Le parolacce sono i palliativi verbali delle molteplici miserie e angosce che segnano l'umano arrancare. Con vivacità e ironia, il volume racconta la storia del colorito frasario volgare e mostra che il linguaggio basso e sprezzante, per la sua straordinaria potenza emotiva, esiste da sempre. Negli ultimi decenni, però, il turpiloquio ha infranto le barriere che ne regolavano la circolazione: non è più "una cosa da uomini" né una risorsa espressiva di uso marginale, ma è sconfinato dal privato al pubblico, nella fluviale comunicazione social e perfino nel dibattito politico. Ecco perché la nostra è stata definita «l'epoca d'oro dell'ingiuria».
A distanza di tre decenni fatichiamo ancora a inquadrare Mani pulite e in che misura abbia creato l'incerto presente politico che viviamo. Se è vero che, come scrive Filippo Facci, «non aveva mai attecchito un vero senso dello Stato, e tantomeno una disposizione a scandalizzarsi per condotte poco etiche», da che cosa ebbe origine il clamore intorno a un'indagine che, in apparenza partita da un comune caso di corruzione, ha cambiato per sempre l'immaginario della nazione? All'epoca giovane cronista, l'autore ha seguito le tracce e le crepe prodotte da quel terremoto, scavando nelle versioni improbabili - la favola del magistrato onesto che smaschera i corrotti, l'epurazione delle mele marce - e in altre non meno improbabili e complottiste legate a scenari internazionali. Da quel lavoro emergono oggi risvolti inaspettati che si ricollegano a eventi e fenomeni vicini e lontani, tra cui il maxiprocesso di Palermo, che avrebbe dovuto essere salutato come la vera svolta e invece venne attaccato da più parti, e il bombardamento mediatico, con giornali e talk show impegnati a tenere vivo il clima emergenziale, spianando la strada all'antipolitica. Tra protagonisti e comprimari, reazioni a caldo e insospettabili derive, rimuovendo ogni patina di ipocrisia, Facci restituisce un impietoso ritratto del paese che siamo stati e che forse siamo ancora, spingendo a domandarci: è giunto il momento di ammettere, con il procuratore capo Borrelli, che «non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente per cascare in quello attuale»?
Perché è iniziata la guerra in Ucraina? Quanto durerà e come potrebbe finire? Uno storico che conosce la Russia e un generale di corpo d'armata che conosce la Nato spiegano con un linguaggio schietto i temi strategici e le radici storiche del conflitto. In un momento in cui il dibattito è ingessato e la descrizione della realtà è piegata alle idee "giuste a prescindere", gli autori escono dallo steccato del politically correct per tornare ai fatti, anche quelli più lontani, elencati in una minuziosa cronologia. Il generale Mini esamina la situazione sul campo alla luce delle dottrine militari moderne mentre il professor Cardini parte dall'invasione russa per risalire alle cause profonde del conflitto. La dissoluzione dell'Urss, la storia del nazionalismo di Kiev, l'allargamento a est della Nato e l'interferenza di Washington sulla politica ucraina sono i punti di partenza per dare risposte originali alle domande che tutti si fanno. Prefazione di Marco Travaglio.
I media hanno trasformato la giustizia in spettacolo, portando nelle nostre case notizie di indagini e processi attraverso giornali e telegiornali, salotti televisivi e talk show. E non si tratta purtroppo solo di informazione o di cronaca giudiziaria, bensì di una rappresentazione spettacolarizzata dove la corretta descrizione dei fatti viene sacrificata all'impatto sull'audience. Si dà vita in tal modo a una sorta di processo parallelo incurante delle regole e delle garanzie individuali, facendo leva sull'indignazione morale del pubblico e generando scandali. Nel tribunale mediatico il diritto rischia di rimanere imbrigliato nel giudizio dell'opinione pubblica, che trasforma automaticamente l'indagato in colpevole, negandogli il diritto alla presunzione d'innocenza, e travolgendo molti altri diritti fondamentali. Questo libro agile e penetrante mette in rilievo gli «effetti perversi» di tali dinamiche sull'esito del processo e indica le vie da seguire per far sì che la giustizia non rischi di perdere autonomia e credibilità.
