In cerca di petrolio e materie prime per nutrire un'espansione inarrestabile, Pechino si è lanciata alla conquista dell'Africa, che attendeva da troppo tempo una rinascita postcoloniale. E per i cinquecentomila cinesi che vi si sono riversati il continente nero è la promessa di un Far West del ventunesimo secolo. Alcuni hanno già fatto fortuna, altri vendono ancora paccottiglia ai bordi delle strade infuocate dei paesi più poveri del mondo. Per gli africani è forse l'evento più importante dei loro quarant'anni d'indipendenza. I cinesi non assomigliano agli ex coloni. Seducono i popoli perché costruiscono strade, dighe e ospedali, e i dittatori perché non parlano di democrazia o trasparenza. Lungo le ferrovie dell'Angola, nelle foreste del Congo e nei karaoke in Nigeria, Serge Michel e Michel Beuret, insieme al fotografo Paolo Woods, hanno percorso quindici paesi sulle tracce dei cinesi arrivati in Africa e di un nuovo mondo abitato da imprenditori pionieri e lavoratori sfruttati, da progresso e contraddizioni. Dalle campagne impoverite nel cuore della Cina alle poltrone in cuoio dei ministri africani, gli autori ci raccontano l'avventura dei cinesi partiti per costruire, produrre e investire in una terra che per l'Occidente è ormai condannata a ricevere solo aiuti umanitari.
In un mondo dagli equilibri stravolti e diviso non più tra Oriente e Occidente o tra Nord e Sud, ma tra paesi dominati dal risentimento e paesi dominati dalla paura, è necessario riprendere in mano la riflessione sulla possibile convivenza con il diverso: l'altro, che provenendo da una cultura differente finiamo per classificare semplicemente come "barbaro". L'Europa, in particolare, oggi preda della paura nei confronti dell'islam, rischia di reagire in modo violento, provocando un duplice paradosso: da una parte "la paura dei barbari rischia di trasformare noi stessi in barbari"; dall'altra "rende il nostro avversario più forte e noi più deboli". Attraverso una riflessione che ripercorre la storia della cultura europea, Tzvetan Todorov chiarisce le nozioni di barbarie e civiltà, di cultura e d'identità collettiva, per interpretare i conflitti che oppongono oggi i paesi occidentali e il resto del mondo. Una lezione magistrale di storia e di politica, una vera e propria cassetta degli attrezzi per decifrare la reale posta in gioco del nostro tempo.
In un'Internet di massa, trovare ciò di cui si ha bisogno è sempre più difficile, ma ancor più difficile è valutarne l'attendibilità. È il prodotto dell'ideologia del Web 2.0 - quello di blog e social network - che preconizza la scomparsa degli intermediari dell'informazione, dai giornalisti alle testate di prestigio, dai bibliotecari agli editori, presto sostituiti dalla swarm intelligence, l'intelligenza delle folle: chiunque può e deve essere autore ed editore di se stesso. Il 'mondo Web 2.0', dove nessuno è tenuto a identificarsi e chiunque può diffondere notizie senza assumersene la responsabilità, realizza davvero un sogno egualitario, o piuttosto un regno del caos e della deriva informativa?
Riceviamo e volentieri pubblichiamo dall'autore:
"I giovani italiani fuggono. A migliaia. Da qualche tempo la fuga comincia persino in università: Almalaurea stima che siano 40mila quelli emigrati a cercare miglior fortuna nei chiostri accademici stranieri, forse per scappare da uno dei Paesi che meno investe (dati Ocse) nella formazione superiore. Un Paese che investirà ancor meno in futuro, se certi tagli dell’attuale Governo si tradurranno in realtà.
Meno quantificabile invece -ma sotto gli occhi di tutti- il fenomeno dell’emigrazione dei giovani professionisti dal Belpaese.
Partono ogni anno a migliaia. Non si tratta solo di ricercatori. Ci sono anche uomini d’impresa, architetti, avvocati, ingegneri, musicisti, giornalisti, medici… e chi più ne ha più ne metta. Scappano da un Paese che non è Europa, fuggono da un sistema che non privilegia abbastanza il merito e le competenze, ma preferisce puntare su raccomandazioni e cooptazioni. Non è un caso se il canale “relazionale”, secondo diversi sondaggi, risulta ancora quello vincente, in Italia. E la selezione per merito? Forse troppo “europea” per un microcosmo provinciale quale è quello del Belpaese. I giovani ne risentono: secondo il Cnel, in Italia solo il 6,9% dei dirigenti, il 12,3% dei quadri, il 15% degli imprenditori e il 22% dei professionisti sono “under 35”. Un “under 30” guadagna in media 22mila euro l’anno, quasi ottomila in meno rispetto a chi ha tra i 50 e i 60 anni. L’11,9% dei medici ha meno di 35 anni, così il 7,4% dei docenti universitari. 63 giovani lavoratori su 100 ricevono ancora un aiuto economico dai genitori.
