Il 20 gennaio 1942 alcune figure di vertice del Terzo Reich si riunirono in una lussuosa villa a Wannsee, nei dintorni di Berlino, e decisero la soluzione finale nei confronti degli ebrei. Peter Longerich fornisce un'accurata contestualizzazione del verbale della riunione perché le interpretazioni dei motivi che portarono a tenere la conferenza, la sua funzione e utilità, sono varie e contraddittorie. Tranne il verbale, non esistono altri documenti inerenti alla conferenza perché sono andati distrutti. La spiegazione di Longerich è che l'Olocausto non è stato attuato in seguito a una scelta determinata, ma fu il risultato di una politica antisemita di lunga durata, sottoposta a cambiamenti contingenti, e di un processo decisionale con cui Hitler, istanza suprema del regime, insieme ad altre figure e organi dell'apparato, diede vita a un vero e proprio programma di distruzione degli ebrei d'Europa, partendo da una generica e indefinita intenzione di distruggerli.
Il 20 gennaio 1942 quindici personaggi di primo piano del regime nazionalsocialista, della Nsdap e delle SS, si riunirono su invito di Reinhard Heydrich, capo dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, in una lussuosa villa situata sulle sponde del lago Wannsee alla periferia di Berlino. Il contrasto tra la bellezza del luogo e lo scopo della manifestazione non poteva essere piú stridente: la dimora utilizzata dalle SS come foresteria fu scelta per definire la cosiddetta «soluzione finale della questione ebraica». Oggi il verbale della conferenza di Wannsee è considerato sinonimo del genocidio degli ebrei d'Europa, di uno sterminio lucido, burocratico, basato sulla divisione del lavoro: un documento inconcepibile, il promemoria di come la follia dottrinaria e omicida del sistema nazista, per ordine della principale autorità del regime, si trasformò in azione concreta, in intervento statale, in un piano portato a termine senza pietà. In questo libro Peter Longerich presenta e approfondisce un'interpretazione della conferenza e del verbale che rielabora gli spunti offerti dalle ricerche precedenti, per costruire una spiegazione piú articolata: dimostrare che l'Olocausto non fu l'esito di un'unica decisione presa a livello centrale ma il risultato di un esteso processo che vide Hitler, istanza primaria del Terzo Reich, sviluppare e avviare gradualmente, da una generica intenzione di distruggere gli ebrei, un programma di genocidio in stretta collaborazione con altri componenti dell'apparato di potere.
Qual è la natura e l'origine storica delle nazioni? Le nazioni (e il nazionalismo) sono un fenomeno recente o antico? In un mondo dominato dall'economia transnazionale e dalla cultura globale di massa c'è ancora posto per le appartenenze e le identità nazionali? Nel corso degli ultimi trent'anni, intorno a queste domande si è sviluppato un intenso dibattito scientifico, che ha visto contrapporsi diverse scuole di pensiero: dai "modernisti" ai "perennisti", dai "primordialialisti" ai fautori dell'"etnosimbolismo". Il libro di Anthony D. Smith, uno dei principali protagonisti di questo dibattito, costituisce una rassegna critica, sintetica ma puntuale, delle diverse posizioni in campo. Al tempo stesso, offre un compendio efficace del paradigma teorico sviluppato nel corso degli anni da questo studioso. Secondo Smith, diversamente da ciò che sostengono le interpretazioni oggi dominanti in ambito accademico, per comprendere la natura delle nazioni (e del nazionalismo) occorre studiarne il radicamento storico-culturale di lungo periodo nelle strutture etniche del passato.
