Nel 1940 la Francia subisce l'umiliazione della sconfitta, l'invasione delle truppe di Hitler, la divisione del Paese in due parti, l'imposizione delle leggi e dei provvedimenti razzisti concepiti a Berlino. Jean Khaieté è un giovane ebreo francese, figlio di una famiglia di emigrati sfuggiti ai pogrom della Russia zarista. Egli decide di rischiare la vita per unirsi, fuori dai confini del Paese, alle forze della "Francia Libera", il movimento di resistenza e riscatto ideato e guidato dal generale De Gaulle. L'iniziativa del giovane perseguitato lo porterà a una fuga spericolata in Spagna, che gli salverà la vita e gli permetterà di dare il suo contributo alla vittoria contro il nazifascismo. Una storia che deve essere raccontata soprattutto perché smentisce uno dei più odiosi stereotipi contro gli ebrei: l'accusa secolare di non avere alcun senso di vera appartenenza a una "patria", sentendosi piuttosto parte di una non meglio definita comunità internazionale... per di più sospettabile di chissà quali complotti ai danni dell'umanità. Uno degli ultimi testimoni viventi di quell'epoca di decisioni definitive ci accompagna nel cuore della reazione civile e nobile a ogni forma di antisemitismo e di razzismo.
Sul finire del XVIII secolo una famiglia di commercianti calabresi si insedia a Palermo aprendo una modesta drogheria. Trascorsi alcuni decenni, diventa nel frattempo la protagonista assoluta della vita economica siciliana, costituisce insieme alla sua dirimpettaia genovese, la famiglia Rubattino, la più grande società di navigazione del Paese. Agli inizi del '900 il mito dei Florio raggiunge il suo culmine. L'architetto Basile progetta le loro sontuose dimore, il famoso mobilificio Ducrot arreda le loro navi. Grazie ai Florio Palermo diviene una delle capitali del Liberty: ma più ancora di uno stile di vita. Imparentati con i più bei nomi dell'aristocrazia siciliana, i pronipoti dei droghieri calabresi ricevono a casa re Vittorio Emanuele, il Kaiser, il fior fiore del Gotha internazionale, sono amici di D'Annunzio, Boldini, Leoncavallo, Enrico Caruso, di Robert Montesquiou, testimone immancabile nel tramonto della Belle Époque. È un "tramonto dorato" che vede dissolversi in breve tempo anche le fortune dei Florio: non solo, come vorrebbe una diffusa opinione, per la prodigalità e le minori capacità imprenditoriali degli ultimi discendenti della dinastia, ma soprattutto, se così si può dire, per una "colpa geografica". L'Italia si avvia a divenire un paese industriale, che non può avere due opposti poli di sviluppo. Così finisce l'età dei Florio, mentre alla Sicilia resta la speranza di un futuro post-industriale.
La storia dei Florio, prestigiosa famiglia siciliana del secondo Ottocento e dei primissimi anni del Novecento, con collegamenti con i più alti vertici della finanza e dell'industria internazionale e rapporti con regnanti di tutta Europa, è espressa molto bene dal sarcastico aforisma degli americani nei confronti di quelle famiglie di immigrati «che iniziarono in maniche di camicia e, nel corso di tre generazioni, si ritrovarono in maniche di camicia». È purtroppo così! Oggi il loro nome in Italia e all'estero è ricordato soltanto da una marca di liquori e da una corsa automobilistica su strada, la Targa Florio, tra le più antiche d'Europa. Ma per l'immaginario collettivo siciliano e meridionale in genere i Florio da tempo sono entrati nella leggenda e nel mito. Rappresentano gli uomini simbolo delle capacità imprenditoriali del Sud, i tempi nostalgicamente sempre rievocati in cui anche al sud fiorivano iniziative industriali vincenti. Allora, nella seconda metà dell'Ottocento, il nome Florio equivaleva nel campo della navigazione mercantile a quelli, nei decenni successivi, degli Agnelli nell'industria automobilistica o di Berlusconi nel settore televisivo. Ed era noto in Italia e all'estero, perché i loro cento piroscafi solcavano tutti i mari del mondo e i loro prodotti (vini e tonno in scatola) conquistavano i mercati italiani e stranieri. Cancila ricostruisce le vicende della famiglia Florio da storico, senza nessuna concessione agiografica né indulgenza regionalistica, ma con rigore scientifico e rifuggendo da interpretazioni romanzesche. E tuttavia, sebbene si avvalga di una ricchissima documentazione d'archivio, più che un'opera storica, la sua sembra la storia romanzata di una famiglia, una favola antica cui manca soltanto il lieto fine.