Chi non ha tempo e voglia di mettersi in fila, di aspettare l’occasione professionale della vita una volta varcata la “giovane” età di 45 anni, compra un biglietto e se ne va: invia un certo numero di curriculum, ottiene (che novità!) un certo numero di risposte, affronta tot. colloqui e selezioni, conclusi i quali ottiene il sospirato lavoro, adeguato alle sue competenze e alle sue aspettative retributive. Questa è Europa. Questo avviene nel mondo civilizzato.
Intanto, in Italia imperano i lavori sempre più precari e malpagati, le file infinite per ottenere un posto di responsabilità, le umiliazioni subite -vedendosi sorpassare a destra- da raccomandati, cooptati ed arrivisti sociali. Tutto ciò costituisce la rappresentazione più bieca del “terzo mondo” italiano. Che impone ai suoi giovani una scelta: o accettare la frustrazione continua, quotidiana e senza speranza, o emigrare.
Anche per questo i giovani di talento sono sempre più in movimento: hanno abbattuto ormai da tempo il concetto di “frontiera”. Scappano, nella maggior parte dei casi per non tornare più. “It’s in my backyard and in your backyard”: non è solo un problema di ricercatori “scienziati pazzi” e delle loro famiglie, ancora dubbiose sulla strada intrapresa dal proprio figlio o figlia.
Riguarda anche tuo figlio, lo stesso che tra mille sacrifici hai fatto studiare cinque anni in università, facendogli seguire un indirizzo che credevi (per l’appunto, credevi…) gli potesse garantire un futuro. Ma ora scopri che il suo 110 e lode non basta.
E’ un’emergenza nazionale: non è un Paese per giovani, si dice spesso. Ed è maledettamente vero.
Il libro “Fuga dei Talenti” (edizioni San Paolo) e il blog (http://fugadeitalenti.wordpress.com) denunciano questa situazione ormai inaccettabile, attraverso le storie personali di 27 giovani che hanno lasciato il Paese più gerontocratico e immeritocratico dell’Europa occidentale."
Sergio Nava
«La situazione attuale è equivalente al fatto che tre delle nostre maggiori università lavorano solo per formare competenze che vengono poi utilizzate esclusivamente da Paesi stranieri».(Rapporto Italiani nel Mondo 2006). «Il nostro è un sistema interamente basato sullo scambio di potere. Un sistema dal quale i giovani sono tagliati fuori, perché non hanno nulla da offrire, al di fuori del proprio talento». (Oscar Bianchi, musicista e compositore italiano,33 anni,emigrato a New York). Mal di merito(Giovanni Floris,2007) vi ha insegnato che,in Italia,i migliori finiscono spesso dietro la porta.Passano – quasi solamente – i raccomandati e i “figli di”. Meritocrazia(Roger Abravanel,2008) ve ne ha scientificamente dimostrato il perché. Mediocri (Antonello Caporale, 2008) ha scoperto che esiste persino una formula matematica in grado di escludere i migliori dalle leve di comando. La fuga dei talenti vi spiega dove finiscono i nostri migliori cervelli e talenti, quelli che avrebbero potuto risollevare – per davvero – le sorti di questa nazione.Attraverso le storie di ventisette ricercatori, professori universitari, artisti, uomini d’impresa, architetti, ingegneri, medici, giornalisti, funzionari europei e avvocati (tutti finiti all’estero),La fuga dei talenti è un viaggio-denuncia nell’emigrazione dei giovani di talento, costretti a lasciare ogni anno e a migliaia il Paese più clientelare e immeritocratico dell’Europa occidentale.Un viaggio tra le “vittime collaterali” della “non meritocrazia” italiana. Un libro che qualsiasi giovane dovrebbe leggere,prima di decidere cosa fare da grande.E dove farlo.
AUTORI Sergio Nava,giornalista,classe 1975,lavora dal 1999 a Radio 24 e Il Sole 24 Ore,dove si occupa di notizie dall’estero,in particolare dall’Unione Europea.Per Radio 24ha condotto programmi radiofonici e coperto summit internazionali.Ha lavorato,come giornalista o portavoce,in Francia,Germania,Inghilterra e Irlanda.Ha pubblicato presso le Edizioni San Paolo:Veronica Guerin. Una giornalista in lotta contro il crimine(2003).