Con la preoccupante affermazione dei movimenti antiestablishment nelle principali realtà occidentali, tutte le iniziali diagnosi ottimistiche sulla tenuta delle democrazie liberali appaiono meno fondate. Per spiegare cosa sta succedendo, Giovanni Orsina rilegge le vicende dell'ultimo secolo individuando tre momenti fondamentali. I primi due - la trasformazione del rapporto tra Massa e Potere a partire dagli anni trenta e la cesura rappresentata dal Sessantotto, quando entrò in crisi l'idea che la Storia procedesse secondo una logica - sono comuni a tutto l'Occidente. I caratteri peculiari che rendono più grave la situazione del nostro paese vanno individuati, invece, nella svolta di Tangentopoli, con il trionfo dell'antipolitica. Da allora molte cose sono cambiate: basti pensare che, mentre dopo il 1992 la Lega Nord era il principale alfiere dell'antipolitica, oggi è il più vecchio partito in Parlamento. Siamo di fronte a un ulteriore passaggio: l'avanzata dei movimenti antiestablishment si salda alla crisi dei sistemi democratici. Se l'ultimo ventennio non ha visto sorgere proposte risolutive, cosa dobbiamo aspettarci dal futuro?
Dalla fine delle “grandi narrazioni” teorizzata da Lyotard alla liquefazione della società indicata da Bauman, sono molti i filosofi ad aver messo in guardia l’Occidente a proposito del suo stato di declino. A cento anni dall’uscita de Il tramonto dell’Occidente (1918), la crisi della società occidentale assume contorni ben differenti da quelli prospettati da Oswald Spengler nella sua celebre opera.
Sovrano di una monarchia sulla quale non tramontava mai il sole, la figura di Filippo II è stata oggetto nei secoli di innumerevoli ricostruzioni e di un giudizio che ha oscillato tra l’esaltazione e la denigrazione. In realtà il sovrano era figlio dei suoi tempi e come tale aveva posto la propria vita al servizio degli ideali in cui credeva e per i quali non aveva esitato a sacrificare uomini e ricchezze del suo impero. Il libro non vuole ribaltare giudizi tradizionali e consolidati, bensì invitare a leggere la figura del re nel contesto di un’Europa travagliata dalle guerre di religione e che si apriva al mondo, e a rapportarsi a lui con gli occhi dei cronisti del tempo che spesso lo dipingevano come un sovrano pacifico nonostante le innumerevoli guerre da lui condotte nel corso di un lungo regno, che abbracciò quasi tutta la seconda metà del XVI secolo. Anche per questo la biografia di Filippo II dà ampio spazio alla dimensione dinastica e familiare entro cui si svolgeva la vita politica nella Spagna e nell’Europa del XVI secolo. L’autore indaga inoltre la politica confessionale del sovrano, tesa alla difesa a oltranza del Cattolicesimo e alla lotta contro gli eretici e gli infedeli: a lui si attribuisce l’evangelizzazione delle Americhe e delle Filippine. Filippo godette di grande prestigio presso i principi suoi contemporanei, si servì di un’abile diplomazia, fatta di uomini capaci. Anche per questo il re, sebbene governasse chiuso nell’Escorial (l’ottava meraviglia del mondo), può essere considerato il sovrano cinquecentesco che si sentì non solo il figlio prediletto della Chiesa universale, ma il portatore di una visione che univa l’amore per la propria terra natale all’interesse verso il mondo che si apriva al di là delle Colonne d’Ercole.
Ci sono italiani che hanno pagato molto caro il prezzo della Liberazione. Sono le migliaia di donne della Ciociaria e del frosinate violentate, abusate e uccise durante la marcia dei "liberatori". Tutto iniziò nel luglio del 1943, quando le truppe alleate sbarcarono in Sicilia. Nella risalita, furono molti i soldati che si lasciarono andare a episodi di violenza, mentre i generali e gli ufficiali chiudevano entrambi gli occhi. Come nel caso dei soldati francesi originari di Marocco, Algeria e Tunisia, i goumiers, al comando del generale Alphonse Juin. Abili nei combattimenti in montagna, furono determinanti nell'aggirare la linea nazista addentrandosi sui monti a sud di Roma. Ma seminarono l'orrore nei villaggi che attraversarono. Migliaia di donne di tutte le età, giovani e anziane, furono violentate e abusate con estrema crudeltà, anche da centinaia di soldati. Chi si ribellava veniva ucciso, gli uomini violati a loro volta. Secondo alcune stime furono decine di migliaia le vittime. Due volte vittime, perché alla violenza si unirono la vergogna e il silenzio. Si preferì tacere, le donne per pudore e autodifesa, le istituzioni italiane e francesi per non macchiare l'onore e non urtare la sensibilità dei rispettivi eroi della Liberazione. Eliane Patriarca, giornalista francese, indaga su questi fatti così poco conosciuti sia in Francia che in Italia, anche per scoprire se ai suoi nonni, originari di quelle zone, era toccata quella sorte. Un ritorno alle radici e un'indagine storica che, raccogliendo testimonianze terribili e sempre vivide, tocca un nervo ancora scoperto della nostra storia.
