. Già ricco di suo - disponeva infatti di un principesco patrimonio personale -, usò i proventi delle guerre, che tutti gli riconoscevano aver guadagnato con onore, per il bene dei suoi concittadini. A dire di Aristotele, di Cornelio Nepote e di Plutarco, Cimone fece togliere gli steccati dai suoi campi, perché stranieri e cittadini potessero liberamente cogliere i frutti della sua terra. Affinché anche ai poveri fosse lecito partecipare alla vita politica, dispose che ogni giorno venisse approntato in casa sua un pranzo frugale, ma sufficiente per quanti avessero voluto profittarne.
Basilio di Cesarea, nato nel 330 e morto nel 379, pronunciò queste nove omelie sulla "Genesi" (conosciute sotto il nome di "Esamerone") in cinque giorni: dal 12 al 16 febbraio, durante la quaresima probabilmente del 377. Persone colte, ma per la maggior parte umili, convenivano "alla mensa serale della parola"; e alla fine di ogni omelia "il suono delle voci miste di uomini, di donne e di fanciulli, come quello dei flutti che si frangono sulla riva" s'innalzava nelle "preghiere rivolte a Dio". In apparenza, "Sulla Genesi" è un manuale di scienza patristica, che trasforma e cristianizza la scienza greca: come tale, ebbe un immenso successo fino al diciassettesimo secolo. Ma le ambizioni di Basilio erano ben altre: si proponeva di scrivere quella cosmogonia e quella cosmologia che il cristianesimo ancora non possedeva, interpretando e ampliando i rapidissimi cenni della "Genesi". Nell'universo, come fu creato fuori dal tempo e come è oggi, tutto è sapienza, ordine, armonia, bellezza, provvidenza divina: non c'è traccia di tenebra, come invece sostenevano i Manichei; né di caso e di disordine. Movendo dalla bellezza della realtà visibile, Basilio voleva da un lato risalire al Grande Artefice, a "Colui che supera ogni bellezza"; e dall'altro offrire ad ogni uomo un modello di ordine e di armonia. Come chi guida un forestiero in una città sconosciuta, così Basilio accompagna tutti noi a scoprire le "meraviglie nascoste di questa grande città" - l'universo: con quale stupenda eloquenza, con quale ricchezza di colori, con che affettuosa luminosità di immagini.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Omelia I
Omelia II
Omelia III
Omelia IV
Omelia V
Omelia VI
Omelia VII
Omelia VIII
Omelia IX
COMMENTO
Omelia I
Omelia II
Omelia III
Omelia IV
Omelia V
Omelia VI
Omelia VII
Omelia VIII
Omelia IX
INDICI
Indice dei nomi
Indice dei passi biblici
Indice dei temi e delle cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Basilio e il suo tempo
Basilio nacque a Cesarea di Cappadocia intorno al 330, circa dieci anni prima che morisse Eusebio di Cesarea e poco dopo l'elezione di Atanasio a vescovo di Alessandria. Proprio nel 330, per volere dell'imperatore Costantino I, avvenne la dedicatio di Costantinopoli, l'antica Bisanzio rifondata come la "nuova Roma", con un misto di riti pagani e cristiani, probabile espressione dell'anima stessa di Costantino.
La "crisi ariana", sfociata in frange e derivazioni estremiste, continuava a interessare e a condizionare l'attività pastorale e teologica della Chiesa con i suoi intricati riflessi politici e sociali. Negli anni della gioventù e della maturità di Basilio, sedette sul soglio imperiale nella pars Orientis il figlio di Costantino, Costanzo II (337-361), della stessa tendenza arianeggiante seguita dal padre negli ultimi anni di vita. Dopo l'effimero ma convinto tentativo di Giuliano (361-363) per una completa restaurazione pagana, e il breve regno di Gioviano (363-364), favorevole ai cristiani ma non intollerante verso i pagani, l'imperatore Valente (364-378) aderì alla fede ariana secondo la formulazione imposta al concilio di Rimini (359), e contrastò duramente la politica religiosa del vescovo Basilio.
