Richard David Precht, che insegna filosofia in Germania e negli USA, accompagna il lettore in un entusiasmante viaggio filosofico: 35 località per 35 domande. Si parte con "Che cos'è la verità?", l'interrogativo che riecheggia a Sils Maria, al quale si risponde sulle note di Lucy in the Sky with Diamonds (ma anche con l'aiuto di Nietzsche...). L'itinerario geografico-filosofico si conclude (provvisoriamente) con un'altra domanda, "La vita ha un senso?". Il quesito risuona all'interno della macchina di Matrix e mobilita il sapere dei fratelli Wachowski e Stanislaw Lem, di Platone e Tolstoj, di Cartesio e Luhmann, Douglas Adams e Lewis Carroll... Richard David Precht conosce i maestri del pensiero, ascolta i Beatles e il rap, è fanatico di cinema, ama le fiabe e la fantascienza, è aggiornato sulle più recenti scoperte scientifiche. Soprattutto, è in grado di fare capire, in termini chiari e spesso divertenti, senza alcuna pedanteria, le grandi questioni che da sempre si pongono gli esseri umani, le stesse domande alle quali, da sempre, i filosofi hanno cercato di dare una risposta.
"Non si riesce a comprendere nulla della natura del denaro e delle mirabolanti capovolte che l'uomo compie attorno ad esso se non si passa dal modo d'essere di un soggetto che desidera ciò di cui non ha bisogno e che manca di ciò rispetto a cui non ha mai un sapere chiaro e distinto". Attraverso la lettura di Kafka, Kojève, Simmel, Heidegger, Lacan, Lévinas, una folgorante analisi delle ragioni che portano il soggetto a trasformare un mero strumento in quel fantasma vorace di fronte al quale ogni identità evapora e ogni volto si sfigura. Uno strumento utile per comprendere e smascherare l'inganno per eccellenza del nostro tempo.
È ancora molto diffusa l'abitudine di liquidare lo scetticismo con qualche battuta, normalmente sottolineando quali indesiderate conseguenze pratiche seguirebbero dall'abbracciare questa posizione. Eppure questo antico punto di vista è tornato prepotentemente alla ribalta nell'ambito della riflessione filosofica contemporanea. Il principale elemento di novità è che oggi non viene più proposto come una posizione filosofica abbracciata da qualcuno e sbrigativamente accantonabile a causa della sua invivibilità, ma come un inquietante paradosso, che mostra in che modo non abbiamo nessuna delle conoscenze che normalmente riteniamo di avere riguardo agli oggetti fisici intorno a noi. Porre il problema dello scetticismo sotto forma di paradosso ha il merito di mettere in evidenza le reali ragioni per cui lo scetticismo è interessante da un punto di vista filosofico, pur ammettendo che risulti poco concreto sia sul piano pratico generale sia su quello delle nostre prassi teoriche ordinarie. In questo volume si ripercorrono le due correnti filosofiche principali che fanno riferimento allo scetticismo: quella sostenuta da Cartesio e quella teorizzata da Hume. In entrambi i casi, il paradosso scettico solleva questioni cruciali che attengono alla comprensione di aspetti fondamentali della nostra vita cognitiva.
Da dove viene la morale? Su che cosa poggiano i nostri valori? Come riusciamo a sapere cosa è bene e cosa è male? Per secoli filosofi e teologi hanno indagato la natura umana alla ricerca di una risposta. Molte sono state le intuizioni brillanti e le argomentazioni sottili. Solo oggi, però, quelle intuizioni e argomentazioni possono trovare un "saldo" legame con la storia evolutiva che ha permesso a noi e al nostro cervello di diventare quelli che siamo. Patricia Churchland ci invita a fare i conti con i processi e i meccanismi biologici che hanno contribuito a plasmare forme e modi del nostro dover essere morale. Le scoperte più recenti nell'ambito della biologia evoluzionistica, della genetica e delle neuroscienze cognitive diventano così gli strumenti essenziali per orientarsi nell'intricata selva delle questioni morali. Non si tratta, però, di cedere alla tentazione di un facile scientismo ma di riconoscere che solo se scopriamo cosa ci renda capaci di prenderci cura di noi e degli altri possiamo capire come l'animale sociale Homo sapiens sia diventato un animale morale.
La sessualità viene esaminata in tutte le sue componenti e viene poi ricondotta, per determinarne scientificamente l'essenza e la finalità, ai principi metafisici dell'antropologia e della sociologia. L'autore critica l'etica sessuale di alcuni autori di scuola psicanalitica, ma anche gli autori cattolici, sia tradizionalisti che progressisti
Musarion è un poemetto in tre canti composto nel 1766 dal letterato tedesco Christoph Wieland. Intreccio di filosofia, morale e satira, fu un successo all’epoca – in pieno fermento illuministico – tanto che Goethe scrisse di averne in mente «ogni pagina» e in essa «di rivedere vivente e nuova l’antichità». L’autore di questi versi, la cui protagonista è un’etera, ha creato un genere, a tratti licenzioso e insieme letterario e filosofico, dove la filosofia mette alla prova se stessa in forma di poesia e la commedia umana veicola una precisa, e provocatoria, idea di ragione: la filosofia delle Grazie, polemica tanto verso l’entusiasmo mistico quanto verso la rigidità di filosofi e teologi. La verità – paiono dirci questi canti – è in bilico fra la misura dell’anima e quella dei sensi, e la sua luce è il riflesso dell’irredimibile fragilità umana. In appendice al volume uno scritto inedito di Goethe offre un vivido ritratto dell’amico Wieland.
Prima edizione italiana di un brillante testo del romanticismo tedesco, nel quale si alternano spiritualità ed erotismo.
