Cosa sta a significare il ritratto dell'autore, l'immagine, la foto o il dipinto di colui o colei che firma l'opera? È questa la domanda a cui cerca di dare una risposta questo saggio, nel quale diversi ritratti di celebri e meno celebri autori vengono decifrati o interpretati, dopo che l'autore nell'opera o all'opera è stato messo in prospettiva. La nozione di "autore" è spesso trattata con sospetto. Condannato o espulso dal discorso critico, lo spettro dell'autore sarebbe reo di sottomettere l'opera al dominio di una supposta potenza creatrice, geniale o demiurgica. Però l'autore si costituisce con l'opera. Anzi, è proprio la sua figura a donare a ogni opera un carattere singolare, irriducibile a ogni piatta autoriproduzione del testo.
"Quello che vorrei fare, non so se ci riesco ma ci provo, è far entrare dentro di me le cose al punto tale da dirle come sono semplicemente."
"Se la luce è il linguaggio, come egli stesso afferma, essa è interna ai testi, s'irradia nell'ordito delle parole, dei sintagmi, delle frasi, delle immagini, dei versi. Il vocabolo non è provvisto di un'espressione piena, non è fermo punto di riferimento che attesti e fondi la consistenza del reale. L'esitazione, conseguente all'estrema consapevolezza che il poeta possiede, tra cosa e parola, tra cosa e immagine, tra presenza e il fatto di nominarla, dirla, interna al sentire e al fare poetico, sviluppa perifrasi e salti associativi a volte ardui ma avvincenti seppure 'legati' da amarezza, dolore, angoscia. E in ciò risiede in ultimo forse il segreto dell'opera di Michel Deguy." (Mario Benedetti)
Il libro offre un resoconto del problema della soggettività etica e politica nella cultura contemporanea, e sponsorizza fortemente una concezione non-unitaria o nomadica del soggetto, in opposizione alle pretese di ideologie quali conservatorismo, individualismo liberale e tecno-capitalismo. Rosi Braidotti depone decisamente contro l'universalismo morale, offrendo al contempo una strenua difesa dell'etica nomade dalle accuse di relativismo e nichilismo, e fa appello a una nuova forma di responsabilità etica che consideri la "Vita" come il soggetto, e non l'oggetto, della ricerca. Questo tipo di etica è presentata come una fondamentale riconfigurazione del nostro esserci, ed esige più creatività concettuale nella produzione di visioni del mondo capaci di consentirci un comportamento etico in un mondo tecnologicamente e globalmente "mediato". Il soggetto etico di tipo nomade riesce a superare la difficile tensione tra la molteplicità delle forze politiche da un lato, e il forte impegno per le politiche dell'emancipazione dall'altro.
Esce "Dai cancelli d'acciaio", a seguito della prova "in pubblico" durata un triennio inviando il romanzo (suddiviso in cinque fascicoli) a un centinaio di sottoscrittori che hanno sostenuto l'opera. Ora finalmente legato in un volume di oltre 500 pagine il maggiore romanzo di Frasca (ma ciò si può dire della sua opera in generale giacché ne contiene tutte le esperienze). È difficile raggiungere un punto di vista che possa descrivere l'opera costruita con profusione di tempo e competenze plurime, incompatibile con la merce romanzesca sui banchi delle compre. Leggerlo sarà "semplice" ma la prova (scommessa) dell'autore è di cambiare o almeno smuovere qualcosa nella vita di chi lo leggerà. Se avete occhi e avvertite un vento di trasformazione e siete in attesa di qualche mutamento, questo libro può aiutare, sostituendo parole invecchiate con parole piene di senso. Insomma, leggetelo solo se siete ancora vivi.
