Scriveva Saint-Exupéry, a proposito degli articoli che veniva via via pubblicando su diverse testate, di saper bene quali rimproveri gli sarebbero stati rivolti: "I lettori di un giornale", osservava, "pretendono reportages concreti, non riflessioni... Ma io ho un altro parere in proposito". Questo suo diverso parere lo troviamo alla base di tutti i suoi articoli, a cominciare da quelli riuniti in questo volume, che lo vedono di volta in volta alle prese con la sua professione di pilota di linea e con la differente geografia dei suoi viaggi, dall'Algeria alla Patagonia, dalla Russia dei soviet alla Spagna della guerra civile. Ma è proprio la "riflessione" che dà a questi articoli il loro sapore particolare e insieme la loro maggiore originalità: quello che interessa a Saint-Exupéry non è infatti il resoconto in sé di storie e paesi, che pure sono presenti nelle sue note di viaggio, ma il racconto di situazioni umane, nella ricerca di quei valori e ideali comuni a tutti che stanno alla base del suo "umanesimo".
Irène Némirovsky aveva pensato di iniziare questo suo secondo romanzo, "La nemica", con una citazione tratta dal "Ritratto di Dorian Gray" di Oscar Wilde: "I figli iniziano amando i propri genitori; più tardi, li giudicano; mai o quasi li perdonano". Quali ragioni l'abbiano poi spinta a non farlo, è difficile a dirsi; resta il fatto che tutto questo breve ma intensissimo romanzo si incentra sul complesso, drammatico rapporto tra una madre e una figlia, intorno alle quali l'intero mondo "familiare" diventa quasi un campo di battaglia che non risparmia né colpi né vittime. La "nemica" è infatti la madre, una donna frivola, incapace di amare altri che se stessa, tutta rinchiusa nella sua ansia di piacere, di essere amata, di non invecchiare, del tutto indifferente rispetto ai bisogni prima delle due figlie e poi dell'unica figlia che le resterà: Gabri, che coverà fin da bambina un rancore tale da soggiogare la propria stessa vita, da renderla una sorta di controfigura della madre, in attesa soltanto della sua vendetta finale. "La nemica" venne pubblicato originariamente a puntate sulla rivista "Les Oeuvres libres" dell'editore Fayard nel 1928, con lo pseudonimo di Pierre Nérey Nérey che è l'anagramma di Irène - quasi a mascherare e a svelare insieme il profondo e sofferto contenuto autobiografico della narrazione.
Incentrato su esperienze in gran parte autobiografiche, sorretto da uno stile intenso e poetico, ma di una poesia vera e mai ridondante, "Terra degli uomini" rappresenta senza dubbio - insieme al precedente "Volo di notte", pubblicato in questa stessa collana - uno dei capolavori dedicati all'epoca pionieristica dell'aviazione civile. Ma al di là di questo, al di là delle avventure dei piloti Jean Mermoz e Henri Guillaumet, "Terra degli uomini" è soprattutto l'epopea del coraggio individuale, visto però non come fine a se stesso, ma come mezzo per dare un senso alla propria vita: "L'uomo scopre se stesso allorché si misura con l'ostacolo", scrive Saint-Exupéry; ed è proprio la scoperta di sé ciò che si cela dietro il mondo avventuroso del grande scrittore francese, una scoperta che sta al centro anche della sua opera più famosa, quel "Piccolo Principe" per il quale è diventato uno degli autori universalmente più letti. Ma, come dimostrano tante pagine di "Terra degli uomini", accanto a questa consapevolezza individuale c'è l'aspirazione di ogni uomo ad appartenere a una stessa comunità; è proprio questo che lo scrittore vede nelle rare luci accese qua e là, mentre sorvola di notte paesaggi minacciosi e pianure deserte.
