Spesso ci viene raccontata un'Italia bellissima, l'Italia dei grandi siti archeologici, delle innumerevoli città d'arte e delle terme monumentali. Un paese meraviglioso che, nei secoli passati, i figli dell'aristocrazia europea eleggevano a meta del loro Grand Tour, finendo invariabilmente per innamorarsene. Altre volte, invece, l'immagine più diffusa è quella di un'Italia sfigurata, che nel continente vanta il triste primato del più alto consumo di suolo, e dove l'inestimabile patrimonio naturale e culturale viene sfregiato, distrutto o svenduto. Qual è, dunque, il vero volto del nostro paese? Probabilmente né l'uno né l'altro, perché l'Italia è un incredibile mosaico, ricomposto così tante volte da renderne irriconoscibile il disegno originario, ma nel quale affiorano, in mezzo a centinaia di orrori, tessere di vivida bellezza, qualcuna ancora magicamente intatta. È alla scoperta di questi luoghi, ultime testimonianze di una natura incontaminata ormai in via di estinzione, che Mario Tozzi conduce il lettore, in un emozionante viaggio verso mete che, per la loro inaccessibilità alle auto, sono finora miracolosamente scampate all'assalto del turismo di massa. Dal ghiacciaio dell'Adamello alle Alpi liguri, dall'isola di Montecristo alle Eolie, passando per la Barbagia, l'Aspromonte e le faggete della Marsica, dove l'orso combatte la sua disperata lotta per la sopravvivenza, il percorso si snoda lungo i sentieri meno battuti, al ritmo lento e silenzioso dei passi, il solo che consenta di godere delle mille sfumature cromatiche di un bosco, di cogliere il fuggevole passaggio di un animale selvatico e di leggere la storia del territorio impressa nelle rocce. Ma intatti, per l'autore, sono anche quei luoghi in cui le opere dei suoi antichi abitanti hanno mantenuto l'originario splendore, resistendo al tempo e all'invadenza di una dissennata urbanizzazione: i Sassi di Matera e l'ingegnoso sistema di raccolta delle acque piovane, le camere dello scirocco, geniale esempio di climatizzazione ante litteram nelle viscere di Palermo, la spettacolare Napoli sotterranea, un grembo accogliente e sicuro nel quale tanti partenopei trovarono rifugio durante i bombardamenti aerei dell'ultima guerra, o lo stupefacente sottosuolo di Roma, 5000 chilometri di condotti fognari risalenti probabilmente agli Etruschi. Un'Italia «intatta», quindi, per il momento esiste ancora: imparare a conoscerla è l'unico modo non solo per riappropriarsene ma per sentire la responsabilità e il dovere di conservarla, in quanto traccia delle profonde radici di un'identità culturale e di una storia che sono il vero bene da lasciare in eredità alle generazioni future.
Una società prigioniera del presente non progetta futuro e non ha memoria del passato. Cova rancori e paure, riuscendo solo ad adattarsi: al desiderio sostituisce la voglia, al progetto l'annuncio, alle passioni le emozioni. Diventa una società rattrappita. La schiavitù del presente è una forma di asservimento contagioso, una patologia che ha portato perfino a un mutamento antropologico: nella vita privata, nella sfera dei sentimenti, delle relazioni, dei rapporti umani, e nella dimensione pubblica, dalla politica all'economia, dalle istituzioni alle imprese. Il presentismo condensa l'aria del tempo. Ratifica il primato della tecnologia senza umanesimo e della finanza senza redistribuzione della ricchezza. Assembla il virtuale in un'eterna connessione, e rende opaco il reale, fino a farlo sfumare. Ma da questa schiavitù, si può uscire, se partiamo dalla consapevolezza di quanto siamo ormai scollegati dal passato e dal futuro. E come diceva Camus "il senso della vita è resistere all'aria del tempo".
