«È facile per una donna essere valorosa. Il salto mortale per tentare di mettere insieme casa, lavoro (sempre se si riesce a trovarne uno), magari figli e cure sparse a parenti vari... già dovrebbe far scattare una decorazione al merito. Il piccolo inconveniente da secoli è che non c'è nessun podio o inno pronto ad accogliere queste vincitrici, né tantomeno una medaglia da appuntar loro al petto. È un annoso argomento che studiose molto più autorevoli di me hanno già posto all'attenzione mondiale: per semplificare la pratica potremmo dire che, mentre l'Uomo Invisibile è diventato una star cinematografica, le donne spesso sono invisibili e rimangono tali. Eppure le esponenti di quella che una volta veniva chiamata 'l'altra metà del cielo' hanno fatto la storia, contribuendo all'evoluzione dell'umanità in tutti i campi possibili: dall'arte alla letteratura, dalla scienza alla politica, non trascurando la cibernetica e la fisica quantistica; ma per uno strano sortilegio raramente vengono ricordate, con difficoltà appaiono nei libri di storia e tantomeno sono riconosciute come maestre e pioniere: in sintesi, si fa fatica a intestar loro persino una strada periferica». Partendo da questa amara ma indiscutibile premessa, Serena Dandini decide di raccontare le vite di trentaquattro donne, intraprendenti, controcorrente, spesso perseguitate, a volte incomprese ma forti e generose, sempre pronte a lottare per raggiungere traguardi che sembravano inarrivabili, se non addirittura impensabili. Così, una accanto all'altra, introdotte dai collages di Andrea Pistacchi, scorrono le vite di Ilaria Alpi, la giornalista uccisa mentre indagava su scomode verità, Kathrine Switzer, la prima donna a correre la maratona di Boston, Ipazia, che nel IV secolo, contro i divieti ecclesiastici, osò scrutare il cielo per rivelare il movimento dei pianeti, Olympe de Gouges, autrice nel 1791 della rivoluzionaria «Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina», fino a Betty Boop che, pur essendo solo una donnina di carta, ha dovuto comunque subire una censura per via della propria esuberanza. In attesa di un riconoscimento ufficiale con tanto di busti marmorei e lapidi a eterna memoria, l'autrice ha affiancato alle protagoniste del suo libro altrettante rose che lungimiranti vivaisti hanno creato per queste donne valorose.
Scrivere un romanzo ispirato alla biografia di Gioacchino Rossini, nell'anno del 150esimo dalla sua morte, significa complicarsi meravigliosamente la vita. Perché la prima domanda che ci si pone di fronte alla pagina bianca è: cosa si può scrivere di un personaggio di cui si è già detto tutto? Che appartiene all'immaginario collettivo, non solo dei melomani? È stato, probabilmente, l'artista più famoso e osannato di ogni tempo, e già nel corso della sua esistenza. Per lui venne coniato il termine Rossinimania, riferito al periodo in cui si esibì a Vienna. Ogni angolo risuonava della sua musica, le cartoline con la sua immagine andavano a ruba, gli uomini erano vestiti alla Rossini, le donne sospiravano al suo passaggio, i ristoranti avevano piatti a lui dedicati. Una simile smania pervase le altre città in cui visse e lavorò. Tutti volevano frequentare quel musicista gioviale, dalla scrittura facile - compose il Barbiere di Siviglia in meno di due settimane - la battuta pronta, amante della buona tavola. E così viene ricordato ancor oggi: un ilare opportunista, un bon vivant. Ma, di fatto, smise di scrivere opere a 37 anni, dopo il meraviglioso Guglielmo Tell, se si eccettuano alcuni componimenti di musica sacra e strumentale. Cosa portò il musicista più famoso del mondo al silenzio?...