Diversamente da altri centri italiani Firenze, incarnazione della città "libera" e centro di fioritura della cultura e delle arti rinascimentali, non si mise mai nelle mani di un condottiero, finendo invece in quelle di una famiglia di semplici cittadini. A lungo nell'oscurità, sufficientemente abili per sopravvivere alle convulsioni di una città in preda a pericolosi disordini, i Medici unirono il loro destino a quello di Firenze, esercitando il potere con raffinatezza e violenza. Conflitti tra fazioni, corruzione, tumulti, assassinii, sentenze d'esilio politico e manipolazione del popolo: sono alcune dinamiche politiche nella Firenze medicea, tratteggiate con sapienza e rigore dall'autore, che ricostruisce una società complessa e affascinante, muovendo dal Duecento per giungere sino alla fine del XV secolo.
Parte integrante del Regno di Sicilia durante l'età normanna e sveva, il Regno di Napoli nasce come entità statale nel 1282 con Carlo i d'Angiò. Napoli diventa così capitale, finendo per incarnare da sola gli splendori e le miserie dell'intero Reame, fino alla sua caduta per mano di Garibaldi e dell'esercito sabaudo nel 1861. Questo libro cerca di fare luce su alcuni nodi fondamentali della storia di Napoli, ponendosi diversi interrogativi. È mai esistita, nonostante le tante dominazioni straniere, una nazione napoletana? La Repubblica partenopea ne rappresentò davvero la massima espressione civica e liberale o fu solo un movimento elitario e avulso dalla realtà sociale? Ferdinando iv di Borbone fu veramente un pessimo re? Un viaggio alla scoperta delle luci e delle ombre di Napoli: la cultura, l'arte, l'Illuminismo, le scoperte archeologiche; ma anche il collasso urbanistico e demografico, le sopravvivenze feudali, il brigantaggio, e la criminalità mafiosa.
"La linea d'ombra" indaga gli "oscuri" decenni che intercorrono fra il ritorno della corte pontificia a Roma dopo il periodo avignonese (1378) e la conclusione dello scisma, con il definitivo ingresso in città di Martino V Colonna (1420). Sempre percepito come "di transizione" fra Medioevo e Rinascimento, questo periodo turbolento e insicuro è però anche quello in cui la città di Roma ricostruisce il proprio ruolo e gli strumenti visivi e letterari che lo esplicitano e lo visualizzano, di volta in volta ritratta quale cumulo di rovine abitate da banditi e bestie selvagge, o come luogo di impareggiabile fascino e conservazione di memoria. Il volume include studi in più di un campo "tecnico": la scultura e i monumenti funerari, la pittura e i nomi degli artisti, la precoce attività nei monasteri, la città già meta di viaggio e di esplorazione dell'Antico per i grandi artisti del primo Rinascimento.
Gli antichi romani pensavano che, grazie alla qualità ideale del loro ordinamento giuridico, potessero mirare a realizzare una comunità umana universale. Anche i cristiani, avendo ricevuto un mandato da parte di Dio di riunire tutti gli uomini in un solo popolo, si trovavano con una missione universale in questo mondo. Come coordinare queste concorrenti pretese di universalità da parte dell’Impero e della Chiesa? In questo libro, il bizantinista Endre von Ivánka affronta questa domanda esaminando differenti concezioni di “impero” e di “popolo di Dio” in tre epoche storiche: la prima dall’ascesa dell’imperatore Augusto fino alla caduta dell’Impero d’Occidente nel 476; la seconda dall’affermarsi dell’Impero Bizantino fino alla sua caduta nel 1453. L’ultima considera gli sviluppi all’interno dell’ortodossia russa fino alla Rivoluzione d’ottobre. Secondo von Ivánka, le importanti differenze tra cattolici e ortodossi nella concezione del rapporto tra Chiesa e Stato sono da ricondurre più a fattori storici che a eventuali influssi culturali sui bizantini, estranei alla tradizione europea. Alcuni importanti eventi storici degli ultimi due secoli potrebbero inoltre accendere la speranza di un riavvicinamento dei due ambiti culturali e religiosi.