In un passaggio cruciale della storia della Chiesa e dell'Italia, nel pieno del processo di unificazione, due giovani cattolici danno vita a un'associazione di laici che diventerà l'Azione Cattolica. Il senso di tale impresa è rivolto, insieme alla difesa della Chiesa, alla formazione spirituale e culturale delle persone, unita a un coraggioso impegno sociale e civile, volto a rilanciare il ministero del Papa e la sua missione universale. Protagonista della vicenda è Giovanni Acquaderni, fondatore con Mario Fani della Società della Gioventù Cattolica: cresciuti nel clima dell'intransigenza, essi sanno guardare avanti, impostando un nuovo rapporto con la modernità. Acquaderni, accanto al contributo decisivo dato alla guida dell'Opera dei Congressi, è fondatore e animatore di molte iniziative, dal Credito romagnolo all'Avvenire d'Italia. Egli diventa così punto di riferimento per una lunga stagione che vede l'avvio della presenza organizzata del laicato cattolico, impegnato a "fare gli italiani", con un decisivo contributo per quella "educazione popolare- capace di tradursi in servizio ecclesiale e politico. Un altro volto del Risorgimento che si proietta nella storia italiana fino ai giorni nostri, secondo quanto il Concilio Vaticano II ha disegnato per la natura della Chiesa e la missione del laicato.
Dalla Repubblica dell'antica Roma agli oligarchi russi di oggi, è sempre stato così: un ristretto numero di individui spaventosamente ricchi domina l'economia e la politica del suo tempo. Come abbiano accumulato capitali così spropositati diventa irrilevante una volta che siano entrati nella ristretta cerchia di chi conta davvero. Dal banchiere dei papi Cosimo de' Medici ai padroni delle ferriere della Rivoluzione industriale, l'origine di quelle favolose fortune viene presto dimenticata, mentre i super-ricchi forniscono fondi per la costruzione di chiese e istituzioni culturali, si inventano patroni delle arti e delle lettere e, ansiosi di essere accettati dall'establishment, si sforzano di ripulire la loro immagine con grandiosi gesti di filantropia, esibizioni di stile e opulenza, imprese che i comuni mortali possono solo sognare. Gli oggetti del desiderio e gli status symbol possono cambiare, ma le regole sono sempre le stesse: gli schiavi, le concubine, i forzieri pieni d'oro e i castelli inespugnabili hanno lasciato il posto ai jet privati, i super-yacht, le isole private e le squadre di calcio, ma il gioco rimane uguale - e la storia sembra dimostrare che questo 0,01% vince ogni volta sul restante 99,99%. Ma è destinato a essere sempre così? dimostrare che questo 0,01 per cento vince sempre sul restante 99,99 per cento. Ma è destinato a essere sempre così?