Che cosa è stato il Maggio 68? Lo sguardo straordinariamente acuto di Edgar Morin sugli eventi di quel mese cruciale (università occupate, agitazioni, barricate, scontri) restituisce un'immagine vivida dell'amalgama che dà origine alla protesta. Sempre intrecciando istanze libertarie e velleità rivoluzionarie, conflitto generazionale e lotta di classe, il movimento studentesco e giovanile di quell'anno apre una faglia, una breccia, dentro la quale si riversano processi innovativi: la parità uomo-donna, la difesa delle minoranze, la coscienza ecologica, l'esigenza di riappropriarsi delle scelte di vita. La rivolta studentesca e giovanile del maggio non sfocia, secondo Morin, in una rivoluzione politica o sociale, ma annuncia un rinnovamento culturale e antropologico. La crisi che provoca non è una crisi politica ma una strisciante crisi di civiltà, di quella "civiltà del benessere" ancora trionfante negli anni immediatamente precedenti il 1968.
La guerra siriana, la divisione tra sunniti e sciiti e il terrorismo alimentato dall'Islam radicale, l'annosa questione di Israele e della Palestina, la minaccia nucleare della Corea del Nord e la lezione della Baia dei Porci, i rapporti tra Stati Uniti e Cina, la nuova presidenza americana, il difficile cammino dell'Europa verso l'integrazione, i nuovi populismi e le migrazioni innescate dalle guerre e dalle rivoluzioni in Medio Oriente e Nordafrica, l'attivismo imperiale della Russia di Putin: sono le coordinate principali della complessa "mappa del disordine mondiale" che Sergio Romano disegna nelle pagine di questo libro. "Ogni crisi internazionale ha la sua logica e la sua razionalità o, se preferite, la sua assurdità" scrive in apertura alla prefazione, e, con l'acutezza di osservazione a cui ci ha abituato nei suoi articoli, saggi e libri, ci guida alla scoperta dei "fattori che contribuiscono a rendere la società internazionale sempre più litigiosa e insicura". È una lettura del presente - alla luce del passato e aperta sul futuro - non condizionata dalle ideologie, che permette di interpretare la Storia al di là dei luoghi comuni e di ogni vulgata, e ricca dell'esperienza diretta di chi ha vissuto in prima persona, da diplomatico, molti importanti eventi internazionali. Non a caso, l'"Atlante delle crisi mondiali" si conclude con una pagina di ricordi, in cui Romano spiega com'è diventato un "patriota europeo". La sua è un'Europa che, come aveva indicato de Gaulle, non deve includere per forza gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: "La politica di coloro che hanno veramente a cuore l'unità dell'Europa dovrebbe essere simile a quella dei Paesi che negli anni della Guerra fredda scelsero per se stessi il 'non impegno'. Potremo allora fare della Russia il nostro principale partner economico e parlare di una Europa 'dall'Atlantico agli Urali'".
Sangue infetto, smaltimento illegale dei rifiuti, speculazioni edilizie, depredazione del territorio, corpi femminili usati come merce di scambio. Sono molte le forme che assume la corruzione, senza contare quello che accade all'interno dei partiti. Fiumi di denaro mangiati a scapito dei cittadini e della loro vita. Ma non tutti osservano immobili l'assalto alle risorse pubbliche e l'ingordigia di chi ha come unico scopo l'arricchimento personale. Esiste una nazione che non si vede, che si oppone e che per questo ha pagato e continua a pagare per la propria onestà. Ma che non è arresa al dilagare dell'illegalità.