Rustichello si è già fatto parecchi anni di galera. Marco c'è capitato da poco, in prigione, ostaggio dei genovesi. Che debba proprio finire così, in gattabuia, dopo tutti quegli anni spesi tra giade, ori, principesse e cavalieri? Se uscire non si può, non rimane che cavarsene fuori, dalla miseria della detenzione, a forza di storie e di ricordi. Marco racconta, Rustichello, che è scrittore di professione, scrive parola per parola. Qua e là taglia, aggiusta, cuce frasi, ci mette un po' di suo. La specialità di Rustichello, pisano, sono i romanzi cavallereschi. Marco ha un'altra specialità. Sa vedere. Il Milione, nato quasi per caso nelle carceri genovesi, nel 1298, non è solo il più famoso libro di viaggi della storia occidentale. Quello che lo rende unico è lo sguardo di Marco. Uno sguardo acuminato, preciso come un registro mercantile, capace di tener conto anche dei dettagli più minuti: di come venga montata una tenda nella steppa, di quanto costino le perle, del galateo dei banchetti mongoli. Ma anche uno sguardo morbido. Marco sa essere pietoso, simpatico, aperto. Ha lasciato Venezia da ragazzo, assieme al padre e allo zio. Allora non poteva saperlo, ma avrebbe rivisto i marmi di San Marco solo 24 anni più tardi. Si è avviato verso terre lontanissime per raccogliere onore, conoscenza e, perché no, profitto. L'entusiasmo per le infinite novità e le continue scoperte cancella ogni nostalgia di casa. Scoprire, capire, raccontare, questa è la sua missione. Strada facendo, Marco ha incontrato una folla di uomini e donne di cui non si sapeva nulla, né a Venezia né in tutta Europa, molto diversi per consuetudini alimentari, economiche, sociali, famigliari e sessuali, spesso in stridente contrasto con quelle dell'Occidente cristiano. Li ha visti com'erano, senza volerli per forza trasformare in qualcosa d'altro, più facile da capire e da accettare. Giulio Busi accompagna Marco Polo lungo le carovaniere d'Oriente, alla corte del Gran Qan, in città remote dai tetti lucenti. Lo segue con l'abituale scrupolo per le fonti, annotando meticolosamente e con consumata maestria narrativa ogni tappa, ogni evento. Tanto viaggiare ha uno scopo ben preciso: catturare lo sguardo di Marco. Per rivedere quello che lui ha visto, con i suoi occhi. E per imparare a osservare il nuovo, il diverso, l'altro senza timori e con la stessa limpida meraviglia.
Giustiniano (482-565) è il più noto imperatore di Bisanzio. Originario dell’Illirico, percorse una brillante carriera pubblica fino a salire al trono nel 527 assieme alla famosa consorte, Teodora. Il nuovo sovrano di Bisanzio si sentiva profondamente romano e si ripropose di attuare alcuni obiettivi che cambiarono profondamente l’assetto del suo impero, riformandolo dall’interno, raccogliendo in modo sistematico il diritto romano ed eliminando ogni forma di dissidenza religiosa. Riconquistò poi almeno in parte i territori già appartenuti a Roma e caduti nel V secolo sotto il dominio dei barbari. Il libro restituisce la complessità della sua figura e del suo potere al centro delle crisi militari, demografiche, politiche e teologiche che agitarono l’Impero romano d’Oriente in età tardoantica.