Che cosa sono le emozioni? Chi prova emozioni? Qual è la loro sede? Le emozioni hanno una storia? Il libro offre una ricognizione complessiva dell'argomento, seguendone le articolazioni in diverse discipline. Dopo un inquadramento generale, è affrontato il punto di vista socio-costruttivista sulle emozioni, e in particolare il contributo dell'antropologia. Viene poi messa a fuoco la prospettiva essenzialista, passando in rassegna gli studi sulle emozioni condotti dalla psicologia sperimentale a partire dalla fine del XIX secolo, e discutendo le più recenti ricerche delle neuroscienze. Se il dibattito sembra polarizzato fra visione costruttivista e visione essenzialista, fra chi ritiene che le emozioni siano il prodotto di una costruzione sociale e chi le ritiene innate e immutabili, l'autore mette in discussione tale dicotomia, storicizzandola e mostrando nuove direzioni di ricerca per lo studio delle emozioni.
Il 9 febbraio 1944 il "Corriere della Sera" diede la notizia dell'arresto di Indro Montanelli, accusato di avere scritto articoli diffamanti sul regime fascista, che in quel momento si trovava sul punto di raggiungere il gruppo partigiano guidato da Filippo Beltrami. Incarcerato insieme alla moglie Maggie a San Vittore, a Milano, il 14 agosto riuscì a fuggire in Svizzera. In realtà, Montanelli aveva preso le distanze dal regime fascista sin dal 1938, quando aveva rinunciato alla tessera del partito e ne aveva pagato le conseguenze con l'impossibilità di fare il giornalista in Italia, e quella che inizialmente era una divergenza politica e personale si era sempre più approfondita, sino a trasformarsi nella decisione di combattere attivamente contro il regime e gli occupanti tedeschi. Nel dopoguerra e fino alla sua morte Montanelli è ritornato spesso sulla figura del Duce e sulla storia del ventennio, contribuendo a disegnare nell'immaginario degli italiani l'immagine di un Mussolini perfetto "italiano medio", con tutti i vizi e le poche virtù che il giornalista attribuiva ai suoi connazionali, e che spesso "più che a dominare gli avvenimenti, badava a restarne a galla, lasciandosene portare". Raccontando il Duce, quindi, Montanelli elabora una storia del fascismo che, oltre a essere fedelmente documentata grazie alla sua partecipazione diretta e alla professione di giornalista, dà conto anche di altri elementi che sfuggono all'osservazione storica: il rapporto tra Mussolini e gli italiani ? soprattutto quelli della sua generazione ?; l'infatuazione del Paese per il suo dittatore e, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la delusione e i dubbi mai sopiti di coloro che sopravvissero e si posero il problema di spiegare ai giovani le ragioni di quanto accaduto.
«Spero di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell'opinione pubblica europea» confida Malaparte all'amico Halévy nel settembre del 1931. Il suo intento era, in realtà, ancora più audace: mostrare Lenin come appare agli occhi dei «Russi intelligenti». O, se vogliamo, analizzare un fenomeno entro la sua stessa logica, come già aveva fatto nell'"Intelligenza di Lenin" per spiegare il bolscevismo. E il nuovo libro, uscito a Parigi nel 1932, avrà l'effetto di una scossa elettrica. Perché in questo romanzo-ritratto Lenin non è affatto il Gengis Khan proletario sbucato dal fondo dell'Asia per conquistare l'Europa, raffigurazione ideale per chi voglia ricacciarlo al di là dei confini dello «spirito borghese»: semmai, un piccolo borghese egli stesso. Di più: freddo e riflessivo, sedentario e burocratico, animato da un'immaginazione meticolosa e da una «crudeltà platonica», ostile a ogni romanticismo terrorista e incapace di agire all'infuori della teoria, a suo agio più nelle discussioni politiche e nelle faide personali che non nel confronto con la realtà, Lenin non è che un europeo medio, un buonuomo violento e timido, un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un fanatico e un opportunista, per il quale la rivoluzione è una questione interna di partito, il risultato di ossessivi calcoli. Non a caso quando, giunto al potere, non potrà più attendere gli eventi e osservarli da lontano, e - proprio lui, dotato di un vivo «senso dell'irrealtà» - dovrà fare i conti con la realtà, si risolverà a inventarla, a crearla, imponendola «a se stesso, ai suoi collaboratori, al popolo di Russia, alla rivoluzione proletaria, all'avvenire dell'Europa».