Nola, 11 anni, viene operata per una malformazione cardiaca e, quando si risveglia, non sente più le gambe. I medici che consulta le comunicano una drammatica diagnosi: l'amputazione. Tutti, tranne il dottor Orso, che esclama: «Non si tagliano i piedi a una ragazza!». Nola, aiutata anche dal mondo immaginario che crea dentro di sé, inizia così un nuovo percorso. Età di lettura: da 7 anni.
Venezia. Nel più rinomato caffè di San Marco una elegante anziana signora incontra l'avvocato Ridolfi, un giovane dal fare astuto, anche se alcuni dettagli del suo abbigliamento denunciano scarsa affermazione professionale. La signora è una vedova molto ricca e altrettanto cinica, indifferente alle sirene del conformismo. Tra i due si stringe un accordo. Rita, la nipote della vedova, ed Enrico, chirurgo in carriera, sono in viaggio di nozze a Rodi, allora italiana: siamo nel 1938, nei giorni del Trattato di Monaco. Li avvicina un sedicente generale di nome Costantini, che comunica a Rita l'improvvisa morte della nonna, dicendo di averla sposata poco prima che si spegnesse e consegnando alla nipote un testamento che la rende unica erede di una immensa fortuna. Ma il testamento include una clausola capestro, dove si insinua l'avvocato Ridolfi, che fa la sua comparsa a Rodi con una proposta tanto ambigua quanto minacciosa. Tra i quattro, sullo sfondo mondano e corrotto dell'isola levantina, inizia un carosello di mosse e contromosse, che include il ricatto e un incombente delitto: un gioco in cui uno solo potrebbe vincere tutto. Il mistero da Rodi ritorna infine a Venezia, dove i personaggi, messi in scena con piglio umoristico e a tratti satirico, lo condurranno a soluzione. Anche in questo libro Andrea Molesini - autore di Non tutti i bastardi sono di Vienna e di Il rogo della Repubblica - sceglie la via del romanzo storico per raccontare torbide relazioni familiari e intrecci criminali, invitando il lettore a esplorare il passato per interrogare il presente.
All'origine c'è Rosa. Nata nella Sicilia di inizio Novecento, cresciuta in un paesino arroccato sulle montagne, rivela sin da bambina di essere fatta della materia del suo nome, ossia di fiori che rispuntano sempre, di frutti buoni contro i malanni, di legno resistente e spinoso. Al padre e ai fratelli, che possono tutto, non si piega mai sino in fondo. Finché nel 1925 incontra Sebastiano Quaranta, che "non aveva padre, madre o sorelle, perciò Rosa aveva trovato l'unico uomo al mondo che non sapeva come suonarle". È un amore a prima vista, dove la vista però non inganna. Rosa scappa con lui, si sposano e insieme aprono un'osteria, che diventa un punto di riferimento per la gente dei quattro paesi tutt'intorno. A breve distanza nascono il bel Fernando, Donato, che andrà in seminario, e infine Selma, dalle mani delicate come i ricami di cui sarà maestra. Semplice e mite, Selma si fa incantare da Santi Maraviglia, detto Santidivetro per la pelle diafana, sposandolo contro il parere materno. È quando lui diventa legalmente il capofamiglia che cominciano i guai, e un'eredità che era stata coltivata con cura viene sottratta. A farne le spese saranno le figlie di Selma e Santi: Patrizia, delle tre sorelle la più battagliera, Lavinia, attraente come Virna Lisi, e Marinella, la preferita dal padre, che si fa ragazza negli anni ottanta e sogna di studiare all'estero. Su tutte loro veglia lo spirito di Sebastiano Quaranta, che torna a visitarle nei momenti più duri.