La storia degli ebrei (diceva un illustre studioso di origini ebraiche) è come la gabbia del canarino in un appartamento signorile: se c'è, aggiunge qualcosa; se non c'è, non se ne avverte la mancanza. In effetti, più che fare storia degli ebrei, si ha l'abitudine di fare storia dell'antisemitismo: cioè la storia delle discriminazioni, delle persecuzioni, delle distruzioni che il Popolo eletto ha subito nei duemila anni della sua diaspora. Più che fare storia di un popolo in carne e ossa, singolare e plurale, coeso e diviso, riconoscibile e inafferrabile come tutti i popoli della terra, si tende a fare storia di un popolo monolitico, granitico nello spazio quanto identico nel tempo: perennemente uguale a se stesso, e immancabilmente bersagliato. Ma rappresentato così, il popolo ebraico corrisponde fin troppo - in una forma rovesciata - allo stereotipo antisemita: il Popolo eletto come sublimazione edificante del Popolo maledetto. Dalla Roma di Tito all'Europa dei pogrom, dal ghetto di Venezia alle leggi razziali, dalla Soluzione finale al complotto contro Israele, il popolo ebraico diventa un metafisico tutt'uno di ashkenaziti e sefarditi, uomini e donne, poveri e ricchi, rabbini e laici, marrani e coloni, contadini e commercianti, banchieri e intellettuali, miracolosamente tenuto insieme dagli altrui vizi, e dalle proprie virtù. Sergio Luzzatto coltiva un'idea diversa degli ebrei nella storia. Più che riconoscerli sempre e comunque buoni, sempre e comunque innocenti, sempre e comunque vittime, si appassiona della varietà di vicende storiche e della molteplicità di profili umani che hanno reso (e che rendono) il Popolo eletto, nel bene o nel male, un popolo come gli altri. In questo libro il lettore incontra non già figurine in panpepato, caricature di storia, ma personaggi naturalmente vivi e vitali, complessi e controversi: siano rabbini taumaturghi del medioevo o soldati israeliani nei Territori occupati, siano cappellai del ghetto o straccivendoli della Rivoluzione.
L'America Latina rappresenta una delle aree più originali del «lungo» Novecento. Una realtà composita che ha attraversato il secolo in modo dinamico, spesso violento, trasformandosi in un laboratorio di processi "giocal": il Messico rivoluzionario, il Brasile getulista e l'Argentina peronista, l'impatto della rivoluzione cubana, e dell'Alleanza per il progresso, le teorie della «dipendenza», la teologia della liberazione, la dottrina della Sicurezza nazionale, tra militarismo, desparecidos e mobilitazioni sociali. Il volume estende la sua accurata disamina al Centroamerica della nuova guerra fredda, alla Colombia del narcotraffico e al Venezuela neo-bolivariano, per poi inoltrarsi nelle novità del primo quarto del XXI secolo, segnate da crisi finanziarie, movimenti popolari, neo-indigenismi, pentecostalismi e sfide transnazionali, sullo sfondo della grande questione ecologica.
Dall'inizio dei tempi la creatività e l'ingegno scientifico si sono sviluppati di pari passo con la capacità dell'uomo di generare orrori. Sono in pochi a ricordare che, durante la Grande Guerra, il massacro sistematico che sconvolse l'Europa dal 1914 al 1918 fu proprio la causa dell'intuizione di Albert Einstein. Il grande fisico formulò infatti la sua teoria rivoluzionaria mentre imbracciava un fucile a Berlino, stremato dalla fame. Alcuni dei più brillanti scienziati dell'epoca erano impegnati a opporsi ai nazionalismi, oppure a diventare pedine nelle mani del potere, che usava la loro conoscenza per sviluppare micidiali armi chimiche. La relatività era una scoperta rivoluzionaria al punto da rimettere in discussione la concezione dell'intero universo e gli scienziati che la sostenevano vennero perseguitati, così come i giornali che ne avevano parlato. L'astronomo americano A.S. Eddington guidò una pericolosissima spedizione per provare la fondatezza della teoria di Einstein durante una rarissima eclissi solare. Il risultato di questa epica impresa rese la relatività celebre in tutto il mondo.