Il 19 maggio 2018, giorno delle attese nozze tra Meghan Markle e il principe Harry, secondogenito della mai dimenticata lady Diana, segna una data storica per la casa reale inglese. Perché in un colpo solo crollano tutti i taciti requisiti da tempo immemore richiesti a una sposa reale: vergine, aristocratica, protestante, anglosassone e bianca. Con una madre discendente di schiavi e un matrimonio fallito alle spalle, Meghan è anche la prima americana divorziata di colore a diventare duchessa reale. Una storia d'amore che fa sognare, pronta a superare in interesse quella tra Kate Middleton e l'erede al trono William, fratello di Harry. Dall'appuntamento al buio, organizzato da un'amica, il loro rapporto non ha fatto che crescere, e la curiosità intorno all'attrice hollywoodiana della serie Suits è esplosa. Le sue origini, i suoi segreti, le sue battaglie antirazziste e contro le differenze di genere, la sua ambizione e il desiderio coltivato sin da piccola di diventare la nuova Lady D, c'è molto da indagare e scoprire sulla giovane Meghan e la sua famiglia, così anomala per la corte inglese. Andrew Morton traccia la prima biografia completa di Meghan Markle, fino a risalire alle origini della sua famiglia. Basandosi su interviste esclusive a suoi amici, conoscenti stretti e famigliari e su un accurato lavoro di indagine, Morton consegna un ritratto totalmente inedito della vera Meghan e della sua relazione con Harry, e svela l'enorme impatto che la sua presenza avrà sulla dinastia Windsor.
Una donna antica che anticipa il futuro.
«Sono Giulia Agrippina Augusta e ho raggiunto il quarantesimo anno di età. Ho imparato molto da mia madre, ma disgrazie innumerevoli mi hanno indotto ad agire con meno testardaggine, imitando la diplomazia in cui mio padre eccelleva. L’arte più importante è quella che insegna a vivere. Si ottiene una vita di potere solo imparando a usare gli uomini come mezzi. Il fuoco che nel cuore arde, fatto di pulsioni e debolezze, va nascosto nel ghiaccio. Una passione genuflessa al rigore delle regole di corte mi ha recato ormai un dominio indiscusso, nonostante le resistenze di chi a me tutto deve: mio figlio Nerone.»
Quattro saggi inediti si affiancano in questo volume a uno studio sull'eredità dell'etica marxiana e al testo, ormai classico, sulla teoria dei bisogni. Una lettura del pensiero di Marx decisamente controcorrente che - analizzando il rapporto con la modernità, la giustizia, la liberazione dell'uomo, l'ebraismo, la cultura tedesca - sottolinea l'importanza filosofica del lavoro di Marx, la cui attualità non è scalfita dal superamento delle sue teorie economiche o sociologiche ed è ancora oggi indispensabile per comprendere i caratteri fondamentali della nostra modernità e molti problemi cruciali del nostro tempo. «Karl Marx non si è mai identificato con il suo essere un tedesco o un ebreo, né con il suo essere un membro del proletariato internazionale o un marxista. È ben nota la sua affermazione: 'lo non sono un marxista, sono Karl Marx'. Quindi quando parlo di Marx come filosofo ebreo-tedesco ho in mente l'identità delle sue creazioni, della sua opera, della sua filosofia, non la sua identità personale».
In Mauritania da secoli convivono berberi e neri. I primi sono la minoranza dei quattro milioni di abitanti del Paese, i secondi sono oltre due terzi della popolazione. Nonostante la schiavitù sia stata abolita nel 1981, attualmente circa trecentomila neri sono schiavi dei berberi. Si tratta soprattutto di donne e bambini: costretti a un lavoro massacrante, non pagato, sono oggetto di violenze e soprusi, non possono studiare né decidere di andarsene. Le autorità politiche e religiose locali tendono a schierarsi dalla parte dei berberi. Nel 2008 Biram Dah Abeid, nero nato libero, ha fondato l'«Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista» (Ira), movimento nonviolento contro lo schiavismo in Mauritania. Imprigionato più volte, nel 2014 si è candidato alle elezioni presidenziali ed è deciso a ripresentarsi nel 2019. Inserito dal Time tra le cento persone più influenti del 2017, nella primavera dello stesso anno è stato intervistato dall'autrice, che nel libro racconta anche la sua storia.