Dalla famiglia, sulla cui formazione spirituale aveva influito a fondo l'insegnamento di Gregorio Taumaturgo, fervido seguace di Origene e apostolo del Ponto, Basilio aveva ereditato natura aristocratica, sensibilità, passione per la cultura classica, e una fede cristiana radicata nella Scrittura e alimentata dalle cure della nonna paterna, Macrina. L'enorme ricchezza, costituita dalle vaste proprietà di famiglia disseminate nel Ponto e nell'Armenia, gli aprì le porte di centri culturali come Costantinopoli, dove ebbe contatti col retore Libanio, e Atene, dove fu condiscepolo del futuro imperatore Giuliano alla scuola di Imerio e di Proeresio. Ad Atene strinse profonda e duratura amicizia con Gregorio Nazianzeno. Ma la sua vocazione lo indirizzava alla vita ascetica e monastica. Tornato nella sua terra come "una nave carica di cultura", dopo la morte del padre, rinunziò alla prospettiva di una brillante e sicura carriera di retore e ricevette il battesimo; quindi si recò in Egitto, in Palestina, in Siria e in Mesopotamia, a conoscere da vicino l'esperienza dei monaci, di cui ammirò l'austerità di vita e la testimonianza di essere pellegrini su questa terra e insieme cittadini del ciclo. Di ritorno in patria, distribuì il patrimonio ai poveri e con la madre Emmelia e la sorella Macrina si ritirò ad Annesi, una proprietà di famiglia sull'Iris presso Neocesarea, un eremo aspro e incantevole, che, oltre i frutti genuini e i benefici di una natura intatta, procurava il più ambito dei doni, la quiete esteriore e interiore. Lo raggiunsero il fratello Gregorio, alcuni discepoli che si misero sotto la sua guida, e l'amico Gregorio Nazianzeno, con il quale compilò una preziosa antologia degli scritti di Origene, la Philocalia.
Ha cosi inizio quell'attività ascetico-monastica, espressa negli scritti e nelle istituzioni, che meritò a Basilio la paternità del monachesimo in Oriente e in Occidente e, ispirando ogni suo atteggiamento nell'esercizio pastorale e di governo, anticipò in lui l'esperienza agostiniana del contemplativo in azione.
Nell'eremo di Annosi era giunto anche Eustazio di Sebaste, fautore fino dal 340 di un movimento "evangelico radicale" e ispiratore autorevole dell'indirizzo ascetico dello stesso Basilio. Ma dinanzi alle tendenze dogmatiche antinicene di Eustazio e alla sua rigida ascesi di tendenza dualistica, Basilio prenderà le distanze fino a contrastare l'antico maestro e amico. Propugnatore di un'autentica confessione religiosa, egli si propose di realizzare il suo equilibrato ideale monastico in una vita svolta nella comunità, la cui forza è la preghiera, l'umile accettazione dei lavori manuali e soprattutto la generosa disponibilità verso i fratelli. Importante doveva essere fra i monaci l'attività intellettuale: lo studio della Bibbia, di san Paolo e dei Vangeli, senza trascurare l'interesse per i classici della letteratura e della filosofia pagana. Un'impostazione del genere esprimeva, nella teoria e nella pratica, un'esigenza che divenne retaggio permanente del cristianesimo orientale: il monaco non è chiuso ai valori e ai contributi della cultura. A questo tipo di ascesi comunitaria Basilio s'ispirò nella fondazione di quella "città nuova" che fu chiamata Basiliade, un complesso di istituzioni e di edifici per poveri, malati anche contagiosi, di chiese e di conventi, una città con una sua autonomia sotto la guida del vescovo, che suscitò critiche da parte dell'amministrazione statale e anticipò realtà medievali.
Nel 364 Basilio fu ordinato prete dal suo vescovo Eusebio, al quale diede piena collaborazione, ben presto interrotta a causa di contrasti personali e poi ripresa per iniziativa dello stesso Eusebio, che si era convinto di quanto fosse preziosa per la Chiesa l'opera dell'eccezionale collaboratore. Dopo la morte di Eusebio, nel 370, nonostante l'energica opposizione dell'episcopato e del clero, Basilio riuscì a far prevalere l'elettorato popolare a lui favorevole, con uno zelo che sconcertò Gregorio Nazianzeno, meno realista e più poeta, e venne eletto vescovo di Cesarea, destinato ad esercitare il ruolo di guida carismatica in Cappadocia e oltre. Nonostante la salute malferma e le gravi malattie che spesso ne fiaccarono l'organismo, svolse una grande e sagace attività. Nel complesso rapporto con l'episcopato, soprattutto in relazione alle vicende della fede nicena, si accostò ad Atanasio, che già ne stimava l'azione e il comportamento.