Come può il Sessantotto aiutarci a pensare e ad agire nel 2018? L'anno ribelle capitava in un momento di crescita economica e di espansione del benessere comune. Da allora il mondo è cambiato. Oggi, dopo una crisi finanziaria che ha colpito tutto l'Occidente e di fronte a una pericolosa degenerazione del discorso pubblico, alcuni aspetti di quella rivolta ritornano però attuali. Questo libro non celebra quell'anno, ma ne misura la memoria nella politica contemporanea, nei suoi temi e nei suoi conflitti. La memoria, la crisi e la trasformazione sono le lenti attraverso le quali i grandi pensatori del nostro tempo pesano il lascito del passato nel presente. Nel cinquantesimo anniversario dell'anno della rivolta il Sessantotto esiste infatti come eredità simbolica nei movimenti della politica europea e globale. "Anziché riconsiderare gli effetti dell'anno ribelle, questo volume affronta la sua presenza negli anni dieci di questo secolo, partendo dalla convinzione che la memoria di quegli eventi possa sembrare oggi più vicina." Di quelle vicende che cosa ricordiamo? Ma soprattutto, che cosa abbiamo rimosso? A queste domande rispondono intellettuali e politici da tutto il mondo, da Colin Crouch a Pablo Iglesias, in un dialogo sulle debolezze ma anche sulle opportunità per la sinistra, sulla base sociale necessaria a costruire un discorso politico inclusivo e sulla ricerca di identità collettive.
Oltre a essere narratore e poeta, consulente editoriale per Feltrinelli e vicedirettore della Rai, Giorgio Bassani fu tra i fondatori di Italia Nostra, associazione nazionale che ha tutt'oggi l'obiettivo di diffondere nel Paese la cultura della conservazione del paesaggio urbano e rurale, dei monumenti, del carattere ambientale delle città. "L'Italia è un Paese sacro non soltanto per noi, ma per il mondo intero," scriveva Bassani, ai vertici di Italia Nostra per quasi trent'anni. La sua posizione e il suo impegno sono evidenti in questi testi, raccolti e ripresentati in una nuova edizione ampliata e corretta: interventi, discorsi, lettere, interviste e articoli scritti o pronunciati dal grande intellettuale nell'ambito della sua attività di presidente dell'Associazione, dal 1965 al 1980, e come presidente onorario negli anni seguenti. In filigrana emerge, attraverso un impegno donchisciottesco, faticoso e scomodo, a cui lui non è mai venuto meno, anche la sua attività letteraria, intellettuale. "In Bassani," sottolinea Cristiano Spila, "la questione ambientale è, anzitutto, una questione morale. Dunque, pratica. Egli, infatti, pone la salvaguardia ambientale sotto l'egida dell'etica, sottolineando alcune costanti che sono anche la cifra stilistica della sua ideologia: la vocazione alla memoria e al passato, l'ambiente come protagonista, la storia come chiave di lettura, il rapporto dell'uomo con il tempo e lo spazio. Questi scritti ambientalisti aprono uno squarcio inusuale sul lavoro intellettuale di Bassani e indicano come lo scrittore si muova su un autentico crinale fra testimonianza e impegno, come su una linea tra essere e dover essere." In apertura, una premessa di Paola Bassani e una breve presentazione di Oreste Rutigliano, attuale presidente nazionale di Italia Nostra.
Che Italia è quella che assiste alla prigionia di Aldo Moro? Che volti ha? Che cosa pensa? Se la tragedia incombe, insieme con altri fatti drammatici - un gravissimo incidente ferroviario, due diciottenni uccisi a Milano, l'assassinio di Peppìno Impastato - la vita quotidiana scorre. Lo scudetto infiamma i tifosi, e così il mondiale di Formula 1, si guarda Portobello, si avvistano extraterrestri, si chiudono i manicomi, ci si strugge per Pinocchio, si fa l'amore da Trieste in giù, mentre dilaga la febbre del sabato sera. Un corto circuito culturale e antropologico scuote il paese, e queste pagine ce ne portano l'eco: alla voce dei telegiornali con le loro schegge di tragedia, fra comunicati e ultimatum, si sovrappongono le «emozioni da poco» e i «pensieri stupendi». Eterni «figli delle stelle», gli italiani dovranno ora affrontare un passaggio cui è impossibile sottrarsi. Come su un palcoscenico, nomi, storie, vicende in un racconto incalzante e vertiginoso, a comporre il ritratto di un paese che avrebbe preferito rimanere ancora una volta ignaro, nella sua atavica sospensione fra vitalismo e abulia.
