Conosciamo di Pierre Lévy gli scritti teorici, ispirati alle tecnologie digitali dell’informazione e alla cibercultura. Con Il fuoco liberatore affronta, attraverso la propria esperienza, il tema della trasformazione interiore, ripercorrendo il cammino della Qabbalah e gli insegnamenti buddhisti e di altre tradizioni spirituali. Dalla freddezza delle tecnologie digitali la scrittura di Lévy si sposta verso il tema della mente emozionale e costruisce così un percorso, luminosamente geometrico, verso la scoperta di sé.
“All’età di dieci anni andavo a scuola con la chiave di casa, perché tornavo prima dei miei genitori, che a volte lavorava- no fino a tardi. Una sera d’inverno, arrivato davanti alla por- ta di casa, cercai la chiave senza trovarla. La casa era isolata. Scendeva la notte. Non avevo la chiave. Aspettai davanti alla porta. Un’ora, due ore, tre ore. I miei genitori non tornava- no. Iniziai a pensare che non sarebbero mai piú tornati. Mi misi a piangere. Mi sentivo molto solo, abbandonato, esiliato, sventurato. Alla fine arrivarono i miei genitori.
“Perché piangi? mi chiesero; siccome abbiamo visto che ave- vi dimenticato la chiave, abbiamo lasciato apposta la porta aperta”. Spinsi la porta. Era aperta. Non mi era nemmeno passato per la testa di provare ad aprirla senza la chiave. Volevo raccontarti questa storia prima di cominciare, per dirti che so che tu non hai la chiave. Nessuno ha la chiave. Nessuno l’ha mai avuta. La chiave non serve. La porta è aperta. Entra in casa tua.”
— Pierre Lévy, dalla quarta di copertina
L'ignoranza genera mostri, e il pregiudizio può produrre gravi danni alla convivenza civile. Giulia Mafai ha deciso di raccogliere questa sfida proponendo un percorso di conoscenza storica ed antropologica. Sicuramente gastronomica. Immaginando di sedere a tavola con il giovane nipote Elia, al quale propone prelibatezze della tradizione ebraica in una trattoria nel Ghetto di Roma, decide di raccontargli le vicende della plurimillenaria comunità romana. Lo fa scegliendo un registro linguistico colloquiale di grande effetto. (GLV) Si dice che Dio creò l'uomo perché gli piaceva ascoltare delle storie, dei racconti, e agli ebrei piace molto raccontare. Tutto in fondo nasce circa cinquemila anni fa dalla più grande e meravigliosa raccolta di storie: la Bibbia. Le disgrazie sono tante, la vita difficile, il tempo lento a passare ma bisogna andare avanti, stare insieme, parlare, discutere, litigare, convivere, tenersi compagnia. Si dice che due ebrei hanno tre opinioni e sono dei gran chiacchieroni, almeno fino a quando non è stata scoperta la televisione e internet, e molti di loro ne sono stati distratti. (GM)
Il libro raccoglie le testimonianze di tre persone che vivono concretamente il dialogo interreligioso e interculturale mostrando che è possibile superare le molte ristrettezze solitamente prevalenti attorno a questo tema. Il valore di queste pagine attinge all'esperienza viva e sofferta di donne e uomini in carne e ossa, paradossale e contraddittoria, com'è normalmente la vita di ognuno. Dalle loro voci emerge qualcosa di nuovo. È un viaggio arduo e complesso che ha nel suo orizzonte un possibile riavvicinamento e lascia spazio alla speranza. Shalom, Salam, Pace.
Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) è uno dei più importanti maestri dell'ebraismo sefardita e italiano. Biblista, talmudista, cabbalista, filosofo della religione, egli è anche uno dei precursori del dialogo ebraico-cristiano. Le sue opere possono costituire un'introduzione alla tradizione vivente d'Israele, per la quale la Torah scritta è inseparabile dalla Torah orale. Profondo convincimento di Rav Benamozegh era che proprio la Torah sarebbe diventata il luogo d'incontro tra ebrei e cristiani.
