I "Principi metafisici della scienza della natura", comparsi nel 1786, costituiscono il tentativo kantiano di realizzare una nuova metafisica, destinata a fare da compendio sistematico alla "Critica della ragion pura". L'opera risponde infatti allo scopo di mostrare come i concetti intellettuali della metafisica vengano applicati al mondo fisico, ottenendo solo così un vero e proprio valore oggettivo. Nello stesso tempo, essa fornisce i principi che stanno alla base della fisica matematica, gettando un ponte tra filosofia e scienza della natura di impostazione newtoniana.
La "Meteorologia" è una delle poche opere di Aristotele delle quali è l'autore stesso a darci il titolo fin dall'introduzione. Ma i temi trattati sono molto differenti dalla disciplina che oggi indichiamo con lo stesso termine. Troviamo lo studio dei terremoti, delle comete, delle inondazioni, della Via Lattea, delle mutazioni geologiche, dell'arcobaleno; non solo quindi delle piogge, dei venti e dei mutamenti climatici. L'ampiezza dei fenomeni indagati in quest'opera spiega la sua grande diffusione nelle epoche successive, superiore anche al "Timeo" di Platone.
Jacques Derrida si interroga su una certa internazionalizzazione in corso della filosofia, del suo insegnamento come delle sue pratiche, ricerche o esperienze. Quali sono a questo riguardo le responsabilità di ogni filosofo, attraverso la sua lingua, la sua tradizione, la sua nazionalità? Appare indispensabile una riflessione sulla filosofia, e in particolar modo sulla filosofia del diritto che fonda istituzioni quali l'ONU, l'UNESCO, etc. Derrida inscrive le sue riflessioni preliminari sotto il segno di un testo celebre e singolarmente "attuale" di Kant (Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784), che richiede al contempo il rispetto, la rilettura e alcune domande.
Il volume raccoglie in sé quattro libri. Il nucleo centrale è costituito dalla prima traduzione italiana di un'opera teoretica di Niemeyer Findlay, ben noto agli studiosi per le sue interpretazioni di Platone, Hegel e Meinong, ma poco conosciuto nella sua filosofia originale di stampo neoplatonico. Si tratta delle Gifford Lectures, le lezioni che egli tenne all'università di St. Andrews, in Scozia, raccolte in due parti: "The Discipline of the Cave" e "The Trascendence of the Cave". Fa da introduzione a questi due libri una vera e propria monografia completa della bibliografia di tutte le sue opere. Infine, un'appendice presenta un'ampia ricognizione fra le origini, le integrazioni e i testi relativi al paragone platonico della caverna.
Il poema filosofico di Parmenide "Sulla natura" si impone come un punto di riferimento irrinunciabile se si vuole intendere il pensiero occidentale. Da questo testo dipendono, infatti, non solo i filosofi immediatamente successivi, ma perfino Platone e Aristotele. Platone ha addirittura presentato un punto chiave della sua filosofia come una sorta di "parricidio di Parmenide", riconoscendo dunque in lui, in qualche modo, un suo padre spirituale. Di fatto la stessa cosa ha fatto Aristotele nella elaborazione della sua teoria dell'essere. Del poema ci è pervenuto per intero soltanto il prologo, quasi tutta la prima parte, scarsi frammenti della seconda. Ma il pensiero del poema è ricostruibile pressoché per intero.
Imre Toth ha lungamente investigato origini e genealogia della controversia sorta intorno alla rivoluzione non euclidea. Abbandonando gli usuali criteri di sistematicità, ha creato un testo filosofico, un immaginario dialogo che coinvolge acronicamente alcune centinaia di "personaggi": autori noti al grande pubblico: da Platone a Husserl, passando per Tommaso d'Aquino, Leibniz, Kant; da Dante a Tristan Tzara, e con loro Thomas Mann, George Orwell e Apollinaire, e poi Descartes, Russell, e naturalmente Gauss, Saccheri, Vico e Croce e altri ancora.