"Non mi ero reso conto, prima di conoscere Giovanna, di quanta umanità, dolcezza e profonda civiltà ci fossero in un'attività di assistenza ai malati terminali e alle loro famiglie. Ne comprendevo l'importanza certo, ma non la carica di rivoluzionaria solidarietà. Un dono di affetto autentico, forse perché svincolato da una visione funzionale e materiale della vita. Un dono che può sembrare addirittura inutile, perché non c'è speranza. Invece, nel rispetto della dignità della persona, esalta i sentimenti, i legami familiari e d'amicizia. Dà senso a un'intera vita, favorisce la trasmissione di valori e sentimenti. Ridimensiona la paura della morte, ormai esorcizzata ed estrapolata in una società che stenta a ritenerla un fatto naturale, che non l'accetta, non la guarda, non pensa che vi si debba preparare. Giovanna me lo aveva fatto capire con il suo esempio quotidiano, il suo pensiero costantemente rivolto alle persone che soffrono e non debbono essere lasciate mai sole, vittime di un egoismo contemporaneo che riduce tutto a una dimensione individuale." (dalla prefazione di Ferruccio de Bortoli)
«Spero di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell'opinione pubblica europea» confida Malaparte all'amico Halévy nel settembre del 1931. Il suo intento era, in realtà, ancora più audace: mostrare Lenin come appare agli occhi dei «Russi intelligenti». O, se vogliamo, analizzare un fenomeno entro la sua stessa logica, come già aveva fatto nell'"Intelligenza di Lenin" per spiegare il bolscevismo. E il nuovo libro, uscito a Parigi nel 1932, avrà l'effetto di una scossa elettrica. Perché in questo romanzo-ritratto Lenin non è affatto il Gengis Khan proletario sbucato dal fondo dell'Asia per conquistare l'Europa, raffigurazione ideale per chi voglia ricacciarlo al di là dei confini dello «spirito borghese»: semmai, un piccolo borghese egli stesso. Di più: freddo e riflessivo, sedentario e burocratico, animato da un'immaginazione meticolosa e da una «crudeltà platonica», ostile a ogni romanticismo terrorista e incapace di agire all'infuori della teoria, a suo agio più nelle discussioni politiche e nelle faide personali che non nel confronto con la realtà, Lenin non è che un europeo medio, un buonuomo violento e timido, un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un fanatico e un opportunista, per il quale la rivoluzione è una questione interna di partito, il risultato di ossessivi calcoli. Non a caso quando, giunto al potere, non potrà più attendere gli eventi e osservarli da lontano, e - proprio lui, dotato di un vivo «senso dell'irrealtà» - dovrà fare i conti con la realtà, si risolverà a inventarla, a crearla, imponendola «a se stesso, ai suoi collaboratori, al popolo di Russia, alla rivoluzione proletaria, all'avvenire dell'Europa».
Hanna Lévy-Hass scrisse il suo diario a Bergen-Belsen quando ancora sperava in un mondo migliore. «Si scrivono così tanti libri», diceva spesso, «se non si ha nulla di veramente eccezionale da dire, non ha senso scrivere». Il suo scrivere aveva un senso – documentare e ricordare avevano un ruolo nella costruzione di un mondo «che sarà bello». Il suo successivo silenzio fu una costante ammissione che il mondo del dopoguerra non era affatto nuovo. Hanna, di famiglia ebrea sefardita, nata e cresciuta a Sarajevo nella ex Jugoslavia (oggi Bosnia-Erzegovina), fu internata nel campo di Bergen-Belsen nel 1944 e, per una serie di coincidenze, fu tra le poche persone a sopravvivere. Il suo diario sulla prigionia, che venne pubblicato per la prima volta in Italia solo all’inizio degli anni Settanta, è una testimonianza unica e perciò ancor più preziosa sulle fasi finali del sistema concentrazionario nazista.
Nella primavera del 1962 la famiglia Ichino riceve la visita dell'amico don Milani. Indicando i libri e il benessere che si respira in quel salotto milanese, il priore si rivolge a Pietro, tredicenne: «Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dal giorno in cui sarai maggiorenne, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato». Marchiato a fuoco da questo monito, che pur nella sua radicalità racchiude in sé molti altri insegnamenti familiari, il protagonista di queste pagine diventa sindacalista, professore e parlamentare impegnato sul fronte del diritto del lavoro nell'epoca drammatica della fine delle ideologie, del terrorismo rosso e poi della sua nuova fiammata negli anni Novanta. In questo libro insolito, al confine tra un racconto intimo e il grande affresco di un'epoca, le vicende pubbliche si intrecciano alla storia di una famiglia italiana che raccoglie in sé l'eredità ebraica e un cattolicesimo dalla forte vocazione sociale e che ha eletto la Versilia a proprio luogo dello spirito: è così che - dalla Grande Guerra fino alla fine del millennio, dalle persecuzioni razziali al Concilio Vaticano II, dal '68 agli anni di piombo - la "casa nella pineta" diventa il crocevia di vite vissute con singolare intensità.