Rodolfo il Glabro, di cui la Fondazione Valla pubblica le "Cronache dell'anno mille in una fondamentale edizione critica, nacque attorno al 985 e mori attorno al 1047. Fu un monaco cluniacense, allievo di Guglielmo da Volpiano: irrequieto, nevrotico, sempre in fuga; e per questo tanto più legato alla fede religiosa che lo schiacciava. Era un uomo colto, complicato, sottile - e fanatico, e rozzo come il più rozzo contadino medievale. Le "Cronache dell'anno mille" raccontano la storia d'Europa dal 900 fino ai suoi tempi. Rodolfo è un teologo: sa che Dio è coincidenza di opposti: "immobilmente mutevole e mobilmente immutabile"; e tutto il suo libro consiste nella ricerca della mano di Dio nella storia umana. L'uomo è peccatore: forse nessuno scrittore, in tutto il Medioevo, ha una coscienza così tremenda della malvagità dell'uomo, che né interventi celesti né pellegrinaggi né reliquie né apparizioni meravigliose possono alleviare. "Il genere umano è incline fin dall'origine al male come un cane al vomito, o come una scrofa che si lava sguazzando nel fango." Rodolfo racconta prodigi e calamità naturali, che sembrano rivelare un piano soprannaturale: orrori che la nostra fantasia ha difficoltà a concepire, corruzioni, stupri, empietà, guerre, vizi innominabili, epidemie, follie; ed è convinto che il mondo si stia avviando verso la sua prossima fine. In questa trama di eventi, Rodolfo cerca un senso. A chi risale la colpa delle sventure e delle nefandezze che formano il tessuto della storia? Agli uomini, col cuore guasto e le mani insanguinate? O a Dio che, di generazione in generazione si vendica implacabilmente dei peccatori? Ma il senso, alla fine, sfugge a Rodolfo. I nessi cronologici del racconto si disgregano, perché la stessa realtà è disgregata. Mentre egli guardava e riguardava questa storia di infamie e insensatezze, forse si accorse di quanto noi percepiamo distintamente nella sua opera. I fatti da lui narrati sono figli di un destino atroce e casuale: Dio vi è completamente assente. In tutto il libro, c'è un solo segno di Dio: quel passo famoso dove la terra, "come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia", "si riveste di un fulgido manto di chiese".
Questo volume contiene un ricco corredo iconografico, con illustrazioni tratte da codia, bassorilievi e altre manifestazioni artistiche medievali.
Indice - Sommario
Introduzione
Cartina
Bibliografia essenziale
Nota la testo
Abbreviazioni bibliografiche
Tavole genealogiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
COMMENTO
Indice dei nomi
Indice geografico
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La formazione di Rodolfo
Nel libro V delle Storie di Rodolfo il Glabro, "un essere dall'aspetto tenebroso" dice a un monaco: "Perché mai voi monaci, diversamente da quel che fanno gli altri uomini, vi sottoponete a tante fatiche, veglie, digiuni, penitenze, canti di salmi e innumerevoli altre mortificazioni? Non è forse vero che moltissime persone, pur vivendo nel mondo e persistendo nel peccato fino al termine della vita, sono destinate a godere di quella stessa pace cui voi tendete? Per guadagnare il premio della felicità eterna, che spetta a voi in quanto giusti, basterebbe un giorno o un'ora sola. Cosi mi domando perché tu stesso con tanto zelo, non appena senti la campana, balzi prontamente dal letto interrompendo la dolcezza del sonno, mentre potresti startene a dormire fino al terzo rintocco ... Non avete nulla da temere: siete liberi di seguire i vostri impulsi e di soddisfare senza danno qualsiasi piacere carnale". Il sogno-visione sembra la proiezione di quell'inquietudine esistenziale che porta Rodolfo il Glabro di monastero in monastero nella Borgogna dell'anno Mille; sogno-visione fatto di immagine e parola, che percuote vista e udito, incrinando il propositum monastico: "Con queste e simili sciocchezze il diavolo, perfido com'era, si faceva gioco del monaco; anzi lo abbindolò al punto di convincerlo ad astenersi dal partecipare con gli altri al servizio del mattutino".