Anneo Cornuto, stoico di età neroniana con variegati interessi letterari e filosofici, fu il maestro dei poeti Lucano e Persio: quest'ultimo, alla morte, gli lasciò in eredità la sua biblioteca, con circa settecento libri di Crisippo. L'unica opera dell'autore non frammentaria pervenutaci è il Compendio di teologia greca, un manuale diretto a un giovane allievo e incentrato sull'interpretazione allegorico-etimologica dei miti greci relativi agli dèi e dei loro nomi ed epiteti.
Con il Filottete, per la prima volta rappresentato ad Atene nel 409 a.c. la Fondazione Valla da inizio all'edizione completa delle tragedie e dei frammenti di Sofocle. I testi critici delle tragedie sono a cura di Guido Avezzù e di Andrea Tessier, le traduzioni di Giovanni Cerri e di Bruno Gentili, i commenti di otto studiosi: statunitensi, inglesi e italiani. Quando la scena si apre, Odissee e Neottolemo sono appena giunti a Lemno. Filottete vive in una grotta, dove intravediamo un giaciglio di foglie, una coppa di legno malamente sbozzata, tracce di un falò, e i suoi poveri stracci stesi al suolo, "sporchi di brutta cancrena". Dieci anni prima, i Greci l'hanno abbandonato lì, per la sua piaga purulenta al piede. Nessuno è più solo e sventurato di lui: nessuno così nobile, innocente e ingenuo, sebbene abbia conosciuto tutti i mali della vita. Egli ha commesso una colpa, violando il territorio sacro del santuario di Crise: la dea l'ha punito col morso di un serpente; ma non sapremo mai se la sua sia davvero una colpa. Il dolore di Filottete è intollerabile:
mai incontriamo, nella tragedia greca, il divino che agisce così tremendamente su un corpo umano.
Odissee sa che Troia non può cadere senza l'arco di Filottete, e vuole ingannare l'eroe col soccorso di Neottolemo. L'inganno viene deluso: Neottolemo ricorda il padre, Achille, e rifiuta l'insidia e la corruzione di Odisseo. Alla fine della tragedia, Eracle discende sulla scena: in apparenza, è un lieto fine; Filottete è salvo, sebbene Sofocle non ci spieghi i misteri della provvidenza divina e quelli del dolore umano.
Nel Filottete, Sofocle è un maestro di ironia tragica. Dovunque, egli rivela la traccia dell'invisibile e del divino, che penetra tutte le cose; e subito dopo ne mostra la natura inesplicabile. I segni divini - se pur sono tali - sono deboli, incerti, oscuri: gli avvenimenti si succedono per il gioco del caso o di una finalità che non appare mai evidente. Sebbene gli dei siano possenti, sono visibili solo nel loro mistero. I personaggi umani vivono chiusi nella sfera dell'apparenza: anche quando la verità splende loro sul volto, non la vedono o la scambiano per una illusione.
Nel discorso pronunciato a Francoforte in occasione del Premio Adorno, il 22 settembre 2001, Jacques Derrida prese spunto da un sogno che Walter Benjamin raccontò per lettera alla moglie di Adorno per affrontare l'antico problema dei rapporti tra il sogno e la veglia: è possibile parlare del sogno senza sottomettersi al dominio della veglia? Muovendo da questo problema gnoseologico Derrida si avvicina a questioni di scottante attualità politica: l'estraneità dell'esperienza onirica diventa quella dello straniero, e riconoscerne l'irriducibilità significa garantire i diritti dell'altro, compito fondamentale di un nuovo illuminismo che ammetta la possibilità di un discorso filosofico "marginale", "minoritario" e "sognatore".
L'opera costituisce il primo vero tentativo di Kant di affrontare la problematica morale anticipando l'opera pubblicata tre anni più tardi con il titolo "Critica della ragion pratica". Il curatore dell'opera, Vittorio Mathieu, nell'Introduzione tematizza i fondamenti del primo pensiero morale kantiano. Le Note al testo sono brevi ed essenziali e rispondono all'esigenza di chiarire i passi più controversi e difficili. La bibliografia contiene, oltre alle maggiori edizioni e ai più importanti studi sul tema, anche una storiografia dell'autore specifica sul problema etico-religioso che abbraccia più di tre secoli.