Un anarchico, un re e un cocchiere. Tre persone che non hanno nulla in comune; tre vite diverse che si incontrano la sera del 29 luglio 1900 a Monza. Uno spara, uno muore, l'altro osserva. Tre voci, tre punti di vista per raccontare un giorno come tanti che ha visto il primo di una serie di omicidi politici che avrebbero costellato i decenni a venire. Gaetano Bresci, l'anarchico, è un operaio figlio di contadini, un emigrato in New Jersey, un uomo ora radicato negli USA ma capace di lasciare tutto e attraversare l'Atlantico per vendicare gli oppressi dalle violenze del sovrano. Un uomo comune che con il suo atto dirompente diventa un mito destinato a sopravvivere per decenni. Il re è Umberto I, 're buono' perché abolisce la pena di morte, ma anche 're mitraglia' perché sostiene le cannonate di Bava Beccaris durante i moti popolari a Milano. La politica, gli stili di vita, le condizioni culturali, sociali ed economiche dei due uomini, Umberto I e Gaetano Bresci, diventano così il pretesto per raccontare un'epoca con le sue tensioni e le sue contraddizioni. E, infine, c'è il terzo protagonista: il cocchiere. Una figura marginale e fino a oggi trascurata eppure centrale nella scena del delitto. Un osservatore particolare: invidia e non sopporta il re con il suo snobismo e i suoi eccessi, ma non capisce e nemmeno si accorge di tutta la tensione sociale che attraversa il Paese. In questo giorno si chiude per l'Italia l'Ottocento, secolo della nascita della nazione e dello stato unitario, e comincia a prendere forma il Novecento, secolo delle masse.
Il 20 settembre 1870 è appena passato. Roma è stata eletta capitale del Regno d’Italia, lo Stato Pontificio non esiste più, il potere temporale dei papi è un ricordo, anche se molto vivo. La città eterna si appresta a scrivere un nuovo, rocam-bolesco capitolo della sua storia. È un periodo di cambia-mento che suscita speranze e illusioni, ma anche paure e rifiuti.Cavour, Azeglio e altri grandi attori del Risorgimento sono già scomparsi, seguiti, nel giro di pochi anni, da Mazzini, Vittorio Emanuele II, Pio IX. Garibaldi è l’ultimo ad andar-sene. Insieme agli interrogativi sul rinnovamento della cit-tà compaiono i primi segni caratteristici della nuova Italia. Nell’urbe – tra misteri insoluti, omicidi, suicidi, rovesci di fortuna, proteste politiche e sociali, complotti, duelli, tre-sche e processi – prendono forma le vicende di personaggi molto eterogenei come Raffaele Sonzogno e Giuseppe Lu-ciani, Agostino Depretis e Francesco Coccapieller, France-sco Crispi e Giovanni Giolitti, Costanzo Chauvet e Felice Cavallotti; ma anche questioni spinose come l’esplosione della febbre edilizia e il suo tracollo, cui fa seguito il formi-dabile scandalo della Banca Romana. Roma, caput mundi, disordinata, entusiasta, impreparata, sorprendente, trasfor-mista, è già diventata cuore e specchio della psicologia di una nazione.In Italiani a Roma, quarto volume dedicato alla sua città, Stefano Tomassini dopo 150 anni rilegge gli articoli dei quotidiani dell’epoca, gli atti giudiziari, i discorsi parlamentari e le memorie dei protagonisti per restituirci le cronache degli anni successivi all’Unità d’Italia. Con il suo ritmo denso e la sua prosa evocativa, Tomassini fa luce su questa importante e poco conosciuta fase di passaggio nella vita di Roma, dei suoi abitanti, dell’Italia tutta.