"La storia che leggerete in queste pagine è la storia di un orfano delle madrasse, un giovane, che non è esistito con il nome e il cognome che vi viene proposto, ma che esiste con decine di nomi e cognomi che, malgrado loro, condividono un passato che difficilmente viene a galla, perché molti di loro sono plagiati all'insegna del terrore per portare terrore nel mondo, nei modi più diversi, con il sacrificio delle loro vite, obbedendo a un movimento pseudo religioso, che non ha nulla a che vedere con la nobiltà e l'altezza dell'Islam. Questo racconto si snoda attraverso fatti e circostanze "reali" (alcuni dei quali datati diversamente dalla realtà per esigenze narrative), riportati prevalentemente dalla cronaca internazionale, ricercati, studiati, in alcuni casi vissuti personalmente, con lo scopo, di informare il lettore su un fenomeno che sta passando in silenzio, ma che ci riguarda molto da vicino e che impone a ogni europeo un'attenzione severa a ciò che sta muovendo nel mondo e nei Balcani in particolare. Fatti e eventi che richiamano alla mente dinamiche e cambiamenti, ritenuti, erroneamente, consegnati alla storia e che, al contrario, si stanno rivelando attuali e inquietanti, anche per l'indulgenza e indolenza con cui a volte li si considera". (Dalla prefazione dell'autore).
Nicola è un giovane studioso. Ha una laurea italiana e un dottorato americano. Tutto ciò che desidera è concentrarsi sulle sue ricerche, condividerle con altri studiosi, trasmettere ai più giovani ciò che ha imparato dai suoi maestri. Ma in Italia non è possibile. Perché l'università italiana è sempre meno il luogo della ricerca, dell'insegnamento, della trasmissione del sapere. Nell'università italiana non governano il merito e la competenza. Nell'università italiana governano i "Baroni": uomini di potere abituati a gestire l'Accademia come un giocattolo personale, a premiare la fedeltà anziché la libertà, a preferire un mediocre candidato "locale" a un ottimo candidato "esterno". In barba all'interesse degli studenti e anche all'interesse generale. Questo libro è un documento unico. È una denuncia e una confessione. Ma soprattutto è una storia vera: il racconto paradossale e a tratti kafkiano di dieci anni passati a barcamenarsi tra concorsi veri o fasulli, promesse fatte e non mantenute, vessazioni inutili, cose non dette o cose mandate a dire. Dove tutto conta tranne ciò che dovrebbe contare: l'originalità della ricerca, la dedizione all'insegnamento. Il lieto fine è purtroppo amaro. Perché Nicola diventa professore a Oxford, dove vince un concorso pur non avendo conoscenze. E l'Italia perde l'ennesimo "cervello", l'ennesimo studioso regalato a un paese che non ha speso nulla per formarlo ma che ne sa mettere a frutto doti e lavoro.
Nell'aprile del 2001 milioni di italiani hanno ricevuto un fotoromanzo elettorale, "Una storia italiana", dove Silvio Berlusconi presentava la storia della propria vita attraverso parole e immagini. Un album ricco di fotografie del Capo. Perché il creatore della neotelevisione ama così tanto le fotografie, perché ricorre alle immagini fisse per descrivere la propria persona? Questo libro racconta la vicenda del rapporto tra il tycoon televisivo e la fotografia a partire dagli anni Settanta, quando Berlusconi era un semisconosciuto imprenditore edile, sino ad arrivare alle sue ultime immagini: dalle pose all'Alain Delon degli anni Ottanta agli scatti che lo ritraggono nelle vesti di futuro capo di Stato del decennio successivo, dalle foto familiari a quelle elettorali. Il saggio descrive il modo in cui il magnate di Arcore ha usato, sia come imprenditore sia ai fini della sua strategia politica, il proprio corpo, e questo attraverso le foto ufficiali e non; ma ragiona anche sull'uso del corpo da parte dei politici postmoderni, e sulle similitudini tra il corpo di Mussolini e quello di Berlusconi. Dai trapianti di capelli alla bandana, dal ritocco fotografico alla chirurgia estetica, il corpo del Capo è diventato la metafora vivente della nostra stessa idea di corpo, della sua durata nel tempo, del suo valore e del suo sfruttamento economico.
