Composto fra il 1672 e il '75 in un sotterraneo a Pustozërsk dove il suo autore, incoercibile guida spirituale dei "Vecchi credenti" ribelli alle innovazioni liturgiche e religiose che sconvolsero la Russia del '600, attendeva il martirio, questo libro circola manoscritto per due secoli, rimanendo quasi sconosciuto; scritto in volgare russo, solo a tratti cosparso di slavo ecclesiastico colto, utile in brani di polemica teologica, rappresenta il primo e fondamentale capolavoro letterario della lingua russa - paragonabile per importanza e anche per vigore di immaginazione alla "Divina Commedia" per l'italiano - e, insieme, un episodio paradossale nella storia della cultura e della comunicazione scritta: quello di un'opera decisiva nell'evoluzione della lingua sempre rimasta al di fuori dei circuiti di diffusione creati dall'affermarsi della stampa a caratteri mobili. Scrive Pia Pera in introduzione: "Se non fosse stato per le persecuzioni e la censura a cui furono sottoposte le opere dei vecchi credenti, con la "Vita" il russo avrebbe potuto avere il capolavoro che l'avrebbe fissata come lingua letteraria". Un'occasione straordinaria d'incontro con l'irriducibile peculiarità culturale russa, offerta fra pagine in cui il divino, il demoniaco e il meraviglioso contendono senza tregua, senza esclusione di colpi e senza trascurare lo scontro fisico, le bastonate, l'uso, magari, a scopi ultraterreni, di un grasso piatto di zuppa di cavoli.
Maria Antonietta, gravata a 14 anni del fardello dell'etichetta, osteggiata e dileggiata a ogni passo, sembra addensare su di sé la vendetta della Storia che esige una vittima sacrificale e sceglie la più ingiusta. Tutto il secolo XVIII si coalizza contro di lei sino a ridurla a vedova Capeto, disegnata con astio da David sulla carretta che va al patibolo. Alle ombre della storia risponde la veemente eloquenza di Bloy, proiettandole su una scena ulteriore, metastorica, dove l'apparizione di Maria Antonietta si impone come "dimostrazione di una qualche legge misteriosa".
E' un libro di racconti scritti fra il 1959 e il 1972. Così Sciascia stesso: "... mi pare di avere messo assieme una specie di sommario della mia attività fino ad ora e da cui vien fuori... che in questi anni ho continuato per la mia strada, senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbi, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbi, con profonde crisi); e che tra il primo e l'ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità". Una circolarità che non ha per nulla intaccato, e anzi esalta, la felicità e l'efficacia delle storie qui riunite come in un breve compendio delle molte voci narrative di Sciascia.
Nella primavera del 1944, in una Trieste occupata dall'esercito tedesco e lacerata dall'odio tra italiani e sloveni, due pacifici sposi vengono barbaramente trucidati. Trent'anni dopo uno scrittore, dopo aver ritrovato uno strano gruppo di lettere, prova a ricostruire la misteriosa vicenda.
Siamo in un lebbrosario a Sud dello Stato Pontificio, in un paese remoto. La lebbra è ormai debellata, ma avanza un altro contagio ancora più terribile: la sifilide. Nel lebbrosario retto da un giovane medico, arriva un drappello di nuovi malati: le due caste di contaminati si incontrano e si confondono. Il medico è attratto da una delle ospiti, Bianca Maria. La grazia e l'imprevedibilità della fanciulla, silenziosa e accorta come una lepre, che sembra così lontana da ogni immagine di contagio, accende nel distaccato medico uno scatenamento emotivo più forte del rischio della stessa vita.
Sono storie piccole e grandi: vicende d'amore e di sangue, le prime biciclette, la Grande Guerra, gli scandali e i pettegolezzi, la nascita del fascismo, avventure d'alcova, la guerra civile, l'abbandono del sogno di una società migliore, fino agli anni più recenti: la modernizzazione, l'immigrazione dal sud, le speculazioni, la malavita...
In questo romanzo l'autrice prosegue le avventure del capitano di polizia Florindo Flores, ormai felicemente in pensione. Ma il suo riposo dura poco, perché viene subito richiamato per collaborare alle indagini su una serie di insoluti delitti avvenuti in Sardegna. Così il capitano, con il suo consueto spirito indagatore e metodico, e con la curiosità che lo contraddistingue, si metterà sulle tracce dell'assassino, penetrando a poco a poco in un caso che più sembra intricarsi e più lo appassiona e sollecita le doti della sua intelligenza deduttiva. E infatti scopre che...
"Una famiglia decaduta", scritto nel 1874, è forse il romanzo in cui Leskov riconosce più chiaramente l'attimo tremendo che lega la gioia allo sconforto, quando la felicità si comincia a fare desiderio e timore. E' l'esistenza nella sua pienezza, la semplicità assoluta degli uomini a raccontare come la vita, quanto più ricolma, già decada e dia conto di una fatica ineluttabile, dello sconforto per ciò che deve fallire. E' proprio questa verità, ripetuta in filigrana, pagina dopo pagina, a commuovere i lettori.