La storia della sinistra italiana è anche una storia di famiglia. È il caso della famiglia Foa, dai nonni al padre Vittorio e alla madre Lisa, fino ai figli Anna, Renzo e Bettina. Una famiglia in cui la passione politica e l'impegno civile si sono intrecciati così fortemente con lo svolgimento della vita quotidiana da educare e governare anche le relazioni, i sentimenti. Si aprono vecchie scatole con dentro foto e carte di famiglia: un trasloco può far riemergere il passato di tante vite. È quello che è successo ad Anna Foa. Storie di bisnonni, prozii e cugini, fino a quelle dei genitori, Vittorio e Lisa, ricordi a lungo accantonati. Avvocati mazziniani e 'internazionalisti', 'suffragette' e rabbini lasciano il passo ai primi socialisti, agli antifascisti di Giustizia e Libertà, ai comunisti. Come sfogliando un vecchio album, vediamo rievocati il fascismo, il carcere, la Resistenza, la Shoah, il dopoguerra, il 1968, gli anni di piombo, l'impegno di Lisa in Lotta Continua, il suo anticonformismo, la lunga saggia vecchiaia di Vittorio. Come in ogni storia di famiglia, le case sono centrali: le stanze delle case di vacanza, quelle dei nonni disperse per la Penisola, quelle dei genitori frequentate da amici d'eccezione. E poi il racconto dei luoghi e le città: Torino, la Valle d'Aosta, Roma, ma anche la Spagna della guerra civile, il Vietnam, l'Africa, la Cina. Quella che si viene a comporre, pagina dopo pagina, è una storia 'intima' della sinistra italiana. I libri che si leggevano, le percezioni politiche, il modo in cui il mondo esterno veniva filtrato da quello familiare. È anche la storia della fine di un'illusione, quella del comunismo, della sua lenta fine. Una storia familiare e autobiografica aperta a tutte quelle remissioni della memoria e a quelle percezioni personali che la rendono dichiaratamente parziale e non definitiva. Un esperimento storiografico condotto "sul vivo" per riscoprire le passioni del Novecento.
Quando cinque anni fa gli hanno dato quattro mesi di vita, Leonardo ha preso una decisione: «Non se ne parla neanche, ho troppi sogni in corso, troppe cose da fare». Ha chiesto scusa alla mamma perché si era ammalato di un male inguaribile, ha festeggiato il capodanno a novembre per portarsi avanti, si è tirato su le maniche della tuta e si è dato da fare per rendere il tempo che gli restava il migliore possibile. Da buon maratoneta, ha detto al suo cancro «io continuo a camminare, vedi un po' se riesci a starmi dietro». E il suo "ospite", così lo chiama lui, ha dovuto rassegnarsi e seguirlo fino a New York, correndo con lui ben due maratone. Quest'anno ha battuto il suo record concludendo il percorso in 4 ore e 6 minuti e dedicando l'impresa a tutti i malati di cancro. Da vero imprenditore di se stesso, ha pensato di costruirsi una nuova vita dal momento che quella di prima faceva acqua da tutte le parti. Da matto autentico, sta muovendo mari e monti per rendere la vita dei malati di cancro una vita di buona qualità e non un'esistenza che susciti compassione. Tutto in queste pagine è una testimonianza che Leonardo lascia per farci comprendere il suo punto di vista: malato di cancro non vuol dire arreso, credere non significa illudersi, essere consapevole non vuol dire consegnarsi all'ospite il giorno della diagnosi. E ogni segno che Leonardo traccia, si compone in un disegno sorprendente, dove il cancro diventa una presenza con cui contrattare lo spazio vitale, un suggeritore di nuove soluzioni, un'occasione per camminare verso nuove scelte, nuovi equilibri.