"Il film che abbiamo tra le mani ha una lunga storia: è il terzo capitolo di un corpo a corpo tra Ermanna e la canonichessa sassone del X secolo, un'avventura iniziata nel 1990. Il modo sorprendente con cui Ermanna incarnava la scrittura di Rosvita, l'intero universo psichico di Rosvita: Ermanna non interpretava, Ermanna con la sua arte saltava un intero millennio, e si gettava nello stesso fuoco. La mia regia ha servito la visione di Ermanna attrice-autrice, come un cavaliere medievale o un devoto d'amore." (Marco Martinelli)
Nel titolo del nostro libro Adorno viene prima di Benjamin non soltanto per l'ordine alfabetico ma anche perché, persino quando, per un breve periodo giovanile, assunse nei confronti di Benjamin il ruolo di chi aveva qualcosa da imparare, del discente nei confronti del docente, Adorno si riprometteva di rimettere le cose al loro posto. Di riprendere quel sopravvento che la consapevolezza di una manifesta predominanza psicologica gli faceva ritenere conseguenziale e indiscutibile. Come Adorno ci riuscì, o almeno si sforzò di riuscirci, prima in vita e poi in morte di Benjamin, costituisce appunto il filo rosso della nostra indagine, a cavallo tra l'orizzonte biografico e quello filosofico.
Con quindici anni di ricerca sul campo a Las Vegas, l’antropologa Natasha Dow Schüll mostra come il ritmo elettronico delle slot spinga i giocatori in uno stato di trance che loro chiamano “la zona della macchina”. In questa zona le preoccupazioni quotidiane, le pressioni sociali e anche la consapevolezza della propria dimensione fisica scompaio- no. Una volta entrati nella zona, le persone continuano a giocare non per vincere ma per continuare a giocare, il più a lungo possibile.
Se l’obiettivo delle persone è perdersi nel gioco, l’obiettivo dell’industria è massimizzare i profitti. Schüll in questo libro descrive le strategie nascoste negli algoritmi delle macchine, nell’architettura e nell’arredo degli spazi e nella gestione dell’ambiente in cui il gioco si svolge.
“Mollie mi raccontò come era cominciato il suo gioco e come quel gioco aumentasse sempre più la propria intensità. Iniziò tutto negli anni Ottanta, poco dopo il suo trasloco a Las Vegas con il suo terzo marito. Fu lui a insegnarle a giocare ai video poker, su una macchinetta palmare in miniatura. ‘Rimasi incatenata a quella macchina bizzarra. In seguito sarei passata a quelle reali’. [...] La sua spesa aumentava di pari passo con le giocate, arrivò al punto di spendere il suo intero stipendio in soli due giorni.”
— Intervista a Mollie, giocatrice d’azzardo
Welfare non è un servizio, ma è una relazione. Avere cura degli altri è agire un modo di stare al mondo, è una dimen- sione umana che tocca alcuni snodi significativi: ospitalità, autorità, dovere, responsabilità.
Ma negli anni il welfare è stato istituzionalizzato, perden- do il suo senso originario. “La mia porta è sempre aper- ta”, ha detto Papa Francesco. Aver chiuso la nostra porta, aver spostato tutto, in questi anni, verso l’istituzione è stato frutto di un processo culturale profondo, che ha compor- tato conseguenze altrettanto profonde. Occorre tornare a un’idea del welfare fondata sulla fiducia, sulla socialità, sulle idee di convivenza e cittadinanza.
Questo libro avanza alcune proposte concrete e realizzabili ma soprattutto cerca di disegnare una visione comunitaria del welfare, nel suo necessario legame con la democrazia e la partecipazione.
Alfredo Jaar distribuisce macchine fotografiche usa-e-getta ai residenti della zona più povera di Caracas, e le foto scattate sono esposte come mostra inaugurale del museo locale; Lucy Orta tiene laboratori a Johannesburg per insegnare a persone disoccupate nuove abilità sartoriali e discutere di solidarietà collettiva; Superflex apre una TV sul Web per i residenti anziani di un’area di edilizia popolare di Liverpool; Annika Eriksson invita gruppi e individui a comunicare le loro idee e abilità alla fiera d’arte “Frieze”; Vik Muniz fonda una scuola d’arte per i ragazzi delle favelas di Rio [...] Questi progetti sono solo alcuni degli esempi della crescita dell’interesse artistico per la partecipazione e per la collaborazione, che si è manifestata a partire dai primi anni Novanta in una miriade di luoghi in tutto il mondo.
Quest’esteso campo di pratiche che si svolgono fuori dallo studio dell’artista è attualmente indicato con una varietà di termini: arte impegnata socialmente, arte incentrata sulla comunità, comunità sperimentali, arte dialogica, arte litorale, arte interventista, arte partecipativa, arte collaborativa, arte contestuale e (più di recente) pratica sociale. Ci riferiremo a questa tendenza come “arte partecipativa”.