Si può rintracciare il percorso del sogno-visione di Rodolfo: esso s'ncontra nella "Visto Anselli Scholastid", testo fatto scrivere da Oddone di Saint-Germain d'Auxerre tra gli anni trenta e cinquanta del secolo XI, quando Rodolfo, dopo lungo girovagare, si ritira in quel monastero. E una visione che egli forse ha sentito tante volte raccontare dal suo abate (il monaco anonimo?), ma che adatta ai suoi stati d'animo, ad un mondo onirico, nel quale prendono figura le sue inquietudini e che affascina Rodolfo.
Quando scrive il libro V delle Storie, Rodolfo - nato verso il 985 non si sa con precisione dove, ma con ogni probabilità in Borgogna - è ormai anziano, forse al riparo delle "sciocchezze", certo ancora assai turbato dai ricordi. Da adolescente, appena compiuti i dodici anni, era stato sottratto con la forza alle "perverse vanità del mondo"; e nella sua monacazione obbligata egli aveva mutato l'abito, "ahimè l'abito soltanto, non il carattere". E dunque gli insidiosi "perché" e gli attrattivi inviti che il demone, laido, con eloquenza perfida e seducente, rivolge al "monaco", non possono essere che gli stessi che hanno travagliato Rodolfo da giovane, lasciandolo "pieno di turbamento e di confusione", fino a prostrarlo, a fargli cercare l'unica via di scampo nelle parole "Signore Gesù, che sei venuto per la salvezza dei peccatori, in virtù della tua immensa misericordia abbi pietà di me". Si intuisce che le "perverse vanità del mondo" non hanno mai cessato di esercitare la loro tentazione sul monaco, turbandone la coscienza; di qui le ribellioni, le arroganze, le negligenze, sentite come "gravi peccati" e perciò sofferte e represse. Ma anche pronte ad esplodere. Rodolfo stesso ricorda: "Per quanto i superiori e i fratelli spirituali mi esortassero per il mio bene alla moderazione e alla santità, io, col cuore ricoperto da una spessa corazza di riottosità e presunzione, rifiutavo per orgoglio di accettare quei salutari consigli. Mi ribellavo ai più anziani, infastidivo i coetanei, opprimevo i più giovani; insomma, a dirla franca, la mia presenza era un tormento, la mia assenza un sollievo per tutti. Infine, spinti da questi e da altri simili motivi, i monaci di quel luogo mi cacciarono dalla sede della loro comunità, sapendo d'altronde che non mi sarebbe mancato un tetto dove abitare, se non altro in virtù delle mie cognizioni letterarie, come s'era già sperimentato in varie occasioni". "Più volte" Rodolfo è espulso dalla comunità; è costretto a cercarsi un altro monastero; ma il diavolo è sempre in agguato nei luoghi dei suoi spostamenti: a Saint-Léger de Champeaux, a San Benigno (Saint-Bénigne) di Digione, a Santa Maria di Melleraye (o Moutiers-Sainte-Marie), la "figura ripugnante" gli si presenta verso il mattino, acquattata ai piedi del letto, o eruttata dalle latrine, o affannata su per le scale, sempre urlante. Nel ricordo di Rodolfo le visioni demoniache si intrecciano al suo richiamare febbrilmente alla memoria negligenze, colpe, trasgressioni commesse "dall'infanzia in poi". Restare a letto è dolce verso l'alba; ma il demonio grida due, tre volte "Eccomi! eccomi! io sto con quelli che rimangono qui". "Indulgere al riposo" è vizio, al pari dei "più svariati vizi" nei quali insistono "gli innumerevoli individui" che non hanno rinunciato al mondo; e dunque, mancare alla preghiera del mattino, sottrarsi al primo obbligo della giornata, nel monaco ingenera sensi di colpa, lacerazioni, paure: "spaventato" Rodolfo balza dal letto e corre a gettarsi "ai piedi dell'altare del santissimo padre Benedetto", a lungo restando "steso e immobile".