La mattina del 5 gennaio 1895, nella piazza d'armi dell'École Militaire, il capitano Alfred Dreyfus venne degradato perché ritenuto colpevole di tradimento. La spada spezzata sul ginocchio e le spalline strappate dalla divisa cancellarono di colpo non solo una carriera militare, ma anche un sogno: quello di poter servire lealmente un Paese al quale sentiva di appartenere senza riserve. Il sogno, cioè, dell'assimilazione. Lo stesso che molti ebrei d'Europa avevano coltivato fin dall'alba dell'età moderna. Perché in Russia come in Spagna, a Praga come a Berlino, assimilazione voleva dire emancipazione e integrazione, pace e sicurezza, dopo infinite persecuzioni. E pazienza se significava anche rinunciare alla propria identità: gli ebrei lo sapevano, da sempre ai privilegi accordati avevano fatto seguito i decreti di espulsione, alle patenti di tolleranza le calunnie del sangue, all'allentamento dei divieti i pogrom. Nulla li avrebbe messi al riparo dal capriccio dei potenti o dall'odio della marmaglia, ci sarebbero stati ancora i ghetti, le caricature oscene, i pamphlet antisemiti. E poco importava che ad attaccarli fossero l'apostolo della tolleranza Voltaire, Karl Marx o Richard Wagner, o che entro la fine dell'Ottocento, molto prima del "Mein Kampf", la parola "annientamento" facesse la sua comparsa nel vocabolario dell'antisemitismo. Era sempre successo e sarebbe successo di nuovo. A meno che non si fosse trovato un posto dove stare, l'Ha-Makom, il Luogo dove sentirsi al sicuro, la patria cui appartenere. Che fosse Odessa, la città cosmopolita, o il West americano, la frontiera delle infinite opportunità, o Poh-Lin, la terra degli "shtetl", della miseria e degli "schnorrer". O piuttosto la Palestina, dove Theodor Herzl sognava di edificare lo Stato ebraico, l'unica vera salvezza per gli ebrei, il solo modo per sottrarsi al «suicidio di massa» e alle promesse, illusorie, dell'assimilazione. In questo secondo volume della sua "Storia degli ebrei", Simon Schama ci accompagna ancora una volta in un mondo di avventurieri visionari e falsi Messia, di marrani e "conversos", di donne coraggiose, mercanti e straccivendoli, di celebri compositori, pugili e banchieri cosmopoliti.
Se non si conta la fugace comparsata (56 giorni) di Umberto II, "re di maggio" nel 1946, il regno d'Italia non è durato che tre re: Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III. Spettò ai primi due, negli ultimi decenni dell'Ottocento, il compito non sempre grato di accreditarsi come sovrani del nuovo regno. Attentamente costruito su una mole ingente di testimonianze edite e inedite, questo libro racconta per la prima volta come si svolse la vita di quei due primi re d'Italia. Dai problemi per il trasferimento della capitale a Firenze e Roma alle bizze della "bela Rosin" e alla popolarità di Margherita; dalle visite solenni alle città ai ricevimenti e alle udienze, dai funzionari alle dame di compagnia, dalle cacce agli intrighi, la corte della prima monarchia italiana, nella sua dimensione sia pubblica sia privata, riprende vita attraverso le vicende dei protagonisti.
Il primo dei quattro volumi dell'"Atlante del Ventesimo secolo" copre l'arco temporale che va dal 1900 al 1918: avvenimenti centrali sono la prima guerra mondiale, alla quale sono dedicati una decina di documenti, e la rivoluzione russa. Due vicende che si collocano alla fine del periodo e che, per il loro esito, avranno grande influenza sugli anni successivi. Con la guerra gli Stati Uniti entrano prepotentemente sulla scena mondiale mentre la rivoluzione bolscevica determina la nascita dell'altro grande protagonista della storia politica di tutto il secolo. La conflittualità interna all'Italia è largamente documentata, con una particolare attenzione alle lotte sociali, all'emergere del nazionalismo, alla scelta di Mussolini per l'intervento e all'ingresso del paese in una guerra che vide il rischio di una drammatica sconfitta prima di concludersi con una decisiva vittoria.
Un immenso patrimonio di figure intellettuali, movimenti e concezioni che furono due volte eretici: per l'ideologia liberale e per i regimi storici del comunismo novecentesco
Il Novecento, secolo del comunismo e del suo fallimento. La somma di queste due affermazioni, tutt’altro che prive di fondamento, ha prodotto la cancellazione di persone, movimenti, concezioni che non hanno solo un significato storico, ma anche un valore per il presente e per il tempo futuro.