Questo libro dà voce ad alcune donne (da Anna Maria Canopi alle educatrici della Casa Famiglia di S. Omobono, da Barbara Manfredini a Paola Ricci Sindoni) le cui narrazioni permettono di toccare molti nodi cruciali della condizione femminile: il rapporto della donna con se stessa e con il proprio corpo, il rapporto tra famiglia e lavoro, maternità e carriera, il mondo della politica e le professioni ritenute inconsuete fino a poco tempo fa per le donne, ma anche la volontà di far emergere i tratti originali della propria femminilità nella cultura, nella fede e nella propria interiorità.
"Uscito nel 1971, 'Una teoria della giustizia' di John Rawls può essere ormai considerato un classico della filosofia morale e politica contemporanea, da decenni al centro della discussione e della critica. Portando a un alto grado di generalizzazione e astrazione la tradizionale teoria del contratto sociale, Rawls propone una teoria della giustizia come equità che ha per oggetto i principi che modellano l'assetto fondamentale delle istituzioni della società. I principi di giustizia sono quelli che persone razionali sceglierebbero in una posizione iniziale di eguaglianza. In questa situazione ipotetica, nessuno conosce la propria posizione nella società, la propria sorte nella distribuzione, naturale e sociale, di doti e capacità. Deliberando dietro un 'velo di ignoranza', gli individui determinano i loro diritti e doveri, accordandosi sullo schema equo (giustificabile per tutte le parti) di distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale." (Salvatore Veca)
Emergenze climatiche e crisi ambientali, conflitti per l'energia e fondamentalismi religiosi, turbocapitalismo in panne ed eclissi degli idiomi minori: agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un "tempo che strapiomba", si aprono nuove difficili sfide, che stiamo affrontando inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all'etica, rischia di portarci verso l'autodistruzione. Sono riflessioni come queste ad angosciare oggi Andrea Zanzotto, maestro di coscienza, oltre che autore di versi fra i più importanti e profetici del Novecento. In queste conversazioni, frutto di una lunga amicizia e consuetudine, il poeta ripercorre con Marzio Breda la propria esperienza umana, culturale e creativa. Soprattutto, tratta alcuni temi chiave del nostro presente, quando è più che mai necessario riscoprire il passato per sondare il futuro: paesaggio e linguaggio, storia e memoria, fede e politica, eros e psicoanalisi...
Dal 1999 al 2008 Emanuele Trevi ha registrato un gran numero di conversazioni con Raffaele La Capria, "decano" degli scrittori italiani puntualmente riscoperto da nuove generazioni di critici e lettori. Ne è nata una sorta di diario e insieme di autobiografia che dalla Napoli degli anni Trenta giunge fino a noi oggi. Una Napoli che è stata fonte di ispirazione inesauribile, definita dall'autore stesso "metafora di un conflitto tra personaggio e uomo, tra un'idea di sé astrattamente compiuta e la fatale insufficienza di questo progetto di personalità". Stimolato da una particolare atmosfera di confidenza e amicizia con l'intervistatore, La Capria traccia un autoritratto pieno di luci e ombre, ripercorrendo i momenti cruciali della letteratura italiana del Novecento.
1962: un vecchio verbale di polizia viene ritrovato da Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano siciliano "L'Ora". Si tratta delle rivelazioni di un pentito mafioso, risalenti al 1936, che descrivono l'organigramma completo di Cosa Nostra. Un giornalista d'assalto come De Mauro non si lascia sfuggire l'occasione e pubblica il verbale sul giornale palermitano in tre puntate. Un documento scioccante e allo stesso tempo decisivo per le sorti di De Mauro, che oggi potrebbe costituire la giusta chiave per ristabilire i motivi della sua scomparsa, avvenuta il 16 settembre 1970 a Palermo. A processo in corso contro la cupola di Cosa Nostra, l'inchiesta di Francesco Viviano, inviato speciale di "Repubblica", fa a pezzi le tesi montate per un trentennio sulla morte di De Mauro: le indagini che il cronista fece sulla scomparsa del presidente dell'Eni Enrico Mattei, quella sul presunto traffico di stupefacenti e svariate altre ipotesi, poi rivelatesi veri e propri depistaggi. Dietro la morte di De Mauro ci sarebbero infatti il famigerato tentato golpe di Junio Valerio Borghese e la ricostruzione con troppi anni d'anticipo degli interessi che la mafia siciliana tesseva insieme a illustri personalità del mondo politico, nobiliare e imprenditoriale, che da Palermo portavano dritto dritto a Roma.