Le letture fondamentaliste dei testi sacri proiettano sul nostro tempo un grave pericolo per la libertà. Gli studi scientifici, da parte loro, omettono il richiamo spirituale che tali testi esercitano. Questo saggio propone una lettura spirituale della Torà secondo la tradizione ebraica che si rivela altrettanto scrupolosa della lettura scientifica e che ne rende eterna la parola perché il suo senso è eternamente rinnovato. Leggere la Torà è un lavoro di interpretazione e nello stesso tempo un coinvolgimento del sé. Si tratta di elevarsi ed elevare il mondo. La Torà ci parla del nostro presente e non offre soluzioni preconfezionate: i versetti parlano al lettore qui e ora, sollecitano la sua intelligenza e il suo cuore a trovare risposte al cui centro vi sia sempre il volto dell’altro.
"Devo questa leggenda a un vecchio mendicante che si chiamava Shmaike. Era uno storpio, ma, per non so quale ragione, lo chiamavamo "Shmaike il lungo". Era davvero strano: se ne stava zitto per tutto l'anno e cominciava a parlare solo durante la settimana che precedeva la Pasqua. Allora raccontava una sola storia - sempre la stessa - che diceva di aver ereditato dalla zio, uno scapolo sfaccendato che nessuno prendeva sul serio. A questo zio la storia era stata narrata dal nonno materno, Rabbi Issachar, un vero studioso, che l'aveva attribuita al suo Maestro, il famoso Rabbi Ephraim, che si diceva avesse posseduto i poteri del Maharal, il celebre rabbino miracoloso di Praga, ma che si fosse rifiutato di usarli per paura di sbagliare...".
«Il semplice fatto che nella sapienza delle sentenze antiche i testi riguardanti un’esperienza di Dio e quelli che riguardano un’esperienza del mondo si mescolino tra di loro senza alcuna regola, parla assolutamente contro l’idea che vi sia una qualche tensione nell’organo della conoscenza. Israele non ha conosciuto affatto l’impasse in cui noi ci troviamo alla lettura di questi testi. La sua grandezza consiste forse in questo, nel non aver separato la fede dalla conoscenza: le esperienze del mondo erano sempre per lui esperienze di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo».
Gerhard von Rad, eminente esegeta dell’Antico Testamento, nella sua vasta produzione si è generalmente occupato dello studio delle tradizioni storiche di Israele. In questo ultimo e grande lavoro si è concentrato invece sulle tradizioni sapienziali della Bibbia mosso dall’esigenza di risolvere un’aporia fondamentale dell’esegesi veterotestamentaria: quella tra creazione e storia, tra mondo e salvezza, tra ragione e fede.
Gerhard von Rad (Norimberga 1901 - Heidelberg 1971), teologo protestante e biblista, ha insegnato alle Università di Jena (1934), Göttingen (1945) e Heidelberg (dal 1950). La sua opera più importante è Teologia dell’Antico Testamento (Theologie des Alten Testaments, 2 voll., 1957-60, trad. it. Paideia, 1972-74). Tra le altre opere sono state tradotte: Il sacrificio di Abramo (Morcelliana, 2009), Genesi (Paideia, 2000), Scritti sul Vecchio Testamento (Jaca Book, 1984).
Il XXI secolo si deve confrontare con il costante aumento dell'estremismo religioso e della violenza nel nome di Dio. In questo libro straordinario, Jonathan Sacks ne esplora in profondità le radici e, concentrandosi su ebraismo, cristianesimo e islam, dimostra che perfino la più compassionevole delle religioni può essere corrotta dalla violenza quando la lettura dei testi si cristallizza e cessa di rinnovarsi nel tempo alla luce della verità dell'unità di Dio e del rispetto dell'altro. Questo libro è un richiamo accorato e severo per tutti coloro che hanno smarrito la via e uccidono nel nome del Dio della vita, fanno la guerra nel nome del Dio della pace e praticano la crudeltà nel nome del Dio della compassione.