L’Altronovecento è un progetto concepito e sviluppato dalla Fondazione Micheletti di Brescia e dall’Editoriale Jaca Book, coinvolgendo, anche tramite vari seminari e incontri, decine di studiosi affinché si venisse a delineare un percorso di movimenti e singole personalità protagonisti del comunismo critico ed eretico del Novecento in Europa e nel mondo. Questo viaggio fra intellettuali, autori e attivisti politici - personalità di assoluto valore, qualche volta di grande fama, in altri casi sconosciute oggi al grande pubblico - raccoglie esperienze e posizioni fra loro diversissime, ma accomunate da alcuni elementi che ne definiscono l’atteggiamento due volte critico e la conseguente duplice eresia. Essi furono anzitutto critici sia del capitalismo liberal-democratico, sia del nazi-fascismo; ma furono anche critici delle varie forme novecentesche di comunismo realizzato, pur muovendo dall’adesione all’idea di comunismo e dal concetto di una sua qualche forma di concreta attuabilità storico-politica. Figure ed esperienze che sono quindi senz’altro eretiche per l’ideologia liberale, ma che sono state tali anche per i regimi storici del comunismo novecentesco e non a caso molti di questi protagonisti sono stati oggetto di attacchi anche furiosi da parte dei portavoce ideologici di tali Stati e dai partiti comunisti che ad essi si rifacevano. La storia politica del comunismo è stata scritta, tanto nell’Occidente liberale quanto oltrecortina, sotto il pieno condizionamento di questa lettura ideologica. È vero però che all’interno delle rivoluzioni del Novecento (tutte potentemente influenzate dal comunismo) si sono manifestate tendenze e comportamenti in aperta contraddizione con i sistemi di aggressione e dominio poi posti in essere dai partiti comunisti al potere. Con la necessità, tutt’altro che esaurita, di spiegare come e perché si produsse lo stravolgimento, sino alla catastrofe. Con quest’opera, di cui qui si presenta il primo volume, si intende quindi restituire un immenso patrimonio di idee e di esperienze, un Novecento «altro» che è tempo di svelare dopo decenni di oblio o di incomprensione.
Una ricostruzione classica, ancora oggi insuperata per originalità di taglio interpretativo e freschezza di racconto, del pensiero filosofico italiano della prima metà del secolo. Come afferma lo stesso Garin nell'Avvertenza iniziale: "più che alle opere conchiuse nella loro definitiva compostezza, si è guardato alle riviste e ai giornali, in cui le dottrine si affacciarono dapprima, o in cui discesero poi a combattere in una polemica o a volgarizzarsi in una propaganda. (...) In altri termini, uomini e dottrine sono qui considerati come espressione di un tempo e, insieme, come forze che in un tempo agirono: non spiriti disincarnati, ma persone reali, che presero posizione in terra anche quando dichiararono l'inconcludenza sublime e l'oltremondanità del pensiero".
Una ricostruzione classica, ancora oggi insuperata per originalità di taglio interpretativo e freschezza di racconto, del pensiero filosofico italiano della prima metà del secolo. Come afferma lo stesso Garin nell'Avvertenza iniziale: "più che alle opere conchiuse nella loro definitiva compostezza, si è guardato alle riviste e ai giornali, in cui le dottrine si affacciarono dapprima, o in cui discesero poi a combattere in una polemica o a volgarizzarsi in una propaganda. (...) In altri termini, uomini e dottrine sono qui considerati come espressione di un tempo e, insieme, come forze che in un tempo agirono: non spiriti disincarnati, ma persone reali, che presero posizione in terra anche quando dichiararono l'inconcludenza sublime e l'oltremondanità del pensiero".