Mentre apre la piccola scatola che le hanno appena consegnato, Lily non immagina certo che la sua vita stia per cambiare per sempre. Al suo interno, una ricetta scritta a mano e la vecchia locandina di un balletto. Lily non lo sa ancora, ma in quella scatola è racchiuso tutto il suo passato. Un passato che non conosce. Così come non conosce le altre donne sedute con lei al grande tavolo dello studio legale, ma tutte hanno qualcosa in comune: le loro nonne sono nate a Hope House, una casa per madri nubili. Anche loro hanno ricevuto una scatola, ma il contenuto è diverso per ciascuna. Gli oggetti che Lily ha trovato nella propria la conducono tra i vigneti di un paese lontano. Lì, fra colline tinte di giallo e di rosso, si sente per la prima volta a casa. È un tuffo nel passato che le farà ripercorrere la vita della bisnonna: Lily scoprirà che era una ballerina di danza classica, ma anche una donna disposta a tutto per amore. E che tra le mura di un antico panificio è custodito il suo segreto. Un segreto inconfessabile che ha segnato la storia delle donne della sua famiglia e che ora riguarda anche lei. Donne forti e ribelli. Donne che le somigliano più di quanto potesse immaginare. Ciò che scopre la metterà di fronte alla scelta più importante della sua vita. Perché è nel passato che è cominciato il suo futuro.
Madrid, 1834: una terribile epidemia di colera ha messo in ginocchio la città. Ma il terrore ha anche un altro nome, quello della Bestia: un essere spietato e inafferrabile che rapisce le bambine dei quartieri più poveri e ne smembra i corpi. Quando la piccola Clara scompare, sua sorella Lucía non vuole aspettare di ritrovarne il cadavere: dà inizio così alla sua lotta contro il male e contro il tempo. Ha quattordici anni e l'inestinguibile coraggio di chi sente di non poter fare altro. Anche perché nessuno sembra voler fermare davvero il mostro. Tranne Diego, un giornalista testardo e temerario, che trascinerà nell'indagine anche il suo amico Donoso, un poliziotto cinico ma leale con un occhio solo. Alla loro ricerca frenetica parteciperanno monaci guerriglieri, ambasciatori e prostitute, mentre una società segreta tesse i suoi intrighi fatali fra taverne e salotti, palazzi e lazzaretti. È l'alba di una capitale che nasce nel sangue, di una città che brulica di vita e di morte e lotta per lasciarsi il medioevo alle spalle.
Calvino non amava parlare di sé direttamente, ma attraverso lo schermo delle immagini. Silvio Perrella ne ha interrogate alcune, le ha connesse tra loro e ha scoperto che in molte di esse si nascondono dei veri e propri autoritratti. «Avevo tenuto così a lungo con me la possibilità di scrivere un libro su Calvino, che quando davvero lo scrissi fu come acciuffare una cometa per la coda». Dagli anni Quaranta agli Ottanta del Novecento, il giovane, baldanzoso e iperattivo Calvino si trasforma in un malinconico Prospero della letteratura che desidererebbe dismettere le armi della finzione per tornare a essere lettore tra i lettori. La sua è la storia di una metamorfosi oscura e affascinante che s'intreccia con l'evoluzione della letteratura italiana e internazionale.
Jean-Marie Kerwich è zingaro e poeta. Zingaro perché libero, ha girato il mondo senza vederne confini, così come senza porsi confini ha spaziato nella poesia. Una poesia che non ha chiuso dentro schemi preco- stituiti, dentro generi letterari. Lui percorre la cosiddetta prosa poetica. Il libro errante è una raccolta di impressioni, di pensieri ingenui, commoventi.
La scrittura di Kerwich è stata paragonata a quella di San Francesco. Un elogio per tutte le creature e il rispetto per ogni cosa su questa terra: dalla piccola pozzanghera, al vento che soffia libero, all’ombra di un albero che ripara e ristora. In questo libro c’è tutto quello che la vita ci offre. Nel bene e nel male, nel brutto e nel bello. Il “libro errante” è testimone del nostro tempo e lo scrive: dal vagabondo che scalda una scatoletta di fagioli, all’erba che spunta dalle crepe del cemento.