Dopo il trauma della fuga dalla Germania nazionalsocialista, Arendt si dette anima e corpo a un’idea di politica che non smise mai di teorizzare come espressione di creatività e gioia, intendendo il potere come potenzialità e possibilità di agire, di esprimersi insieme e con i propri pari nell’esaltante consapevolezza di poter cambiare il mondo, e ciò in netta contrapposizione alla condizione umana di isolamento, impotenza e superfluità sperimentata sotto i regimi totalitari. D’altro canto, Arendt non risparmiò critiche asprissime verso un movimento che, nato nella gioia dell’agire insieme per cambiare il mondo, ella vedeva spegnersi nella violenza, impolitica espressione di frustrazione, disperdendosi nei mille rivoli della società dei consumi, nuovo non-luogo in cui le masse postmoderne sperimentano ancora una volta quell’isolamento e quell’impotenza che solo la gioia dell’agire comune può trasformare da destino a possibilità.
Questo è un libro di viaggio, di scoperta, quasi una guida tra le tante "tribù" della società israeliana. Israele, visto da lontano, appare come un Paese monolitico. È invece un mosaico di culture e di sentimenti, di passato e futuro, di Occidente e di Levante, di fanatismi e laicità, di grandi tradizioni religiose, di comunità rimaste ai margini della storia, di schegge impazzite. Drusi, musulmani, abitanti di colonie e di kibbutz, beduini, "laici" di Tel Aviv, cristiani, samaritani: componenti diverse di un unico Stato, piccolo eppure estremamente variegato. A renderlo un caleidoscopio umano in continua evoluzione è anche il fatto che, nella sua componente maggioritaria (quella ebraica), si tratta di un Paese fondato e cresciuto sull'immigrazione: ebrei europei sopravvissuti all'Olocausto, ebrei orientali in fuga dai Paesi arabi, ebrei etiopici, ebrei russi. E oggi anche tanti non ebrei. Un lucido ritratto di Israele a partire dai suoi abitanti, corredato da un'attenta analisi dello storico Bruno Segre a 70 anni dall'indipendenza del Paese.
La ricostruzione della vicenda Moro fu davvero condizionata, come vorrebbe la recente Commissione d'inchiesta, da un negoziato tra istituzioni e Br per creare una "verità di comodo"? Il mortale agguato del 16 marzo 1978 in via Fani poteva essere prevenuto? Le Br fecero da sole o si avvalsero di complicità a livello internazionale? Cosa c'entrano un bar di via Stresa e un appartamento di via dei Massimi? Quali leggende sono state spazzate via dalla Commissione nel corso della sua inchiesta? Il sequestro e l'omicidio di Moro, di cui secondo molti sarebbe tuttora impossibile decifrare il senso, diventano invece comprensibili nel contesto della lotta armata che bersagliò l'Italia per lunghi anni, prima, durante e dopo il 1978. Il finale, o meglio il "non finale" della recente inchiesta parlamentare era già stato segnato dall'impianto politico di cui la legge istitutiva era espressione. In questo libro si spiega come l'inchiesta si sia trasformata in una narrazione più simile ad una ghost story che ad un'analisi tecnico-politica, e si sia persa una preziosa occasione per chiudere un periodo storico e politico.
Un piccolo libro con una tesi molto grande: per risolvere i conflitti che dilaniano il mondo, e in particolare l'Europa, dobbiamo partire dal concetto di «identità culturale». Un concetto pernicioso che porta a pensare alla cultura come a qualcosa di statico, determinato, immobile. Un concetto che tende a produrre da un lato comunitarismi integralisti, dall'altro relativismi inerti e indifferenti. Oppure barricate per difendere orticelli culturali o indifferentismo dove tutto va bene purché omologo e uniforme. Invece proprio della cultura è il dinamismo, lo scambio, la permeabilità. Usando la rara peculiarità intellettuale di una doppia conoscenza, quella del mondo occidentale e del mondo cinese, Jullien riesce a stabilire l'unica piattaforma possibile per un'umanità pacificata. Quella in cui le idee e le culture sono qualcosa di dinamico, di fluido, senza steccati. Un antidoto prezioso a un mondo che costruisce barriere.