"Ora sto scrivendo un libro sul volo di notte. Ma, nel suo significato più intimo, è un libro sulla notte", scriveva Antoine de Saint-Exupéry alla madre in una lettera da Buenos Aires. In effetti, "Volo di notte" (1931), il romanzo che ha consacrato il talento letterario di Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), scritto durante quel soggiorno in Argentina, non è soltanto una delle prime opere dedicate a quegli anni eroici, ancora pionieristici, dell'aviazione civile; è anche, e forse soprattutto, il libro di una "contesa", dove la conquista del cielo deve confrontarsi e scontrarsi con tutti gli ostacoli posti non solo dalla natura, con le sue notti senza luce, i suoi picchi montani, le sue tempeste e cicloni, ma persino con quell'altro "senso della vita" rappresentato dalla moglie del pilota Fabien, quella "normalità" che Rivière, il responsabile di quei rischiosi voli notturni, sente di dover combattere strenuamente. "Se fossi giusto - pensa Rivière - un volo di notte sarebbe ogni volta una probabilità di morte". Ma non gli interessa essere giusto, non è con la giustizia che si conquista il cielo notturno; e se una "silenziosa fraternità" lo unisce ai suoi piloti, questa non può intralciare l'inflessibilità di quella "fede da costruttori" secondo la quale "una volta tracciata la rotta, non si può non proseguire".
Ismael Baruch è un bambino ebreo che nelle taverne malfamate della sua città improvvisa bellissime e struggenti canzoni, accompagnato da una balalaika, in cui canta la tristezza degli essere umani. Giovane poeta di grande, naturale talento, viene notato da un adulto, un poeta in crisi che scarica la sua frustrazione nell'alcool e che decide di fare del piccolo un dono prezioso per la sua amata, una principessa ricca e capricciosa. Strappato così al suo ghetto, Ismael viene venerato e amato, conosce il lusso e la vita agiata, trasformandosi in una sorta di poeta di corte...
Con "Speranze e destini" concludiamo la pubblicazione dell'intero corpus dei racconti di Irene Némirovsky. Questo quarto volume - dopo "Siamo stati felici", "Giorno d'estate" e "Sortilegio" - raccoglie dieci bellissimi racconti apparsi tra il 1937 e il 1940: anni particolarmente fertili per la grande scrittrice, che in quello stesso arco di tempo pubblica alcuni dei suoi principali romanzi, da "La preda" a "I cani e i lupi". Tra questi racconti ce n'è uno in particolare al quale Irene Némirovsky era molto affezionata: "Aino", splendida narrazione incentrata sugli anni dell'esilio finlandese della scrittrice. Del resto, una delle chiavi per entrare in tutti questi racconti è proprio quella autobiografica: così in "Fraternità", così in "Nascita e rivoluzione" e in "Magia", solo per citarne alcuni. Ma come sempre nelle opere di Irene Némirovsky, il ricordo autobiografico si apre all'immaginazione, un po' come avviene per i suoi personaggi, spesso adolescenti che invadono la realtà con i propri sogni, le proprie attese, le proprie fantasie. Si è parlato, a proposito di Irene Némirovsky, di una scrittura quasi romantica, intrisa di forti sentimenti; si può forse non obiettare troppo a questa osservazione, ma solo se la si integra con la straordinaria capacità della scrittrice di riprodurre la realtà, fisica e psicologica, nella quale si muovono i personaggi.
Nell'ambito dell'opera di Irene Némirovsky, i cui romanzi sono stati pubblicati principalmente da Adelphi, la Passigli Editori ha in programma l'edizione integrale dei racconti, che costituiscono una dimensione particolarmente felice della sua narrativa. Dopo la raccolta "Siamo stati felici", pubblicata in questa stessa collana, vengono dunque qui riuniti con il titolo "Giorno d'estate" alcuni altri racconti inediti o poco noti, a testimoniare ancora una volta la grande capacità di Irene Némirovsky di penetrare nelle pieghe più riposte dell'animo umano. E se "Giorno d'estate", "Domenica" e "Natività" si presentano come tre delicati studi sulle diverse età della vita, con "L'inizio e la fine" e con "Vincoli di sangue" vediamo nuovamente prorompere la passione fino al sacrificio più estremo, che sia l'assassinio dell'amata o sia la devastazione della propria stessa vita, immolata sull'altare di un amore impossibile. Cinque racconti di straordinaria intensità, che per lucidità di analisi psicologica già rivelano la scrittrice che di lì a breve avrebbe pubblicato i suoi grandi romanzi - da "Due" a "I doni della vita", da "I cani e i lupi" a "I fuochi dell'autunno" - fino alla riscoperta del suo capolavoro scampato alla deportazione ad Auschwitz, quella "Suite francese" che è stata uno dei maggiori successi internazionali di questi ultimi anni.