Trentaseiesimo titolo di narrativa del suo infinito romanzo fatto di romanzi, quest'ultimo, che si dipana nell'ormai noto stile fatto di monologhi e memoria alternati senza soluzione di continuità, si muove intorno a un personaggio storico, Júlio Fogaça (1907-1980), quantunque il suo nome non venga mai pronunciato, disegnandone la biografia grazie a un affresco corale di voci di personaggi ognuno dei quali protagonista a turno dei singoli capitoli. Membro della segreteria del Partito comunista portoghese, Fogaça viene deportato per due volte nella colonia penale di Tarrafal, a Capo Verde, e imprigionato anche sul suolo patrio nelle famigerate carceri della polizia politica, dove è torturato. Ciononostante, l'attivista non cede e non tradisce i compagni di lotta, ma viene ugualmente espulso dal partito. Secondo le motivazioni burocratiche perché non ligio alla linea ortodossa imposta dal comitato centrale, molto più probabilmente a causa delle sue origini alto-borghesi, giudicate incompatibili con il profilo del militante comunista e, soprattutto, per via della sua omosessualità. Non alla propria, ma alle plurime voci di chi l'ha conosciuto è affidato il compito di dipanare un'indagine intorno alla vera identità del protagonista e, insieme, di raccontare il colonialismo oltremarino, la dissoluzione dell'impero, la lenta corrosione della presenza lusitana in Africa, il lato più oscuro della dittatura. Il "dizionario dei fiori" scritto in una lingua d'antan, che compare qua e là fra le pagine, riveste un valore allegorico ponendosi come immagine della vita con le sue biforcazioni, con i presenti possibili che si sovrappongono - mediati dal rimpianto e dalla nostalgia - all'unico presente reale, che è quello vissuto.
È un romanzo che senti con i cinque sensi. Fa pensare, ma emoziona. Vive sentimenti e diritti nell'era informatica. In primo piano, una donna, il suo mondo e il calvario dei migranti, vulnerabili e invisibili nella loro umanità. La trama è avvincente. Si moltiplicano le voci, si avvicendano le generazioni, ci sono alleati e nemici a latitudini diverse, si intersecano complicità e narrazioni distorte. Arriverà la verità? L'epilogo sarà travolgente, anzi, più che un epilogo un nuovo inizio, nel segno dell'amore.
Nel maggio del 1940, Anna Maria Ortese incontra a Bologna Marta Maria Pezzoli, giovane studentessa universitaria che gli amici chiamano Mattia. Nasce fra loro un'intesa, un'intimità che, come precisa la Ortese, è tenerezza di sorelle: «Ti sono così grata di essermi vicina in questo tempo difficile - sola sorella». Una tenerezza tanto più intensa in quanto fondata sulla dissimmetria: Mattia è malinconica, sollecita, assidua, percettiva, Anna Maria mutevole, tempestosa, non di rado silente, caparbiamente intenta a coltivare la sofferenza, sua «vera patria», a trasformarla in conoscenza, a trasfonderla in un lavoro che pure reca con sé dubbio e tormento: «Non ho sete che di gioia, di luce, d'amore. E tutto questo non c'è, fra le carte. Scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifugio triste, non è la vita. Vorrei essere dove voi tutti siete» - ma capace anche di trasmettere all'amica la sua irrequietezza visionaria, in lettere di fiammeggiante bellezza. A cura di Monica Farnetti. Con una Nota di Stefano Pezzoli.
Un'attenta esplorazione dei mondi fantastici creati da J.R.R. Tolkien e insieme un ritratto in punta di penna di un "filologo ritardatario e malinconico" divenuto suo malgrado un autore di culto: questo ci offre Saverio Simonelli in un libro scritto con taglio narrativo, che va al cuore dell'opera tolkieniana. «Con coraggio e molta cura Tolkien si è addentrato, immerso, nel mondo complesso e affascinante delle parole umane e le ha prese sul serio, cercando di mantenersi fedele rispetto all'impegno che essere richiedono. Così ha fatto Tolkien per tutta la vita, ed è da questa "immersione" che poi è sbocciato come un fiore (o un albero ricco di rami) il suo corpus narrativo che trova le sue radici proprio lì, nella filologia, l'amore per la parola. E così ha fatto Simonelli. I suoi libri (e i suoi amici) possono testimoniarlo» (dalla prefazione di Andrea Monda).