Gli ultimi due secoli di storia della comunità ebraica romana, la più numerosa e antica d'Italia, sono caratterizzati dai profondi - e talvolta drammatici - mutamenti nelle relazioni fra la maggioranza cristiana della Città Eterna e questa piccola minoranza, che, nel volgere di convulsi decenni, ha conosciuto l'emarginazione e l'inclusione, l'integrazione e, in seguito, la discriminazione e lo sterminio. Nella prima metà dell'Ottocento, i timidi segnali di emancipazione degli ebrei visibili nelle società europee più avanzate si manifestano anche a Roma, dove per una breve stagione la repubblica si sostituisce al dominio pontificio. E solo dopo l'unità d'Italia che nella nuova capitale del regno si avverte chiaramente un'impetuosa ondata di cambiamento: gli ebrei iniziano a partecipare con grande passione alla costruzione del Paese che, in virtù del tributo di sangue da essi versato sui campi di battaglia del Risorgimento e della Grande Guerra, considerano a pieno titolo la loro patria. La Chiesa di Roma, tuttavia, sconfitta ma non rassegnata, addebitando l'oltraggio di Porta Pia a un complotto di forze anticattoliche rilancia la propaganda antigiudaica e rinnova contro gli ebrei le tradizionali accuse di deicidio e di omicidio rituale, fornendo argomenti e alibi sia ai ricorrenti episodi di violenza antigiudaica sia all'antisemitismo moderno, che condanna senza appello l'ebreo alla sua presunta identità razziale, negandogli ogni reale possibilità di assimilazione. Esito e culmine di questa martellante campagna d'odio è la pagina nera - vergognosa e incancellabile - delle cosiddette «leggi razziali», promulgate dal regime fascista nel 1938 come atto di adesione all'ideologia del Terzo Reich hitleriano, che sanciscono l'esclusione degli ebrei dal corpo vivo della società italiana. Accolte dapprima con indifferenza e senza un'esplicita protesta della Santa Sede, dopo l'8 settembre 1943 tali leggi spianano la strada alla deportazione ad Auschwitz e alla morte di oltre 2000 ebrei romani. E anche se molti italiani e una parte del clero si riscattano, creando a proprio rischio e pericolo una vasta rete di solidarietà a favore dei perseguitati in fuga, molte ombre continuano a gravare sul silenzio di Pio XII (a cui Riccardo Calimani dedica un'ampia e lucida analisi), che non condannò mai apertamente lo sterminio, pur essendone informato da diversi prelati dei Paesi in cui venne perpetrato. La segreta, ma ferma speranza dell'autore è che questo racconto «sia fonte di ispirazione, affinché tutti i popoli, nessuno escluso, in ogni parte del mondo, sappiano trovare la via della concordia e della giustizia, e possano vivere insieme su questa terra, se non con gioia, almeno in pace fra loro»
Non v'è ambito dell'esperienza moderna che non abbia ricevuto il contributo creativo e innovativo di studiosi, filosofi e teologi del giudaismo. Più che una storia degli ebrei-filosofi, questa è una sinfonia del grande contributo del giudaismo alla cultura occidentale e alla sua avventura intellettuale, scientifica e culturale: dalla Septuaginta e Filone d'Alessandria a Mosè Maimonide, dalla qabbalà alla modernità, passando attraverso il caso Spinoza e l'illuminismo ebraico, l'haskalà. Nell'età contemporanea assistiamo a un'esplosione di "pensieri ebraici" frutto della contaminazione con le diverse filosofie otto-novecentesche: dall'idealismo al vitalismo, dai nazionalismi all'esistenzialismo, fino alle più recenti scuole ermeneutiche e post-moderne. Ma questa è, al contempo, una storia delle idee ebraiche, del loro impatto sulle società nelle quali gli ebrei hanno vissuto e vivono, della loro vitalità etica e politica.
L'idea di messia nel pensiero ebraico antico e moderno subisce vari slittamenti semantici, di origine storica e teorica. Il teologo e l'ebraista, con le loro proprie tonalità, ne illuminano alcuni: dapprima si rintracciano i nomi del messia - da quello personale e mistico-escatologico a quello collettivo incarnato nell'età messianica e in Israele - attraverso la Bibbia e le fonti giudaiche (midrash, Talmud, chassidismo, Illuminismo ebraico e sionismo); poi, in chiave fenomenologica, si delineano possibili percorsi, per così dire, messianici nella filosofia, nella musica, nella letteratura. D'altra parte, il messia, architrave che unisce e divide ebrei, cristiani e musulmani, si presta a una riflessione non solo religiosa e spirituale ma esistenziale: nella coscienza del tempo - quale appare nel Qohelet ma anche nella letteratura europea più secolarizzata - irrompe la dimensione dell'attesa, capace di porre domande anche a un non credente.
Il volume raccoglie tutti i saggi che Jacob Taubes ha dedicato a Gershom Scholem o a temi strettamente affini al suo ambito di studio, nonché quanto resta della corrispondenza tra i due, cioè le lettere che Taubes scrisse a Scholem dal 1947 al 1979 e le risposte di Scholem, che segnano la loro drammatica e irrevocabile rottura.