CHRISTOPH M. WIELAND (1733-1813) è stato uno dei maggiori poeti e pensatori tedeschi la cui opera ha avuto un profondo influsso sul classicismo tedesco, anticipando elementi del romanticismo. Primo traduttore in lingua tedesca di Shakespeare, tra le sue opere tradotte in Italia: Oberon. Poema eroico romantico in dodici canti (Rizzoli, 1993); La storia degli Abderiti (Utet, 1982).
RENATO PETTOELLO, ordinario di Storia della filosofia contemporanea all’Università di Milano, ha curato per Morcelliana: J.F. Herbart, Dialoghi sul male (2007); J.W. Goethe - F. Soret, Conversazioni (2010), con F. Botticchio; A. Schweitzer, Goethe (2011).
Si ritiene in genere che la filosofia debba rispondere a domande concernenti il che cosa e il perché. Ronchi pensa invece che sia non solo più interessante, ma anche filosoficamente più rilevante chiedersi come: come parliamo oppure come pensiamo, come godiamo, come ricordiamo una parola dimenticata, come ci creiamo un corpo, come facciamo a diventare adulti. Chi si pone le grandi questioni del che cosa e del perché non ha appreso la lezione materialistica e speculativa della più radicale filosofia del Novecento, quella che ha eletto il divenire ad assoluto, che ha smantellato l'idea di una verità trascendente e preordinata al pensiero e che ha portato a termine la rivoluzione copernicana, scalzando veramente l'uomo e la sua coscienza da ogni presunta centralità. Chi invece rimette al centro la domanda pragmatica sul come fare si ritrova parte di un mondo in divenire finalmente libero dall'uomo come unità di misura ultima, un divenire che non è mancanza, bensì atto puro, vita infinita e una singolare gioia "al di là del principio di piacere". La nuova domanda da porsi è allora pratica piuttosto che teorica, ed è una domanda critica, nella misura in cui consente di resistere al falso divenire. Come resistere a questo divenire che pone la mancanza nel cuore dell'essere, che genera ovunque miseria, insufficienza, sofferenza, anche quando promuove un'immensa ricchezza materiale? Ronchi prova a rispondere in sei saggi che cercano di definire modalità di resistenza.
Qual è il modo migliore di vivere? Di cosa è fatta l'eccellenza umana? Sono domande che gli uomini si pongono da sempre. Nell'antichità la ricerca di un significato della vita trovava una risposta grazie alla capacità di essere ricettivi a forze divine che ci trascinavano dando ai momenti ordinari della vita un tocco di meraviglia e di gratitudine. Da quando la civiltà occidentale ha cominciato ad affidarsi al potere della volontà indipendente, è andata perduta la facoltà di collegarsi con il sacro. Con la secolarizzazione è tramontato un sistema di valori chiaro e indiscutibile, ma non è detto sia venuta meno la necessità di trovare una risposta, un senso più grande che trascenda il limite dell'esistenza individuale. Prendendo in esame alcune delle opere più importanti del canone occidentale, dall'Odissea a Moby Dick, da Agostino a Cartesio a Kant, da Dante a David Foster Wallace, i due filosofi americani ci spiegano in che modo abbiamo perduto il coinvolgimento entusiastico con l'essenza fondamentale della nostra vita e ci dimostrano che, rileggendo da capo i classici, possiamo ritrovare un'aderenza appassionata all'intimo splendore e alla bellezza del mondo. Magari per accorgerci di poter fare più facilmente esperienza dell'universale dentro uno stadio sportivo che non in una cattedrale. Un libro ricco di spunti che illumina di una luce diversa la cultura, la storia, le pratiche del sacro e noi stessi. Prefazione di Gianni Vattimo.
Individualismo ed egoismo sono i mali dell'epoca. Ma sappiamo davvero cos'è una comunità? Non basta essere con gli altri, né condividere con loro idee, scopi e interessi. L'egoismo delle comunità (anche religiose) è ancora più devastante di quello degli individui. La comunità è esposta a un duplice rischio: di sovrapporre il proprio protagonismo alla testimonianza per la verità e l'accoglienza; e di rimanere indecisa tra la condanna e la complicità nei confronti della città degli uomini. Testimoniare è lo stesso che esistere. Gli elementi tipici della comunità assomigliano tuttavia ai grani dispersi di una collana strappata: non si riconoscono più, e generano equivoci e fraintendimenti. Bisogna al contrario riannodare il filo che lega insieme la testimonianza e l'accoglienza, i luoghi e la democrazia, l'autorità e la partecipazione, la presenza, la speranza e la profezia.
Perché Péguy, oggi? Che cosa hanno da dirci le inquietudini di questo scrittore francese, "morto sul campo d'onore" un secolo fa, nella prima battaglia della Marna? Socialista, dreyfusardo, poi convertito al cattolicesimo, tradizionalista, patriota, Péguy appare agli occhi di Finkielkraut come un "profeta disperato" del malessere spirituale moderno. Animo perennemente insoddisfatto, sempre alla ricerca di una verità più grande di quella contemplata dalla scienza e dalle ideologie del suo tempo e comunque non limitata all'orizzonte della storia e del sapere umano, Péguy è stato emarginato dalla cultura di sinistra cui pure appartenne, ma di cui rifiutò dogmi e pregiudizi. Eppure, la sua riflessione sulla modernità - sulle implicazioni dell'affare Dreyfus, sul nazionalismo che avrebbe portato alla prima guerra mondiale, sui cambiamenti sociali prodotti dal progresso tecnologico, sulla scomparsa della tradizione, sul declino della religiosità, sulla miopia degli intellettuali, sulla decomposizione della famiglia - è imprescindibile per chiunque voglia capire la crisi di certezze che caratterizza il nostro tempo