"A partire dagli anni Ottanta l'unico perno della nostra civiltà è diventato l'individuo e la sua ricerca di illimitata libertà e di crescente appagamento materiale. Il Covid-19 e la guerra in Ucraina ci obbligano a un repentino cambiamento di prospettiva. Ma i segnali di fragilità etica dell'Occidente erano già visibili da molti anni: la confusione tra desideri e diritti; la politica ridotta a mutevole stile di consumo; la cancellazione della storia e dunque dell'identità; l'assenza di moderazione in tanti campi dell'agire pubblico e privato; il rifiuto dei valori della competenza, dell'autorità e dell'educazione formale; la difficoltà ad accettare le categorie morali di obbligo, dovere e gerarchia. Si è diffusa una cultura che nega il valore del limite. Abbiamo bisogno di ristabilire dei limiti, anche per essere felici come individui."
«Tangentopoli era la malattia, e Mani Pulite la cura. Anche se quest'ultima, come spesso capita, si è rivelata più dannosa della prima». A trent'anni da Tangentopoli, siamo ben lontani dal progetto di ripristinare la legalità nelle istituzioni. I rimedi messi in atto coi processi di Mani Pulite si sono rivelati peggiori del male che dovevano curare: la corruzione non è diminuita, come dimostra il caso del Mose, anzi ha aumentato i suoi introiti. Ma l'effetto collaterale più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Un'investitura permessa dalla subordinazione codarda della politica, che ha voluto assegnare alle toghe un ruolo salvifico e dirimente. In questo modo alla divisione dei poteri, invocata dalla Costituzione, è subentrata invece la loro confusione pressoché totale. Quindici anni fa l'ottanta per cento degli italiani confidava ancora nei magistrati. Oggi, dopo gli ultimi scandali emersi nella Procura di Milano, le faide tra le correnti interne e gli innumerevoli episodi di protagonismo dei Pm, non solo la percentuale è crollata, ma a documentare la sfiducia dei cittadini è anche un mezzo milione di firme raccolte per il referendum «Giustizia giusta». Indipendentemente dalla formulazione dei quesiti, imperfetta e spesso incomprensibile, il messaggio sottostante è chiarissimo: occorre una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario, perché il tempo sta per scadere. Siamo ormai all'ultimo atto.
A due anni dallo scoppio della pandemia, possiamo già toccare con mano come essa stia radicalmente cambiando il nostro modo di vivere. Le misure messe in campo per debellarla hanno condizionato la società, dal punto di vista politico, economico, sociale e relazionale. Per questo è necessario fermarsi un attimo, tornare all'origine e riflettere con maggiore obiettività su quanto è accaduto. Giorgio Palù, virologo di fama internazionale e presidente di AIFA, sulla base di un'esperienza di studi decennale e con la consueta chiarezza, analizza il modo in cui abbiamo affrontato questo evento drammatico, convinto che individuare gli eventuali errori commessi possa aiutarci a fare tesoro di alcune importanti lezioni. Ripercorrendo i primi concitati mesi del 2020, è inevitabile soffermarsi sul ruolo svolto dalla comunicazione. Quest'arma potentissima si è spesso trasformata in un vociare confuso, che, invece di aiutare i cittadini a capire quanto stava accadendo, si è limitata a diffondere allarmismo e terrore ingiustificati. Mai come in questi momenti di caos è necessario avere delle figure di riferimento preparate, giornalisti e scienziati capaci di divulgare informazioni basate su dati rigorosi e accessibili al grande pubblico. Esattamente come fa Palù in questo testo, spiegando come funzionano i virus e cosa potrebbe aver scatenato la pandemia di Covid-19. La comunità scientifica, d'altra parte, ha dimostrato che, quando sceglie di collaborare, può ottenere risultati strabilianti: non era mai accaduto che in pochissimi mesi si riuscisse a produrre un vaccino efficace e a distribuirne miliardi di dosi in tutto il mondo. L'andamento della pandemia lascia presumere che un virus con queste caratteristiche tenda a diventare endogeno, come è avvenuto per i virus dell'influenza e del raffreddore. La sfida è dunque imparare a conviverci e la soluzione, come sempre, è la ricerca. Continuare a studiare gli agenti microbici, imparando a conoscerli, non solo aprirà la via a ulteriori scoperte in campo biomedico, ma, soprattutto, ci aiuterà a essere preparati la prossima volta che dovremo affrontare una simile emergenza.