Con il titolo Siamo stati felici sono qui riuniti nove racconti, tutti incentrati su figure femminili, pubblicati dalla grande scrittrice – francese d’adozione – Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903 e tragicamente scomparsa ad Auschwitz, dove era stata deportata, nel 1942.
Per la prima volta tradotti in italiano, questi racconti erano usciti su diverse riviste, negli anni tra il 1933 e il 1942, e dunque vanno a intersecarsi con la pubblicazione di grandi opere come L’affare Kutilov (1930), Il vino della solitudine (1935), Jezabel (1936), I cani e i lupi (1940), che avevano consacrato la scrittrice ebrea di origine ucraina come una delle maggiori narratrici di lingua francese della sua epoca. In tutti questi racconti, splendidi sono i ritratti delle donne protagoniste, che riflettono sugli episodi più intensi, a volte più drammatici, della propria esistenza; sempre legati a un amore incontrato e vissuto, oppure incontrato e perduto, che è stata la chiave di volta del loro destino. L’amore come passione, certo, ma con tutti i suoi ingredienti più contrastanti e antitetici: la gioia incontenibile, il piacere devastante, la sudditanza psicologica, la sofferenza estrema… E quasi sempre la felicità è al passato, nel ricordo, a volte enigmatico, a volte remoto, ma sempre ben presente, di un tempo in cui tutti noi ‘siamo stati felici’, per quel «sapore che soltanto l’amore può dare alla vita, un sapore di frutto, appetitoso, succulento, quasi aspro, un sapore di labbra giovani».
"Odio le parole enfatiche": questa l'ultima frase de "L'arte di persuadere", che si conclude con una lacuna dovuta a un copista o allo stesso Pascal, ma che comunque suona come un'adesione al pensiero di Montaigne, il grande critico dell'amor proprio e della vanità delle cose mondane. Ma là dove lo scettico Montaigne si ferma dopo aver fatto tabula rasa, l'apologeta cristiano, che non può essere indifferente al risultato di una disputa, deve fare un passo avanti, sostenere che, stabilite le buone regole del ragionamento, sia possibile convincere e convertire l'interlocutore. Scritto verso il 1660, "L'arte di persuadere" si riallaccia alla polemica fra giansenisti e gesuiti, importante disputa teologica che stava molto a cuore a Pascal; ma è al tempo stesso una sorta di essenziale e limpido "discours de la méthode" di Pascal stesso, che troviamo poi applicato nell'altro testo qui riunito, la prima delle famose "Lettere provinciali" scritte in quello stesso periodo.
Tra il 1849 e il 1851 Gustave Flaubert compì quel viaggio in Oriente a lungo vagheggiato nelle sue opere giovanili. A organizzare il viaggio fu un suo grande amico, il ricco e intraprendente Maxime Du Camp. Un altro suo grande amico, Louis Bouilhet, restato invece in Normandia, fu il destinatario di queste sue splendide lettere. Il formicolio delle città piene di scene grottesche, gli amori crudamente raccontati in misere capanne lungo il Nilo, sullo sfondo di palme e rovine, le tante "malinconie del viaggio": ecco cosa racconta Flaubert in queste lettere dall'Egitto. Partito con il cuore gonfio di delusione per le critiche degli stessi suoi amici a "La tentazione di sant'Antonio", Flaubert piano piano scopre se stesso durante il viaggio, per diventare al ritorno, nella pratica ascetica della scrittura di "Madame Bovary", una sorta di eremita, come quel suo sant'Antonio la cui terra aveva finalmente visto in Egitto.