Marcello Flores dedica un'attenzione speciale al mondo extraeuropeo, alle dinamiche tra centri e periferie del globo, agli eventi che unificano sotto i medesimi processi paesi diversi e lontani. La novità di questa storia risiede principalmente in uno sguardo spiazzante che sa rendere evidente come il Novecento sia un secolo a dimensione globale: un secolo mondo appunto. Una narrazione concreta e densa di fatti in cui accanto all'evoluzione economica e sociale trovano posto i mutamenti della mentalità, la storia dei paesi e la storia degli uomini, secondo un tracciato che va, in questo primo volume, dalla guerra dei boxer alla seconda guerra mondiale.
"'L'Italia del Novecento' è la descrizione dell'Italia e degli italiani attraverso lo sguardo delle istituzioni e dei partiti, quello dei fotografi professionisti o delle agenzie e quello stesso degli italiani che si sono autorappresentati attraverso la fotografia di famiglia. Dall'incrocio di questi sguardi emerge una storia italiana in cui la complementarità tra locale, regionale e nazionale rappresenta la soluzione adottata, autonomamente dal basso, per sopperire alle carenze dell'"artificialismo" statuale; queste identità locali sono infatti sopravvissute con spontanea vitalità, non ponendosi in alternativa alo Stato unitario ma semmai sottolineando i limiti nella capacità di attivare un efficace processo di integrazione." (G. De Luna)
Questo libro stabilisce un collegamento costante tra la storia della famiglia e la più ampia e drammatica storia della prima metà del Novecento. Finora nessuna storia del XX secolo aveva posto al centro della propria analisi la famiglia né aveva esaminato i momenti chiave della rivoluzione e della dittatura attraverso le lenti della vita familiare. Ginsborg attinge a un repertorio sterminato di fonti e letture per mettere insieme immagini e storie che fotografano le dinamiche familiari e il loro contesto sociale e politico. Coniugando storia sociale, narrazione biografica e storia della cultura, Ginsborg concentra la sua indagine comparativa su cinque paesi: la Russia, nel passaggio dall'Impero allo Stato sovietico; la Turchia, dall'Impero ottomano alla Repubblica; l'Italia fascista; la Spagna della rivoluzione civile; e la Germania, da Weimar allo Stato nazista. Costruendo ogni capitolo come una piccola biografia di un personaggio emblematico - da Halide Edib e Margarita Nelken, ad Aleksandra Kollontaj; dal gerarca nazista Goebbels al futurista Marinetti e al comunista Gramsci - lascia intravedere sullo sfondo la vita familiare degli stessi grandi dittatori - Stalin e Hitler ma anche Atatürk, Franco e Mussolini. Emerge un quadro in cui le risorse delle famiglie affetti, rete, solidarietà, segreti e lealtà - si fanno sentire anche quando il loro mondo sembra totalmente schiacciato dai regimi dittatoriali.
Il libro nasce con l'idea di rileggere le complesse relazioni tra Stato e Chiesa nel Messico di inizio '900 attraverso lo specchio della questione indigena. Ne scaturisce un percorso che parte dall'epoca liberale del "porfiriato", attraversa gli eventi rivoluzionari e si concentra sulla fase "ricostruttiva" degli anni Venti, intrecciando storia politica, sociale, culturale e religiosa. In quella stagione di modernizzazione si sviluppò un'azione dirompente da parte dello Stato che arricchì di nuovi elementi, miti e speranze, i progetti di costruzione nazionale e il confronto-scontro tra centro e "periferie". Al contempo la Chiesa cattolica cercò di riorganizzarsi, sia sul fronte sociale che missionario, ridefinendo la propria complessità. Fu in questo periodo di tensioni esterne e rivoluzioni interne, scontri verbali, leggi radicali, esperimenti sociali, scioperi del culto e lotte armate, che si registrò il riemergere della questione indigena, cruciale per gli equilibri (ideali e concreti) della nazione. In questa luce s'è cercato di rileggere fenomeni quali il rilancio missionario, il cattolicesimo sociale, lo zapatismo, le rivolte armate, le "missioni culturali" e le politiche di "defanatizzazione". Chiesa e indigeni erano infatti presenti, nella loro profondissima complessità, su tutti gli scenari verso cui si muoveva l'azione dei governi "rivoluzionari".