In politica la realtà non è mai quella che appare. La narrazione dei vincitori «riscrive» la nuda trama dei fatti. Sugli ultimi trent'anni di storia italiana, paradossalmente, si è imposto il racconto dei vinti della storia. È la sinistra di matrice comunista e statalista - la grande sconfitta del secolo scorso, divenuta il sorprendente alfiere del liberismo selvaggio e del conseguente capitalismo finanziario - a raccontare cosa è successo, in sintonia con una parte della magistratura inquirente. Paolo Cirino Pomicino fa il controcanto alla storia «ufficiale» e - a forza di fatti, documenti e ragionamenti - offre una nuova e convincente lettura del passato prossimo e del presente. L'Italia vive una profonda crisi della democrazia, con la crescente invadenza del grande capitale finanziario e la progressiva trasformazione del ceto medio spaccato in due tronconi, il più piccolo dei quali è diventato una nuova classe dominante grazie alla finanza ingegnerizzata, mentre il ruolo dei corpi intermedi è pressoché scomparso. Serve una nuova rivoluzione borghese capace di rilanciare cultura e democrazia nel sistema politico italiano, «anonimo» e sempre più personalizzato. In questo quadro ha fatto irruzione, a fine febbraio, la guerra in Europa Orientale, con l'invasione russa dell'Ucraina. Migliaia di morti, milioni di profughi e danni materiali incalcolabili hanno commosso il mondo e compattato l'Europa e l'Occidente nel sostegno politico e materiale all'Ucraina e nelle sanzioni, durissime, alla Russia. Una svolta tragica, per un nuovo ordine mondiale.
Da dove nascono la guerra, l'avidità, lo sfruttamento, l'insensibilità alle sofferenze altrui? E qual è l'origine della disuguaglianza, ormai riconosciuta come uno dei problemi più drammatici e radicati del nostro tempo? Da secoli, le risposte a queste domande si limitano a rielaborare le visioni contrapposte dei due padri della filosofia politica: Jean-Jacques Rousseau e Thomas Hobbes. Stando al primo, per la maggior parte della loro esistenza gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. A un certo punto, però, a incrinare quel quadro idilliaco è arrivata l'agricoltura, che ha portato alla nascita della proprietà privata. Poi sono apparse le città, e con esse si è affermata l'organizzazione fortemente gerarchica di quella che chiamiamo «civiltà». Per Hobbes, al contrario, la necessità di imporre un rigido ordine sociale si è imposta per contenere la natura individualista e violenta dell'essere umano, altrimenti sarebbe stato impossibile progredire organizzandosi in grandi gruppi. Quasi tutti conoscono queste due storie alternative, almeno nelle loro linee generali: riassumono le idee più diffuse sulla storia dell'umanità e la sua evoluzione, e hanno contribuito a definire la nostra visione del mondo. Ma pongono anche un problema: entrambe dipingono la disuguaglianza come una tragica necessità; un elemento che non potremo mai cancellare del tutto, in quanto intrinsecamente legato al vivere comune. Una visione che non convince affatto gli autori di questo libro, decisi a gettare nuova luce sul passato della nostra specie. In una sintesi tanto meticolosa quanto di largo respiro, che coniuga i risultati delle ricerche storiche e archeologiche più recenti al contributo di pensatori provenienti da culture diverse da quella occidentale, il sociologo David Graeber e l'archeologo David Wengrow ci raccontano una storia diversa - più articolata e ricca di chiaroscuri - dell'evoluzione sociale dell'Homo sapiens. Una storia illuminante e attendibile, dalla quale ripartire per provare a immaginare un futuro diverso.
L'AI ha la capacità di processare informazioni alla velocità della luce e rimanere concentrata senza distrazioni su ciò che deve fare. L'AI vede nel futuro, può prevedere effetti e conseguenze e osservare negli angoli più bui del nostro mondo fisico e virtuale. L'AI impara da sola, ed è di gran lunga più intelligente degli esseri umani nel compiere azioni specifiche come giocare a scacchi, guidare una macchina, monitorare sistemi di sicurezza. Le macchine parlano già tra loro in modi per noi incomprensibili e molto presto arriverà il momento in cui non si tratterà più di gestire un milione di macchine smart, ma un'unica intelligenza non-biologica, talmente superiore alla nostra che non saremo più in grado di prevedere come si comporterà. La storia della tecnologia ci mostra che il suo progresso non è lineare, ma esponenziale: nel Ventunesimo secolo vivremo l'equivalente di ventimila anni di progresso, se continuerà a svilupparsi al ritmo di oggi. È per questo che Mo Gawdat, con un'esperienza trentennale in grandi aziende tech come Microsoft e Google, che lo ha portato anche alla direzione del mitologico laboratorio di innovazione Google [X], desidera inserirsi nel dibattito sull'intelligenza artificiale con questo libro, in cui apre una strada illuminante: per evitare che l'AI faccia del male, ma soprattutto perché ci aiuti a fare il bene, dovremmo dotarla di consapevolezza di sé, di emozioni e di etica. D'altronde le emozioni non sono una delle modalità di intelligenza più evoluta che noi umani abbiamo a disposizione? Un libro di straordinaria attualità, che naviga uno dei temi più importanti del prossimo secolo senza allarmismi ingiustificati o ottimismi eccessivi, raccontandoci l'avventura del progresso umano dal punto di vista di chi lo sta vivendo in prima persona.
C'è un passero coraggioso, che fin dal primo giorno di vita vuole scoprire il mondo che lo circonda, scappa dal nido, si perde, prova e sbaglia, sbaglia e prova e, a un certo punto, si scopre una vocazione inaspettata: quella di aiutare i suoi compagni ad affrontare quanto di brutto incontrano nel corso della loro vita. Un passero chiamato Cipì, protagonista di una storia scritta da Mario Lodi e i suoi bambini della scuola elementare di Vho di Piadena, alla fine degli anni Cinquanta. Un testo che inaspettatamente diventerà uno dei classici più letti nella storia della letteratura italiana per l'infanzia. Un piccolo libro che per la prima volta dà forma alla voce di chi non è mai stato ascoltato da nessuno, cioè i bambini, dentro la scuola. Un atto politico che fa da modello, tra gli altri, a don Milani. Dietro Cipì c'è la riflessione di una generazione di maestri su Antonio Gramsci e John Dewey, ma anche su Giovanni Gentile e la tradizione idealistica, c'è il lavoro culturale di Gianni Bosio e la sua convinzione che debba essere annullato il distacco fra chi produce la cultura e chi la 'consuma'. Cipì racconta la storia di una pratica che ha cambiato dall'interno la scuola italiana, prima del Sessantotto, più delle riforme: quella della didattica democratica.
Obiettivo del nostro tempo può essere una mera coesistenza? Se la risposta è no, se pensiamo non soltanto di coabitare gli uni accanto agli altri con il rischio di scivolare dall'indifferenza al respingimento (e oltre), se riteniamo essenziale coinvolgerci in progetti di vita condivisi, occorre che gli altri non siano soltanto 'altri', ma che noi e loro siamo - e ci rappresentiamo - 'simili'. Dai filosofi dell'antichità a quelli della modernità, da momenti significativi del pensiero scientifico ai modi in cui in altre società sono concepite le persone, ciò che viene fatta emergere è una teoria delle somiglianze, che - prima di ogni divisione - induce a cogliere legami e intrecci non solo tra le cose, ma entro le cose. In questo modo, insieme all'identità, viene meno anche il concetto di individuo. Come già in biologia, al suo posto troviamo il 'condividuo', un soggetto che, oltre a condividere con altri somiglianze e differenze, è esso stesso espressione di una vera e propria simbiosi interna, a partire dalla quale dovrebbe risultare più facile pensare alla convivenza con gli altri.